«Per essere credibili bisogna essere ammazzati in
questo Paese». Così Giovanni Falcone rispose in tv a una ragazza che gli
chiedeva: «In Sicilia si muore perché si è lasciati soli. Giacché lei
fortunatamente è ancora tra noi, chi la protegge?». Erano i giorni in cui
girava voce che l’attentato all’Addaura (fu trovata una borsa di tritolo sulla
scogliera davanti alla sua casa al mare) lo avesse organizzato da solo per fare
carriera, perché la mafia non sbaglia, se vuole uccidere uccide.
A ogni commemorazione della strage di Capaci, non
posso fare a meno di ricordare che allora come oggi la grammatica comunicativa
è la stessa, se non peggiore: solo sui cadaveri gli italiani riescono a
esprimere una solidarietà e un’empatia disinteressate. A chi si preoccupava
perché fumasse troppo, Falcone rispondeva: «Non mi uccideranno le sigarette».
Sembra un dettaglio futile, ma la storia di Giovanni Falcone dobbiamo
raccontarla, per conoscerla davvero, seguendo percorsi laterali, unendo i
puntini dei dettagli futili. E dettagli futili sono il veleno quotidiano e le
accuse che a Falcone venivano rivolte da colleghi magistrati e da giornalisti
per come lavorava e comunicava. Falcone innovatore del diritto, Falcone
magistrato che dava una solidità tale alle sue inchieste da superare la più
difficile delle prove, la verifica dibattimentale, possedeva doti preziose ma
solo in astratto. Per queste doti — innovazione e rigore — Falcone in vita fu
considerato magistrato poco ortodosso e insabbiatore. Odiato, ostacolato,
disprezzato, esposto alla pubblica disapprovazione e isolato e non, come la
storiografia ufficiale ci tramanda, apprezzato, rispettato, appoggiato. Questo
è il torto più imperdonabile che si possa fare alla memoria di Falcone,
perpetrare la menzogna di un talento riconosciuto, di un magistrato che ha
lavorato con il sostegno dei colleghi e dell’opinione pubblica. Queste mie
parole suoneranno odiose e vogliono esserlo perché per capire il Paese che
siamo, dobbiamo sapere che Paese eravamo. E per capire che Paese eravamo
dobbiamo studiare ciò che è stato fatto a Falcone in vita.
Potrebbe sembrare, a un giovane lettore, che Falcone
sia stato l’uomo giusto, rappresentante dell’Italia perbene, ucciso dagli
uomini ingiusti, rappresentanti dell’Italia corrotta. Non è così. La sintesi di
ciò che Falcone ha dovuto subire l’ha fatta, a dieci anni da Capaci, Ilda
Boccassini, il magistrato che forse più di tutti ha ereditato il suo metodo
investigativo: «Non c’è stato uomo in Italia che abbia accumulato nella sua
vita più sconfitte di Falcone. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia sia
stata tradita con più determinazione e malignità». Bocciato come consigliere
istruttore, come procuratore di Palermo, come candidato al Csm, e — continua
Boccassini — sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia,
se non fosse stato ucciso.
Uno dei motori principali dell’ostilità continua verso
Falcone è stato il meno citato in questi anni ed è il più abietto dei
sentimenti: l’invidia. Non sembri un’esagerazione, non è una mia idea, perché
questa parola — invidia — è nero su bianco in una sentenza della Corte di
Cassazione nell’ambito del processo per l’attentato dell’Addaura: “Non vi è
alcun dubbio che Giovanni Falcone fu oggetto di torbidi giochi di potere, di
strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di
invidia e gelosia”. Ma come si poteva invidiare un uomo che era un obiettivo
tanto esposto? Si poteva eccome, non riuscendo a eguagliare il suo rigore e il
suo talento, si arrivava a detestarlo, a cercare di ostacolarlo. E soprattutto
risultava insopportabile a una parte importante del giornalismo e della
magistratura che lui avesse l’ambizione di raggiungere ruoli di vertice per
trasformare la realtà. Meglio farlo passare per un ambizioso affamato di potere
e di pubblicità. Sapete come lo attaccavano? Esattamente con le stesse parole
con cui oggi gli haters riempirebbero i social. Falcon Crest, il giudice
abbronzato, il guitto televisivo, l’amico dei socialisti, l’uomo che usa la
mafia a favore delle telecamere. Sino alle insinuazioni “se è in vita è perché
lo ha permesso Cosa Nostra” ai cui affiliati viene così attribuito potere
assoluto di vita e di morte. Una sorta di omaggio, più o meno inconsapevole,
alla mafia da chi credeva, diceva o fingeva di volerla combattere. E Falcone,
che abbiamo visto rispondere in televisione, non riusciva fino in fondo a
credere possibile di doversi scusare per essere ancora in vita.
Giovanni Bianconi, nel suo libro L’assedio, mette in
fila tutte le vili accuse e le diffamazioni possibili di cui Falcone fu oggetto
e parla di una vita passata a combattere la mafia e a difendersi da tutto il
resto. Falcone aveva contro i mafiosi, chi non riusciva come lui a combattere i
mafiosi, e chi stava a guardare come una corrida chi vincesse tra lui e la
mafia. E Cosa Nostra era lì a osservare il progressivo isolamento, ad aspettare
il momento giusto per colpire. Falcone viene ucciso da direttore degli Affari
Penali, mentre lavora a Roma alla costruzione della Superprocura voluta da
Martelli. Quando Cosa Nostra decide di eliminarlo, manda un commando nella
Capitale che sarà definito simbolicamente la Supercosa, nata per contrastare la
Superprocura. Ma Bianconi scrive che Falcone a Roma è tranquillo e
all’inquietudine di un amico che si preoccupa per lui risponde: «Qui sono
libero di fare quasi la vita che voglio, non rischio nulla. È in Sicilia che
sono un morto che cammina».
lcone prima e Borsellino poi sapevano di avere il
destino segnato, eppure non si sottrassero alla morte. Ma dobbiamo leggere e
interpretare il loro martirio sapendo che non era possibile fare marcia
indietro dopo tutto il sangue versato. Erano morti colleghi magistrati,
poliziotti, nascondersi non si poteva, cambiare vita era troppo tardi. E allo
stesso tempo, pensare a Falcone e Borsellino come due uomini rassegnati alla
morte significa non comprendere fino in fondo il valore del loro sacrificio.
Giovanni Falcone voleva vivere. Paolo Borsellino voleva vivere. Nessuna
vocazione da parte loro al martirio, tutt’altro.
Mi capita di paragonarli a Giordano Bruno perché anche
Bruno voleva vivere e quindi credendo di potersi salvare decise di abiurare.
Bruno abiura più d’una volta, ma all’inquisizione non basta che taccia, che
ometta, che ragioni da filosofo. L’inquisizione vuole delegittimare quello che
ha scritto, verità etiche che l’uomo non può negare perché se le negasse
smetterebbero di esistere. Non si tratta di negare il moto della Terra che è un
dato fisico e, per quanto lo si neghi, vero. Negare verità etiche significa
cancellarle. Nel teatro dell’inquisizione Bruno ha creduto di poter recitare la
parte di colui che si pente, fino a quando non capisce che la posta in gioco è
troppo alta, molto più alta della sua stessa vita. Anche Falcone e Borsellino
sono stati costretti a difendere la verità del loro lavoro con il sacrificio,
un sacrificio che non poteva essere pubblicamente rivendicato perché adesso
come venticinque anni fa la delegittimazione è percepita come autentica, più
autentica di ogni legittima difesa. Buonisti li chiamerebbero oggi, di quelli
che senza prove certe non lanciano dardi, nemmeno contro un nemico infame come
la mafia.
Falcone e Borsellino insieme a pochi, pochissimi
altri, hanno combattuto contro il può feroce dei nemici sapendo che a loro non
era concessa alcuna scorciatoia; sapendo che per quanto il loro nemico fosse
disonesto, scorretto e potente potevano contrastarlo con una sola arma: il
diritto. Solo il diritto era garanzia, solo attraverso quello si sarebbe
evitato di ledere i diritti di tutti. Una grande lezione per noi oggi, che
vediamo quotidianamente farne strame da chi considera il fine superiore a
qualunque mezzo e il diritto un ostacolo da spazzare via.
Roberto Saviano (La Repubblica - 23 maggio 2017)
Nessun commento:
Posta un commento
Tutto quanto pubblicato in questo blog è coperto da copyright. E' quindi proibito riprodurre, copiare, utilizzare le fotografie e i testi senza il consenso dell'autore.