E adesso? È l'unica domanda che
conti, dopo la Pasqua tardiva che ha visto Matteo Renzi risorgere dalle ceneri
del 4 dicembre. Il segretario del Pd ha ottenuto quello che cercava. Il suo 70%
è un piccolo plebiscito, da usare come uno scettro con gli amici e una clava
contro i nemici (come fu per il 41% delle europee). E se è vero che 1,8 milioni
di voti sono 1 milione in meno di quelli delle primarie 2013, è altrettanto
vero che in tempi di disaffezione politica restano un buon deposito di
democrazia. È un "bagnetto di popolo", che rilancia una leadership
indiscussa e a questo punto indiscutibile. Il Pd è Renzi, e non esistono
alternative credibili. Il Pd è di Renzi, e dunque può farne ciò che vuole. Ma
qui torniamo al punto: ora dove vuole portare il partito e il Paese?
Le questioni essenziali da
chiarire sono tre. Legge elettorale, alleanze e governo Gentiloni. Il Renzi
" reloaded" non chiarisce nulla. Nel comizio di domenica sera
(officiato sul terrazzo di un Nazareno "riconquistato" dall'intendenza
e "bonificato" dalla dissidenza) il segretario si è limitato a dire
ciò che "non sa" e "non vuole". Non vuole rinunciare alla
"vocazione maggioritaria" (diversivo teorico, visto il pantano
neo-proporzionale nel quale stiamo annaspando). Non vuole fare "grandi coalizioni"
se non con la società civile (espediente demagogico, vista l'impossibile
autosufficienza di un solo partito in un assetto tripolare). Non sa
"quando andremo a votare" (dubbio retorico, visto che per rassicurare
davvero Gentiloni avrebbe dovuto dire "si voterà nel 2018").
Il leader vuole tenersi mani
libere. Le elezioni anticipate sono "una tentazione da evitare", come
ha scritto Mario Calabresi. Renzi ne sembra consapevole, quando parla
"umiltà e responsabilità". Ma come insegna la storia, l'Oscar Wilde
che è in lui lo induce a resistere a tutto, tranne che alle tentazioni. Due
"inerzie" lo spingono sul piano inclinato del voto in autunno. La
prima inerzia è psicologica: il suo istinto di " campaigner" in
servizio permanente, la dimensione titanica e immanente del suo comando. La
seconda inerzia è politica: a giugno si votano le amministrative e a settembre
si vara la manovra economica. Passaggi-chiave, sui quali si gioca tutto.
Sulle comunali il segretario
rischia. Non può confondere la parte col tutto, considerando sanata con le
primarie la "frattura" tra lui e il Paese. Ma proprio un'altra
sconfitta al test amministrativo (il Pd potrebbe perdere Genova, dopo Roma e
Torino) può convincerlo ad accelerare il ritorno alle urne, perché il tempo
gioca a suo sfavore e l'Occidente ormai consuma più leadership di quante ne
produca. Sulla Finanziaria il segretario rischia ancora di più. Non può
lasciare che siano Gentiloni e Padoan a maneggiare in autonomia una bomba da 45
miliardi, correndo il rischio che esploda in un cedimento a Bruxelles e in una
stangata fiscale. Sarebbe una cambiale politica salatissima: l'acconto lo
pagherebbe lui per il posticcio " storytelling dei giorni felici" a
Palazzo Chigi, e il saldo finale lo pagherebbe il Pd nell'urna del 2018.
Per questo resta aperta la finestra delle elezioni insieme ai tedeschi, il 24
settembre. Vincendole, scriverebbe lui la Legge di Stabilità senza lacrime e
sangue, sbattendola in faccia ai tecnocrati della Commissione e
"vendendola" agli italiani come ha già fatto con gli 80 euro. È un
marketing che conosce alla perfezione. L'ha riproposto già domenica sera, col
martirologio contro l'Unione ("Europa sì, ma non così") e
l'auto-elogio del suo governo ("il Jobs Act è la cosa più di sinistra che
abbiamo fatto").
C'è una sola, gigantesca
incognita. Per tornare subito al voto serve una legge elettorale che garantisca
governabilità. E questo chiama in causa i Cinque Stelle, gli unici interessati
a un sistema che favorisca le liste e non le coalizioni. Se Renzi ha la forza
di fare un accordo con il M5S, magari con una soglia ridotta al 35% per il
premio di maggioranza, allora può giocarsi il tutto per tutto. Ma se si va a
votare con questo sistema, Renzi ha solo due chance. Se va bene fa il
"governo della Nazione" (si allea con Berlusconi). Se va male fa il
"governo della Dazione" (consegna il Paese a Grillo).
Non pare una prospettiva felice.
Anche per un'ultima, cruciale questione. Quella "identitaria" è stata
nuovamente rimossa con il lavacro di queste primarie. Altro che Bobbio
("diteci chi siete"). Qui prevale Arbore ("meno siamo, meglio
stiamo"). Ma fermo restando che il nemico da battere è Grillo, il Pd deve
uscire da un equivoco. Deve smettere di credere che l'unico modo per "definirsi",
politicamente e culturalmente, sia quello di farlo in opposizione ai
pentastellati. Evocandoli in modo ossessivo. Salvo poi inseguirli in ritardo
sul loro stesso terreno, credendo di curare il "populismo di piazza"
con dosi omeopatiche di "populismo di palazzo".
Se ancora ce l'ha, il Partito di
Renzi deve saper ritrovare una sua "narrazione onesta". Fatta di
contenuti originali, non di slogan rimasticati. Senza scomodare Gramsci (ormai
al Nazareno suonerebbe blasfemo) la famosa "egemonia culturale" si
costruisce mettendo in campo le proprie idee, non presidiando meglio la rete
infestata di troll. In un fortunato pamphlet di qualche anno fa il politologo
americano George Lakoff suggeriva ai democratici, ossessionati da Bush, di
"non pensare all'elefante". Sostituite l'elefante con un Grillo, e
provate a tirarci fuori voi da questa orwelliana "fattoria degli
animali" in cui siamo imprigionati.
Massimo Giannini
(La Repubblica – 3 maggio 2017)
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