Appena il boss
stragista Giuseppe Graviano, intercettato nell’ora d’aria, ha
dato segni d’insofferenza e lanciato propositi di vendetta per le
promesse non mantenute dai tanti che trattarono con Cosa Nostra per conto dello
Stato e anche per conto proprio in attesa di farsi essi stessi Stato fra il
1992 e il ’94, nel biennio delle stragi, lo Stato non ha perso
tempo e ha subito risposto. Con una sequenza di atti tutti formalmente
legittimi, ma tutti impensabili fino a qualche mese fa.
1) La Cassazione ha respinto il diniego del Tribunale di
sorveglianza di Bologna alla scarcerazione di Totò
Riina, detenuto da 24 anni al 41-bis per scontare 15 ergastoli,
invocando il suo diritto a una “morte dignitosa” nel letto di casa sua, come se
fosse la cosa più normale di questo mondo.
2) Forza Italia ha
chiesto formalmente agli amici del Pd di ammorbidire il nuovo Codice antimafia che
allarga le maglie dei sequestri dei beni a chi risponde “soltanto” di
corruzione o concussione, delitti sempre più difficili da distinguere da quelli
delle nuove mafie.
3) Marcello Dell’Utri ha chiesto di tornare a casa anche lui per fantomatici motivi
di salute, anche se dei 7 anni inflittigli per concorso esterno in
associazione mafiosa ne ha scontati solo 3.
4) Lo stesso
Dell’Utri ha ottenuto il permesso di farsi intervistare su La7
in una saletta del carcere, caso più unico che raro per un condannato detenuto
per mafia e mai pentito, per definirsi “prigioniero politico”
e benedire il governo Renzusconi prossimo venturo, mentre
l’intrepido intervistatore lo chiamava “senatore”.
5) La Cassazione ha annullato le conseguenze della condanna
definitiva di Bruno Contrada a 10 anni per concorso esterno in associazione
mafiosa, in un “incidente di esecuzione” che non entra nel merito del verdetto
e discute la colpevolezza, ma rende “ineseguibile e improduttiva di ogni
effetto” la sua stessa pronuncia.
E così si associa
a quanto stabilito nel 2015 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo,
che ritiene di fatto inesistente il reato di concorso esterno prima del 1994,
perché fino ad allora (quando la Cassazione si pronunciò a sezioni unite) la
giurisprudenza oscillava e gli uomini dello Stato non sapevano che vendersi
alla mafia era reato. Il Contrada che oggi politici, tg e giornaloni ignoranti,
smemorati o in malafede dipingono come un povero martire
innocente e perseguitato per un quarto di secolo dagli aguzzini in toga è
l’uomo che una quarantina di giudici di funzioni e sedi diverse fino alla
Cassazione, han giudicato colpevole di aver fatto per anni il trait d’union fra
Stato e mafia.
Non solo per le
accuse di una ventina di pentiti (le prime furono di Gaspare Mutolo davanti a
Borsellino, assassinato due settimane dopo), ma pure da una gran quantità di
autorevolissimi testimoni. Vari giudici raccontarono la
diffidenza di Falcone e Borsellino nei confronti di “’u Dutturi”: Del Ponte,
Caponnetto, Almerighi, Vito D’Ambrosio, Ayala, oltre a Laura Cassarà, vedova di
Ninni (uno dei colleghi di Contrada alla Questura di Palermo assassinati dalla
mafia mentre lui vi colludeva). Tutti a ripetere che Contrada passava
informazioni a Cosa Nostra e incontrava boss come Rosario Riccobono e Calogero
Musso. Nelle sentenze a suo carico si legge che Contrada concesse la patente ai
boss Stefano Bontate e Giuseppe Greco; agevolò la latitanza di
Totò Riina e la fuga di Salvatore Inzerillo e John Gambino; ebbe rapporti
privilegiati con Michele e Salvatore Greco; spifferò segreti d’indagine
ai mafiosi in cambio di favori e regali (come i 10 milioni di lire accantonati
nel bilancio di Cosa Nostra a Natale del 1981 per acquistare un’auto a una sua
intima amica). Decisivo fu il caso di Oliviero Tognoli,
l’imprenditore bresciano arrestato in Svizzera nel 1988 come riciclatore della
mafia. Secondo Carla Del Ponte, che lo interrogò a Lugano con Falcone, Tognoli
ammise che a farlo fuggire dall’Italia era stato Contrada. Ma poi, terrorizzato
da quel nome, rifiutò di verbalizzare e in seguito ritrattò. Quattro mesi dopo
Cosa Nostra tentò di assassinare Falcone e la Del Ponte all’Addaura.
Ora quest’uomo
verrà risarcito dallo Stato con soldi nostri per i 10 anni
trascorsi in carcere, riavrà a spese nostre la pensione di
dirigente della Polizia che gli era stata revocata, oltre al diritto
all’elettorato attivo e passivo (potrà votare e anche essere eletto). Ma non
solo: tutti i condannati per concorso esterno, da Dell’Utri in giù, chiederanno
lo stesso trattamento, cioè di salvarsi dalle conseguenze di sentenze anche
definitive e tornare alla vita normale, magari anche in Parlamento, da sicuri
colpevoli del gravissimo reato che hanno inoppugnabilmente commesso. Se
qualcuno avesse ancora bisogno di prove sulla trattativa Stato-mafia avviata 25
anni da alcuni carabinieri del Ros e tuttoggi in pieno corso, è servito.
Bisogna proprio avere l’anello al naso per non notare la repentina, vomitevole
regressione all’età della pietra dell’antimafia, quando Cosa Nostra
ufficialmente non esisteva o era solo un’accozzaglia di rozzi e incolti
professionisti della violenza senza complici nelle istituzioni, nella politica,
nella finanza, nell’imprenditoria, nelle professioni, nella Chiesa: i
“concorrenti esterni” che le hanno garantito due secoli di vita e potere, come
a nessun’altra organizzazione criminale al mondo.
Il tutto avviene
all’indomani del 25° anniversario dell’assassinio di Falcone e a pochi giorni
da quello di via d’Amelio, costata la vita a Borsellino e ai suoi angeli
custodi. Ora, con buona pace della Corte di Strasburgo che la mafia non l’ha
mai vista neppure in cartolina, e della nostra Cassazione che invece dovrebbe
saperne qualcosa, il reato di concorso esterno non è un’invenzione: è
sempre esistito, come il concorso in omicidio, in rapina, in truffa,
in corruzione ecc. Nel 1875, quando la Sicilia aveva una Cassazione tutta sua e
la mafia si chiamava brigantaggio, già venivano condannati i suoi concorrenti
esterni agrigentini per “complicità in associazione di malfattori”. Nel 1982 la
legge Rognoni-La Torre creò finalmente il reato di associazione mafiosa (art.
416-bis del Codice penale) e subito dopo, nel 1987, il pool di Falcone e
Borsellino contestò il concorso esterno in associazione mafiosa ai colletti
bianchi di Cosa Nostra nella sentenza-ordinanza del maxiprocesso-ter. Poi bastò
che finissero nei guai alcuni potenti, tipo Contrada (condannato), Carnevale
(condannato in appello e assolto dai colleghi della Cassazione), Dell’Utri
(condannato), Cosentino (condannato in primo grado) e compagnia bella, perché i
loro concorrenti esterni nel Palazzo e nei giornali strillassero al reato
inesistente, confuso, fumoso. Idiozie che fortunatamente quasi mai trovavano
cittadinanza nei tribunali, nelle corti d’appello e in Cassazione.
Invece ora,
all’improvviso, con le minacce di Graviano dal carcere e le larghe intese
dietro l’angolo, si può dire e fare tutto. Anche mettere nero su bianco che uno
stragista con 15 ergastoli sul groppone non deve morire in carcere, ma a casa
sua. Anche sostenere, restando seri, che un superpoliziotto, già capo della
Mobile e della Criminalpol a Palermo e poi numero 3 del Sisde,
non sapeva che incontrare e favorire i boss, farli fuggire, avvertirli dei
blitz dei colleghi (tutti ammazzati), restituirgli il porto d’armi, fosse
reato: lo scoprì solo quando glielo disse la Cassazione a sezioni unite in un
altro processo. E allora si battè una mano sulla fronte: “Cazzo, a saperlo per
tempo non avrei lavorato tanti anni per la mafia prendendo lo stipendio dallo
Stato! Ma non potevate dirmelo prima?”.
Questa vergogna
senza eguali viene contrabbandata per “garantismo”, mentre scava un fossato
ormai incolmabile fra diritto e giustizia, fra regola e prassi, fra imputati di
serie A e di serie B, fra potenti e poveracci, fra ricchi e poveri. A furia di depenalizzare
reati gravissimi, agevolare prescrizioni, allargare immunità, regalare
franchigie ai soliti noti, è sempre più difficile accettare le sentenze di una
giustizia forte coi deboli e debole coi forti. Il mese scorso un tizio di
Palermo che aveva rubato un pezzo di formaggio in un supermercato di Mondello
s’è beccato 16 mesi di galera senza la condizionale: cioè finirà in galera. E
quelli che per anni (entro e non oltre il 1994) hanno venduto lo Stato alla
mafia la faranno franca l’uno dopo l’altro. Si spera almeno che chi plaude o
tace su questo schifo, il 19 luglio ci risparmi le solite corone di fiori in
via d’Amelio. E abbia il coraggio di fare sulle tombe di Borsellino e Falcone
ciò che fa di nascosto da 25 anni: sputarci sopra.
Marco
Travaglio (Il Fatto Quotidiano – 9 luglio 2017)
Nessun commento:
Posta un commento
Tutto quanto pubblicato in questo blog è coperto da copyright. E' quindi proibito riprodurre, copiare, utilizzare le fotografie e i testi senza il consenso dell'autore.