Meglio
essere prudenti prima di dare per “finito” il M5S. Prima di leggere il
risultato delle amministrative di ieri come segno, inatteso, di un’inversione
di rotta. Il primo passo di un declino inarrestabile. Conviene attendere altri
test elettorali. Perché le elezioni amministrative costituiscono un passaggio
politico importante, soprattutto quando hanno l’ampiezza di questa
consultazione. Ma sono, più di ogni altra elezione, condizionate da ragioni e
fattori “locali”. Tanto più dopo il 1993, quando la nuova legge sull’elezione
diretta dei sindaci ha “personalizzato” il voto, per restituire legittimità
allo Stato e alle istituzioni, dopo il crollo della Prima Repubblica e le
inchieste sulla corruzione dei partiti e della classe politica della Prima
Repubblica. In effetti, anche l’affermazione del M5S riflette la crisi dei
partiti e della classe politica, dopo il crollo del “muro di Arcore”, che aveva
segnato i confini della cosiddetta Seconda Repubblica, fondata “da” e “su”
Berlusconi. L’ascesa del M5S era avvenuta proprio cinque anni fa, alle
amministrative del 2012.
Quando
Federico Pizzarotti, allora sconosciuto ai più, era divenuto sindaco di Parma,
nella sorpresa generale. Anche a Parma. Tuttavia, in seguito, il rendimento
elettorale del M5s ha seguito un modello preciso. Forte e competitivo in ambito
nazionale, molto meno alle elezioni amministrative.
Per due
ragioni, fra le altre. Perché a livello locale contano i candidati. E, in
secondo luogo, occorre disporre di tradizioni e di basi organizzative. Per
questo il M5S ha alternato risultati importanti, alle elezioni nazionali – ed
europee – con esiti più deludenti, alle elezioni amministrative. Soprattutto in
quelle comunali. Dove più della protesta conta la proposta.
Per dare
un’idea e una misura di questa tendenza bastano poche cifre. Nel 2013, alle
elezioni politiche, con oltre il 25% dei voti validi, il M5S diventa primo
partito in Italia. Ma, solo due mesi dopo, alle elezioni comunali vince in 2
soli comuni “maggiori” (con oltre 15 mila abitanti) sui 92 nei quali si vota.
Successivamente, questo trend si ripete, talora amplificato. Nel 2014 si
rinnovano le amministrazioni in 243 comuni maggiori: il M5S ne conquista solo
3. Eppure, alle – concomitanti – elezioni europee, aveva ottenuto il 21% dei
voti validi. Secondo, a distanza, dietro al Pd di Renzi (oltre il 40%). La
tendenza non cambia neppure nel 2015, quando il M5S vince in 5 comuni, fra i
108 nei quali si vota. Oggi, infine, è al ballottaggio in 9 fra i 160 comuni
maggiori al voto.
Così, la
vera discontinuità con la breve storia elettorale del M5S, è costituita dalle
elezioni amministrative di un anno fa. Nel 2016. Quando il MoVimento ispirato
da Grillo conquista la guida di 19 comuni, fra i 143 al voto. Ma, soprattutto,
vince a Roma e Torino. Due capitali. Che danno a quel voto un chiaro
significato “nazionale”. Anche allora, dunque, il M5S riproduce l’impronta di
“partito senza territorio”, apparsa evidente fin dalle elezioni politiche del
2013. Quando risultò primo o secondo partito praticamente in tutte le province
italiane. Mentre gli altri partiti maggiori, nella storia della Repubblica,
hanno ri-proposto una geografia specifica. La DC e, in seguito, i Forza-leghisti:
“impiantati” nella periferia produttiva del Nordest e del Nord, ma anche in
molte aree del Mezzogiorno. Mentre le basi elettorali dei partiti della
Sinistra – a partire dal Pci e dai suoi eredi – sono sempre state “forti” nelle
zone definite, non per caso, “rosse” dell’Italia Centrale. Il M5S, invece, non
ha radici né tradizioni territoriali. O meglio: sfrutta quelle degli altri.
Perché intercetta i propri elettori dal rifiuto verso i partiti e la politica
tradizionali. Canalizza e amplifica il ri-sentimento. Politico e sociale.
Contro tutti. Così, spesso, allarga i suoi consensi nei ballottaggi, quando si
vota non per il “più vicino”, ma per il “meno lontano”.
Per questo,
come abbiamo mostrato in un Atlante Politico di pochi giorni fa, ha basi forti
fra i più giovani, fra gli operai, fra gli stessi imprenditori. I più esposti
alla globalizzazione. E per questo fatica a rendere stabili le proprie basi
elettorali. D’altronde, ha rimpiazzato il territorio con la rete e con il
digitale. O meglio: il suo territorio è digitale. E dunque fluido. La sua
azione è ispirata alla contro-democrazia, come la definisce Pierre Rosanvallon.
La democrazia del controllo e della sorveglianza. Che stenta a sedimentare. A
costruire un “popolo” di riferimento. Anche per questo il M5S fatica a “stare
sul territorio”, a selezionare e presentare candidati conosciuti e autorevoli.
La Rete, a questo fine, non basta. Tanto più perché, a sua volta, è sorvegliata
dal Garante. In modo non sempre comprensibile ai “suoi” stessi elettori. Com’è
avvenuto a Parma, dove Pizzarotti oggi è un avversario.
Mentre nei
“luoghi amici” del fondatore, come a Genova, gli elettori preferiscono
rivolgersi altrove. Perché il M5S appare in bilico. Canale di critica e
mobilitazione. Ma anche soggetto politico che mira a governare. Visto che nei
sondaggi contende il primato al Pd, con quasi il 30% dei consensi. A livello
nazionale. Questo è il vero rischio per il M5s. Di apparire, agli occhi degli
elettori, un partito come gli altri. E di perdere la sua “diversità”. Mentre
per la classe politica dei partiti nazionali il rischio è di considerare la
battuta d’arresto del M5S in questo primo turno una svolta.
Irreversibile. Sul piano nazionale.
Salvo scoprire, alle prossime elezioni politiche, una realtà molto diversa. Dai
propri desideri. Perché, come recita un antico proverbio, è meglio non vendere
la pelle di Grillo prima di averlo catturato davvero…
Ilvo Diamanti (La Repubblica - 13 giugno 2017)
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