Dopo aver imperversato per
giorni sulla giustizia e aver usato persino la ribalta della mozione di
sfiducia per un’invettiva estemporanea, ma forse no, contro “la barbarie giustizialista” che avrebbe avvelenato il paese dai tempi di
Mani Pulite, il presidente
del Consiglio è rimasto significativamente silente su quanto sta emergendo in Campania con “il caso Graziano”. E pensare che la Campania e
Napoli, in mano al “masaniello” De
Magistris, sono stati i set prediletti, prefettura inclusa, per esibire
la corrispondenza di amorosi sensi con il mitico De Luca presidente anche grazie agli impresentabili “certificati” da cui per lungo tempo si era
mantenuto prudentemente distante, e per sostenere la candidata Valente, premiata dalle ennesime
primarie opache e contestate.
Ma ora non si tratta di fare passerelle per esibire presunti stanziamenti
milionari ma di pronunciare parole nette da parte di un segretario di partito
che usa il territorio solo per la
propaganda elettorale, nonché di un presidente del Consiglio tanto
“interventista” da rivendicare la paternità dell’emendamento su Tempa Rossa per
“assolvere” il suo ministro per le Riforme e soprattutto per tentare di
delegittimare l’inchiesta di Potenza e “i magistrati che non concludono i processi”. In una
regione dove Renzi non ha mai
lontanamente messo piede per realizzare la rivendicata politica
“autorevole e seria” non più “succube della giustizia”, si è squadernato uno scenario che vede al centro il clan Zagaria quale
corruttore di pubblici funzionari tra cui spicca il presidente
regionale del Pd, Stefano Graziano, che,
come risulta dalle intercettazioni, avrebbe goduto dell’ appoggio elettorale della camorra in cambio degli appalti
pilotati in suo favore.
E se si volesse fare una
veloce ricognizione della progressiva presa di distanza e poi
totale rimozione della proclamata “pulizia” iniziale all’interno del partito,
basterebbe andare all’ormai lontano 15 maggio 2014 quando il Pd, sotto la
pressione del M5s e nonostante alcune decine di defezioni, si pronunciò per l’autorizzazione a procedere nei confronti di Francantonio Genovese trasmigrato velocemente in Fi;
poi a seguire Marco
Di Stefano rinviato a giudizio per abuso d’ufficio, truffa e
falso è rimasto sempre iscritto al partito, Vito De Filippo, sottosegretario indagato a Potenza per
induzione indebita, è sempre al suo posto e la lista degli impresentabili redatta dall’Antimafia, secondo
il codice di autoregolamentazione del Pd, è stata usata
come un macete contro la presidente Rosy Bindi.
In
questo contesto va inserita l’insofferenza velenosa
nei confronti degli interventi del neo presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, che
si è limitato nel suo linguaggio diretto e inequivocabile a una constatazione
fattuale e cioè che oggi i politici che rubano, e quanti siano abbiamo modo di
constatarlo quotidianamente, non si vergognano più e rimangono al loro posto. E
quanto “l’elogio della vergogna come baluardo dell’etica pubblica” preceda le
parole puntuali di Piercamillo Davigo
ce l’ha ricordato dalle pagine del Corriere
Gian Antonio Stella che è
partito da Giacomo Leopardi e da Carlo Marx per arrivare alla “scomunica”, molto più recente,
per i corrotti definiti da Papa Francesco,
lodato da tutti per opportunismo, come “coloro che non hanno vergogna”.
Quanto
ai contenuti espressi da Davigo e al diritto-dovere del magistrato di parlare e
non solo con le sentenze, come pretendevano i sistemi monarchici
precostituzionali che lo relegava a “bocca della legge” e cioè del potere, è intervenuto anche Raffaele
Cantone precisando che vi sono scelte della politica
imprescindibili che non possono essere sostituite dalla legge. La politica
che vuole essere “seria ed autorevole” deve vigilare e
intervenire sulla selezione ben prima del controllo della magistratura
perché “ci sono impresentabili che hanno la fedina penale immacolata”. E così,
pure sull’introduzione dell’agente sotto copertura, utilizzato nelle
democrazie più avanzate come deterrente contro la corruzione e che in Italia
viene considerato un attentato alla classe politica, Raffaele Cantone, usato troppe volte dal Pd come una
specie di santino da ostentare in funzione meramente propagandistica, si è espresso in
totale sintonia con “il provocatore” Davigo.
Identica consonanza sulla
gravità della penetrazione mafiosa e sulla centralità dello strumento
delle intercettazioni, di cui anche Armando
Spataro ha segnalato la genericità della delega governativa,
ha espresso anche il procuratore Pignatone che è ritornato pure sull’esigenza
improrogabile di riformare la prescrizione che ha un impatto fortissimo sui
tempi dei processi per corruzione. Viene legittimo il dubbio
che l’intralcio al funzionamento della giustizia e ai processi che “non vanno a
sentenza” non siano le analisi impietose di Davigo
ma il polverone che solleva il presidente del Consiglio per perseguire il
contrario di quanto afferma a proposito di voler velocizzare la macchina
giudiziaria (a costo zero) in perfetta continuità con il recente passato.
Daniela Gaudenzi (IlFatto Quotidiano – 28 aprile 2016)
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