Il
Sessantotto propriamente detto, prendendo a prestito le parole usate da
Luigi Einaudi per la Massoneria, potrebbe essere definito, dal punto di
vista politico, “una cosa comica e camorristica”, vissuta più sui
giornali che nella realtà, mitizzata nel ricordo, se non avesse causato
danni e soprattutto non fosse stato alla radice delle tragedie avvenute
dopo che prendono il nome, allora impronunciabile se non volevi essere
bollato come fascista, di ‘terrorismo rosso’. In realtà i fenomeni più
importanti e fecondi, sul piano del costume, il movimento hippy, la
liberazione sessuale, il femminismo, erano maturati prima del
Sessantotto.
Nella
stragrande maggioranza i ‘sessantottini’ erano figli della borghesia,
dell’alta borghesia e, a Roma, perfino dell’aristocrazia (Potere
Operaio, Potop in gergo, era sopranominato ‘molotov e champagne’). Figli
di borghesi che, a loro detta, avrebbero dovuto spazzar via la
borghesia. Una cosa che avrebbe fatto rivoltare nella tomba il vecchio
Marx. E infatti tutti i maggiori leader, se si eccettuano Mario Capanna
(il ‘lider maximo’ della prima fase) e pochissimi altri, erano in
perfetta malafede: volevano conquistare le prime pagine del Corriere della Sera
e, se possibile, la direzione. E quando conquisteranno il potere, in
qualsiasi settore, in particolare quello imprenditoriale, si
dimostreranno più spietati degli antichi ‘padroni delle Ferriere’ che
dicevano di voler combattere. A emblema potrebbe essere preso Gian
Giacomo Feltrinelli, idolo dei sessantottini, rivoluzionario dilettante
di notte e padrone feroce, micragnoso e spilorcio in Casa Editrice.
Erano
ragazzi viziati. Di giorno andavano in giro urlando “Fascista, basco
nero, il tuo posto è al cimitero”, “Uccidere un fascista non è reato”
spaccando vetrine e, all’occasione, anche qualche cranio, e alla sera
rientravano nelle belle case dei loro padri, si attaccavano al telefono,
“Pronto Dadi, pronto Leonetta” che non sono precisamente dei nomi
proletari. Il Movimento studentesco della Statale di Milano (MS) che
pretendeva di parlare in nome del proletariato non aveva fra le sue file
un solo operaio. No, uno ce lo aveva: un certo Lo Bue che ostentavano
portandolo in giro come una Madonna pellegrina. Qualche legame col mondo
proletario ce l’avevano i ‘gruppuscoli’ come li chiamava Capanna, a
sinistra del Movimento studentesco, Avanguardia operaia e Lotta Continua
che perlomeno andavano a fare volantinaggio davanti alle fabbriche. Ma
gli operai non li hanno mai visti di buon occhio e tantomeno i
comunisti. I danni maggiori comunque questi ‘cattivi maestri’ li fecero
proprio sui loro seguaci proletari che avevano preso sul serio quegli
intellettuali radical chic. Emblematica è la diade Sofri-Marino. Finita
la baldoria Adriano Sofri, anche se condannato a 22 anni di carcere per
l’omicidio Calabresi, divenne editorialista del più importante
quotidiano di sinistra, La Repubblica, e del più venduto settimanale di destra, Panorama, Leonardo Marino rimase a vendere frittelle a Bocca di Magra.
Per
capire il Sessantotto, e la psicologia dei sessantottini, bisogna però
fare qualche passo indietro da cui emergono non solo le responsabilità
di quei giovani ma quelle degli adulti e della classe dirigente di
allora. Quella del Sessantotto è la prima generazione che non aveva
vissuto la guerra e aveva una sorta di inferiority complex nei confronti
di quelli che la guerra l’avevano fatta e magari erano stati partigiani
o dicevano di esserlo stati. Chiunque avesse appena l’età diceva di
essere stato, come minimo, una ‘staffetta partigiana’. E io mi dicevo:
cribbio, ma quanti messaggi si scambiavano questi partigiani (questo
mito di una Resistenza in realtà fatta da pochi sarà l’origine delle
Brigate Rosse).
Noi
ragazzi sentivamo il bisogno di un impegno ma non sapevamo dove
metterlo. Fu questo bisogno che ci spinse ad andare a Firenze nei giorni
dell’alluvione del 1966. Io avevo 22 anni e raggiunta la maggior età me
l’ero filata da casa, come usava allora, andando ad abitare in un
squallido palazzo, in via Novara all’estrema periferia ovest di Milano.
Ero in casa con tre amici e quando la radio diede notizia dell’alluvione
la nostra reazione fu istintiva e istantanea: “Dobbiamo andare a
Firenze a dare una mano”. Divenimmo così gli “angeli del fango”. Come
mai gli “angeli del fango” si trasformeranno, nel giro di soli due anni,
nei molto meno innocenti sessantottini? Per l’ottusità della borghesia.
Noi ragazzi borghesi sentivamo soprattutto due esigenze: quella di
essere un po’ più liberi, vestire come ci pareva, senza l’odioso obbligo
della giacca e cravatta, portare i capelli come ci pareva (‘i
capelloni’) e che le nostre compagne non fossero costrette a rincasare
alle nove di sera per poi, magari, uscire di nascosto a mezzanotte. A
Milano ci radunavamo a Brera, all’Angolo tenuto dalla bionda e
bellissima Alfreda, suonavamo la chitarra e facevamo una caciara
innocente. Una sera sì e una no la polizia faceva irruzione a Brera, ci
chiedeva i documenti, ci identificava, ci interrogava e qualche volta ci
fermava. Il giorno dopo il Corriere, diretto da Franco Di Bella,
titolava “Repulisti a Brera” come se fossimo delle cimici. Fu questo
bigottismo cretino della borghesia ad esasperare gli animi, come mi
ammise anni dopo anche Montanelli. Non per nulla la classe dirigente
inglese, che aveva fiutato il vento, che aveva capito che sul piano del
costume le cose stavano cambiando, con Mary Quant, la minigonna, i
Beatles, si evitò il Sessantotto e tutte le sue ben più gravi
conseguenze.
Ho
partecipato alle due prime occupazioni della Statale di Milano. Una
notte, bighellonando come mio solito per la città arrivai davanti
all’università e vidi che era illuminata e piena di ragazzi. Mi ci
intruppai. Per quel poco che ci sono stato non fui mai un leader. La
notte, insieme a un ragazzo padovano, alto, smilzo, allegro, Giorgio
Livrini, figlio di un industriale, tenendoci svegli con dei fiaschi di
vino rosso, facevamo la guardia a qualcuna delle tante porte della
Statale. Ma capii molto presto che non era cambiato nulla. Se prima
all’università bisognava andarci in giacca e cravatta, adesso era
obbligatorio l’eskimo. Il conformismo aveva solo cambiato di segno. E
non solo nel vestire. Erano diventati tutti di sinistra, di estrema
sinistra: giornalisti, intellettuali, scrittori, sociologi paraculi da
terza pagina del Corriere, mignottine varie. Non c’era chi
scrivesse un libro, fosse anche sulla floricultura, che non lo
inquadrasse in una prospettiva ‘rivoluzionaria’. Ogni dissenso era
verboten e non solo a parole. Si era preso il ‘vizietto’ di picchiare
gli avversari, o presunti tali, dieci, venti, trenta contro uno.
Dovevamo
essere proprio agli inizi perché nell’Aula Magna, gremita di studenti e
fasciata di tazebao, era stato invitato anche il Rettore, Polvani, che,
dimostrando di non aver capito nulla di quel che bolliva in pentola,
fece un discorsetto paludato, ancien régime. Uscì fra i fischi,
seguito da un piccolo codazzo di studenti ‘fedeli’. Fra loro c’era Paolo
Longanesi, il figlio di Leo, piccolo e gobbetto come lui, che fece la
sciocchezza di strappare un tazebao. Eravamo in tremila, sarebbe bastato
prenderlo per la collottola e portarlo fuori. Invece dal tavolo della
presidenza si alzò di scatto Luca Cafiero, un assistente di filosofia
che era diventato, insieme a Capanna, Luciano Pero, Michelangelo Spada,
un leader del Movimento, precipitandosi su Longanesi. Ne nacque un
parapiglia furibondo. Lo stavano letteralmente linciando. Le ragazze,
isteriche come al solito, gridavano “Ammazzatelo! Ammazzatelo!” (le
cesse, le carine erano un po’ più chete). Ci mettemmo venti minuti, con i
cugini Jucker e altri, per sottrarre Longanesi alla furia degli
energumeni. Dopo andai al cesso, a vomitare. Un po’ per lo sforzo e un
po’ per il disgusto. Uscendo dal bagno vidi uno degli aggressori,
Moneta, un ragazzo ben piantato, figlio anche lui di un grosso
imprenditore, in piena ‘trance agonistica’. Tremava. Dovetti dargli uno
schiaffo perché si rimettesse insieme. C’è anche da aggiungere, a
parziale scusante, che quella generazione, proprio perché non aveva
conosciuto la guerra non aveva conosciuto la violenza, aveva anche una
gran voglia, come sempre i giovani, di menar le mani (non si può essere
socialdemocratici a vent’anni).
Il
‘vizietto’ di sprangare la gente trenta contro uno l’MS non l’avrebbe
mai perso. Nel febbraio del 1972 i ‘katanga’, il cosiddetto servizio
d’ordine dell’MS, picchiarono selvaggiamente uno studente israeliano
accusato, naturalmente a capocchia, di essere una spia della CIA. Questo
pestaggio ne seguiva un altro, ancora più violento, avvenuto un mese
prima ai danni di un sindacalista della UIL, Giovanni Conti, che in un
comunicato che cercava di spiegare le ragioni di quell’aggressione venne
accusato, insieme a non so più quali nefandezze politiche, di alzare il
gomito e di amare la notte. Tale era, sotto le parole rivoluzionarie,
il moralismo bacchettone del Movimento studentesco. Io allora lavoravo
all’Avanti! che simpatizzava apertamente per la ‘contestazione’,
come ormai quasi tutti i giornali che facevano a gara per essere ‘di
sinistra che più di sinistra non si può’. Ma l’Avanti! di Milano
(a differenza di quello di Roma sotto lo stretto controllo del Partito)
diretto da Ugo Intini era un giornale libero e libertario e mi permise
di scrivere questo durissimo corsivo: “Il Movimento studentesco c’è
ricascato. A poche settimane di distanza dall’aggressione del
sindacalista della UIL, Giovanni Conti, un altro episodio di violenza
vile e stupida che non trova aggancio in alcuna seria motivazione
politica, ha avuto come teatro la Statale e come protagonisti i
picchiatori del Movimento studentesco. A questo punto non si tratta più
di casi isolati, di ‘ragazzate’ di qualche frangia particolarmente
irrequieta dell’MS – come sostiene, fingendo il nulla, Mario Capanna- ma
di metodo. E il linciaggio, la caccia all’uomo e alle streghe,
israeliane e non, le grida al ‘monatto’, sono metodi che, ce ne doliamo
con Capanna, riecheggiano le abitudini delle squadracce fasciste, sono,
soprattutto, espressione di una mentalità (forse inconsciamente)
fascista. Il Movimento studentesco deve uscire dall’equivoco. Il
linciaggio e l’isteria collettiva non fanno parte del linguaggio
politico ma della patologia medica” (Avanti!, febbraio 1972).
Queste parole oggi suonano forse ovvie. Ma nel clima di conformismo
sinistrorso di quegli anni, che avrebbe partorito da lì a poco le BR (“i
compagni che sbagliano”), non lo erano affatto. E lo si vide subito.
Io, come cronista, dovevo seguire anche le vicende dell’università.
Quando rimisi piede alla Statale fui circondato dai ‘katanga’ che
volevano farmi la festa. Mi salvai mettendomi sotto le ali protettrici
di Capanna che alla violenza era personalmente alieno anche se ebbe la
grave responsabilità politica di avallarla.
Nell’ottobre del 1973 –ero già passato all’Europeo- feci per Linus
una mappa dei vari gruppi della sinistra extraparlamentare che Oreste
del Buono titolò “L’extra-mappa”. Li analizzavo nei contenuti. Non era
un’inchiesta pregiudizialmente ostile. Cercavo di essere obbiettivo.
Molti di quei ragazzi li conoscevo bene. Alla Statale fu appeso un
tazebao in cui Oreste del Buono ed io venivamo bollati come ‘spie della
CIA’. Oreste, uno degli uomini più intelligenti che ho conosciuto, ma
vilissimo, prese subito le distanze dall’’extra-mappa’ e, soprattutto,
da me. Mi arrivò un minaccioso biglietto di Oreste Scalzone e Giairo
Daghini, di cui al momento non valutai la pericolosità. Ma il colpo non
venne da lì. Nell’’extra-mappa’ avevo preso in giro uno dei leader del
MS, Luca Cafiero “di cui nessuno sospettava le virtù rivoluzionarie,
essendo conosciuto come un ‘bravo ragazzo’, un po’ ‘ciula’, che si era
educato a Oxford, faceva l’assistente e girava in Triumph”. Quando Ilio
Frigerio, un mio amico militante di Lotta Continua che mi aveva aiutato a
compilare l’’extra-mappa’ e che conosceva i suoi polli, lesse quel
passaggio mi disse: “Tu sei pazzo”. Qualche sera dopo mentre rincasavo
arrivarono in quattro, con i caschi da motocicletta e le catene. Quando
il capo del manipolo mi fu quasi addosso lo riconobbi al di là della
visiera: era Giorgio Livrini, l’allegro ragazzo con cui sei anni prima
avevo fatto il ‘guardiaporte’ alla Statale. Si era appesantito nella
stazza del picchiatore. Dissi: “Giorgio…”. Vidi nei suoi occhi passare
un lampo, che diceva “Questo qui adesso o lo ammazzo, perché mi ha
riconosciuto, o lasciamo perdere”. Finì a tarallucci e vino. Andammo
tutti e cinque da Oreste a berci un bicchiere. Ma se, per volontà del
Caso, le cose non fossero andate in quel modo, sarei finito anch’io in
sedia a rotelle, come in quegli anni è capitato a molti. Il quotidiano
di Lotta Continua pubblicava le fotografie, gli indirizzi, i percorsi,
le abitudini di fascisti o presunti tali alcuni dei quali hanno fatto
quella fine che io evitai per un soffio. I sessantottini come
rivoluzionari erano farlocchi ma tutt’altro che innocenti.
All’inizio
però la contestazione, almeno a Milano, ebbe anche un aspetto ludico. A
Capanna piaceva piuttosto lo sberleffo, come il famoso ‘lancio delle
uova’ alla Scala sulle signore impellicciate e invisonate che uscivano
dal teatro. Io quella sera alla manifestazione non c’ero andato, mi ci
trovai in mezzo per caso girovagando per la città come voleva la mia
inquietudine notturna. Sbucando da una via laterale vidi il casino, i
manifestanti, la polizia. Qualunque borghese di buon senso se ne sarebbe
tenuto alla larga. Arrivò invece una lucente macchina blu. Alla guida
c’era un uomo con a fianco una splendida bionda. Era Gian Giacomo
Feltrinelli con la seconda moglie, Sibilla Melega. Feltrinelli pensava
di essere intoccabile. Ma i manifestanti non lo riconobbero.
Circondarono la macchina, la tempestavano di pugni, cercando di sfondare
i finestrini e di rovesciarla. “No, no, è un compagno, è Feltrinelli!”
gridava inutilmente qualcuno. Intervenne la polizia. Fra quelli che
cercavano di proteggere Feltrinelli e la Melega c’ero anch’io. E feci
male. Due volte male. Perché nel parapiglia generale mi beccai una
ginocchiata nella coscia, il classico ‘colpo della vecchia’, da un
caramba e zoppicai per un paio di giorni e perché quel rivoluzionario
dilettante meritava una lezione e forse non sarebbe andato a morire
qualche anno dopo quando, del tutto inesperto e incapace, cercò di
mettere una bomba sotto un traliccio dell’Enel a Segrate.
Più
divertente è quanto successe in Largo Gemelli davanti alla Cattolica.
Sulla sinistra dello spiazzo c’era una caserma dei carabinieri. Capanna,
con un megafono, intimò loro di arrendersi o qualcosa di simile. Si
sentirono i tre classici squilli di tromba e cominciò la carica. Ci
rifugiammo in una chiesa sconsacrata, lì accanto. Ma eravamo circondati,
in trappola. Capanna con altri afferrò una grande asse di legno che
serviva per i restauri e la usò come maglio contro una porticina che
dava sul retro. Era una scena medioevale. Nella mia immaginazione
postuma lo vedo con indosso una tonaca da monaco (del resto, con quel
viso umbro, ce l’aveva un po’ l’aria del monaco eretico). Sfondammo la
porta e ce la filammo.
A
cinquant’anni di distanza, del Sessantotto e della sua rivoluzione di
cartapesta e di spranga ci siamo liberati. Dei ‘sessantottini’ no. Sia
pur invecchiati formano una potente framassoneria, trasversale alla
destra e alla sinistra, soprattutto nei media e nella politica, che si
autotutela e sbarra il passaggio agli altri (Luigi Manconi, Adriano
Sofri, Gad Lerner, Enrico Deaglio sono i primi nomi che mi vengono in
mente). E se vai a scavare nelle biografie di importanti imprenditori o
manager, in età, trovi che quasi tutti hanno un passato
extraparlamentare. Eppoi ci sono i figli già ben piazzati. Non ce ne
sbarazzeremo mai.
Massimo Fini (Millennium, ottobre 2017)
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