L’oceanico pubblico dell’Expo la vedrà in video. Che non è la stessa cosa di trovarsi ad una o due spanne, cioè a meno di mezza canna, dall’elegante grafia che percorre le pareti di una stanza di tre metri e mezzo per tre metri e mezzo, numeri che sommati fanno sette, la cifra che attraversa tutte le religioni, i misteri, l’occulto, il magico. L’ignoto. Numero santo e custode di tutto.
È la “Stanza delle meraviglie”, una piccola Moschea blu, una stanza esoterica, camera magica, segreto tempio di una massoneria islamica, raccolta reminiscenza del sufismo? Oppure riunione di sparuti continuatori delle alchimie di Giuseppe Balsamo, nato nella Terra delle Mosche, al di là del Cassaro, e poi diventato Conte di Cagliostro smodatamente amato e odiato in tutt’Europa?
Dipinta di blu, blu oltremare – perché da oltre il “nostro” mare approdava quel colore – alias azzurro di Baghdad, blu egiziano, di Persia, lapislazzulo, il colore che nel deserto con la tagelmust fascia gli “uomini blu” – asciutti e veloci – quello di portoni, finestre e muri arabi, i moreschi azulej di Spagna e Portogallo. Colore assente dalla ritualità islamica – il Corano non lo cita – e non c’è ancora oggi nei sacri paramenti degli officianti cristiani. Niente d’importante era blu sino al Pieno Medioevo: non c’erano paladini blu, vessilli, cieli, Madonne, vesti sacre e laiche blu. La fortuna si colora d’azzurro nell’Ottocento, e a metà secolo l’ebreo Levi Strauss dal blu di Genova inventa gli immortali blue jeans.
Una stanza “imperscrutata” che sembra illuminata dalla
terra di nessuno quasi d’indaco fra Oriente e Occidente, microscopica vedetta
che vuole guardare verso la Mecca per distinguere prima delle albe dorate “un
filo bianco da un filo nero”. È nel palazzo palermitano al numero 237 della via
Porta di Castro, al di qua del Cassaro, che fila dritta da Ballarò per tutta
l’Albergheria e si estingue quasi di fronte a San Giovanni degli Eremiti.
Disposta con un po’ di gradi in meno per l’allineamento con la Kaaba ma con la
certezza di cogliere quel filo che separa la notte dalla luce.
Scoperta fortunosa, meglio accidentale: l’angolo di
una parete era roso dall’umidità ma la coppia dei nuovi proprietari della bella
dimora – da restaurare con dispendioso impegno – voleva farne una stanza-giochi
per il bambino. Il muratore mise mano e scoprì quell’azzurro vecchio e scurito
sotto nove mani di pittura; prime brusce d’inizio Novecento, poi un
susseguirsi seppellitorio di colori sempre più sciocchi e corrosivi.
Restauratori, arabisti, esperti di lingue orientali,
iranisti e anche archeologi hanno perquisito la stanza. Ma dopo dodici anni (la
scoperta è dell’estate del 2003) nessuno è riuscito a diradare l’arcano che
sorveglia quelle scritte, dare un significato alle volute che sembrano “tughre”
ottomane, scoprire se quei versetti, sette per ogni parete, sono spezzoni di
sure o formule di alchimisti, degli ultimi negromanti, oppure antiche liturgie
di augurio. E nemmeno se i sette disegni fra ogni parete e il tetto siano
lucerne, l’occhio di Dio nelle Scritture, nel Talmud e nel Corano.
L’incantesimo rimane circondato da prudenti
pronunciamenti nei quali la parte polposa è il non averci capito nulla.
Vittorio Sgarbi sostiene che si tratta di un «simbolo perfetto dell’eterna
presenza araba in Sicilia, così come della vocazione interculturale che di
quella presenza è frutto». I raggi ics del meccanismo d’avanguardia della
società S. T. Art-Test rivelano che tutto quel blu e oro è stato spennellato
nella seconda metà dell’Ottocento. Il docente di Conservazione e Restauro
all’Università palermitana, Franco Fazzio, suggerisce di interpretare le
scritte come messaggi augurali. Il presidente della Lega Islamica in Italia,
Farees Al Khotani, sostiene di aver interpretato qualche lettera, ma si tratta
di «uno stile antico. Debbo studiare il caso, confrontando con le scritture
della Mecca ove abbiamo grafie e caratteri succedutisi nei secoli».
Frasi non prive di diplomazia, un po’ assomiglianti a
quelle che l’ambasciatore marocchino Muhammad Ibn Uthman al Miknasi aveva pronunziato
nel 1782 nella biblioteca benedettina di san Martino delle Scale osservando una
sira (biografia) di Ibn Sayyid an-Nas al Yà’muri dedicata a Maometto: «Scritta
con antichi caratteri di tipo orientale». Visita raccontata dallo stesso
ambasciatore nel volumetto La luna risplendente del quale ho visto una
seconda edizione, tradotta e curata da Adalgisa De Simone e stampata dalla
tipografia Corrao di Trapani “nell’anno del signore 1986” per il liceo ginnasio
Gian Giacomo Adria di Mazara del Vallo. Si evince dalle note che lì, come
accompagnatore e interprete dell’ambasciatore, c’era Giuseppe Vella, l’abate
gerosolimitano che ebbe fama in tutt’Europa, conobbe la galera e morì quasi in
solitudine in una campagna del Monrealese. Lui la sira e altri codici li guardò
con l’occhio sinistro, e quando se ne impossessò e li scarabocchiò per farli
diventare “Il Consiglio di Sicilia”, disse che erano scritti in caratteri
“mauro-sicoli” o “mauro-occidentali”. E nessuno poté dirgli non è vero perché
l’arabo, in qualunque sua parlata e scrittura, in Sicilia era stato dimenticato
da qualche secolo.
L’autore della minzogna saracina
(Giovanni Meli) e dell’arabica impostura (Domenico Scinà) l’unica cosa
che davvero rivelò fu la totale ignoranza degli eruditi siciliani – e italiani
e anche europei di cose arabe. Se quei codici li avessero letti i pirati
dell’Acquasanta o quelli trapanesi – mi gioco tutta la posta – avrebbero subito
cominciato a recitare le preghiere a Maometto. Come quasi sempre accade nei
fuggi fuggi culturali quando una cantonata sesquipedale o una beffissima viene
smascherata – penso alle teste di Modigliani fatte trovare da alcuni discoli
livornesi nel 1984, centenario della nascita del pittore – i sostenitori
dell’impostore scomparvero e lasciarono Vella a tu per tu con l’implacabile
Rosario Gregorio, il “pennuto” demolitore dell’intrigo. E lo sono ancora,
perché entrambi sepolti in San Matteo, lungo il Cassaro, nella prima cappella
entrando a sinistra.Un comune ed eterno destino, forse con reciproco perdono.
Ci sono troppe circostanze che fra i secoli
testimoniano a favore del sospetto degli scettici: in Sicilia il tempo –
giorni, anni, millenni – non trascorre ma si avvolge ad una vite senza fine con
un andare e ritornare che per definirlo ci vorrebbe una equazione ancora non
trovata. La cultura rischiarata dai Lumi dell’ultimo Settecento non era
attratta dagli accadimenti sul Mediterraneo, malgrado pirati di numerose
bandiere vi commerciassero soprattutto merce umana. La prima cattedra
universitaria di Lingua araba venne assegnata, nel 1785, proprio all’abate
Vella, conoscitore di oscuri argot maltesi e balbettatore di arabo. Nell’oggi
2015, con il Mediterraneo in mano ai pirati detti scafisti, il mare che si va
colmando di disperati – e disperanti – morti, con tutta l’Europa
che non sa cosa fare – o meglio, che non vuole saperlo – la cultura più
concreta e tecnologica, dopo 12 anni non riesce a dare conforto agli
interrogativi dei giornalisti Giuseppe Cadili e Valeria Giarrusso, proprietari
dell’appartamento, che con grazia e sacrificando il loro tempo, permettono di
visitare la “wunderkammer”.
Secondo Sherif el Sebaie, professore di arte islamica
al Politecnico di Torino, «la stanza è stata soprannominata dai media “la
Moschea blu” benché manchi il rivestimento parietale a cui la Moschea blu di
Istanbul deve il suo nome: in realtà sono tanti gli elementi che fanno di
questo locale un esemplare di quel tipo di ambiente che andava di moda tra la
fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, la cosiddetta stanza
turca». «Mai visto nulla di simile e tanto singolare rispetto all’epoca –
ha aggiunto Sgarbi – mi sembrano decori fatti intorno all’Ottocento. È una
stanza della meditazione».
«Decori e tecnica – per il professore Franco Fazzio –
sono riscontrabili in una tradizione artistica valida fino al ‘700». «E’ una
piccola moschea – nell’interpretazione del regista Pasquale Scimeca – dentro
una casa probabilmente appartenuta a un ricco mercante». Un mistero che diventa
buffo pensando alle incredibili scoperte della scienza che ci hanno perfino
rivelato la data di nascita della Terra.
Le calligrafie, ripetute sulle quattro pareti della
stanza blu e che potevano sembrare arabe, non sono solo arabe, sostiene il
professor Werner Arnold dell’Università di Heidelberg, uno dei maggiori
specialisti di studi semitici: si tratta di «una scritta composta da un
miscuglio di lettere siriache e arabe» senza apparentemente un senso logico.
Si attende di giorno in giorno una relazione
dettagliata di Chiara Riminuccci Haine, archeologa e iranista, e del marito
Sebastian Haine, iranista poliglotta e specialista di lingue orientali e
asiatiche all’Università di Bonn. Secondo il gossip intorno al lavoro della
coppia, ci dobbiamo aspettare rivelazioni sorprendenti e definitive. Speriamo.
Anche se chi ha la lateralità mancina può essere scettico nell’accostare
l’aggettivo “definitivo” a una cosa siciliana.
Da vedere e rivedere, molto particolare.
RispondiEliminaMaurizio