I Principi che ci governano, il Fondo Monetario, i capi
europei che domani si riuniranno per discutere le future spese comuni
dell'Unione, dovrebbero fermarsi qualche minuto davanti alla scritta apparsa
giorni fa sui muri di Atene: "Non salvateci più!", e meditare sul
terribile monito, che suggella un rigetto diffuso e al tempo stesso uno scacco
dell'Europa intera. Si fa presto a bollare come populista la rabbia di parte
della sinistra, oltre che di certe destre, e a non vedere in essa che arcaismo
anti-moderno.
A differenza del Syriza greco le sinistre radicali non si
sono unite (sono presenti nel Sel di Vendola, nella lista Ingroia, in parte del
Pd, nello stesso Movimento 5 Stelle), ma un presagio pare accomunarle: la
questione sociale, sorta nell'800 dall'industrializzazione, rinasce in tempi di
disindustrializzazione e non trova stavolta né dighe né ascolto. Berlusconi
sfrutta il malessere per offrire il suo orizzonte: più disuguaglianze, più
condoni ai ricchi, e in Europa un futile isolamento. Sul Messaggero del 30
gennaio, il matematico Giorgio Israel denuncia l'astrattezza di chi immagina
"che un paese possa riprendersi mentre i suoi cittadini vegetano depressi
e senza prospettive, affidati passivamente alle cure di chi ne sa". Non
diversa l'accusa di Paul Krugman: i governanti, soprattutto se dottrinari del
neoliberismo, hanno dimenticato che "l'economia è un sistema sociale
creato dalle persone per le persone".
Questo dice il graffito greco: se è per impoverirci, per
usarci come cavie di politiche ritenute deleterie nello stesso Fmi, di grazia
non salvateci. Non è demagogia, non è il comunismo che constata di nuovo il
destino di fatale pauperizzazione del capitalismo. È una rivolta contro le
incorporee certezze di chi in nome del futuro sacrifica le generazioni
presenti, ed è stato accecato dall'esito della guerra fredda.
Da quella guerra il comunismo uscì polverizzato, ma la
vittoria delle economie di mercato fu breve, e ingannevole. Specie in Europa,
la sfida dell'avversario aveva plasmato e trasformato il capitalismo
profondamente: lo Stato sociale, il piano Marshall del dopoguerra, il peso di
sindacati e socialdemocrazie potenti, l'Unione infine tra Europei negli anni
'50, furono la risposta escogitata per evitare che i popoli venissero tentati dalle
malie comuniste. Dopo la caduta del Muro quella molla s'allentò, fino a
svanire, e disinvoltamente si disse che la questione sociale era tramontata,
bastava ritoccarla appena un po'.
È la sorte che tocca ai vincitori, in ogni guerra: il
successo li rende ebbri, immemori. Facilmente degenera in maledizione. Le forze
accumulate nella battaglia scemano: distruggendo il consenso creatosi attorno a
esse (in particolare il consenso keynesiano, durato fino agli anni '70) e
riducendo la propensione a inventare il nuovo. Forse questo intendeva Georgij
Arbatov, consigliere di politica estera di molti capi sovietici, quando disse
alla fine degli anni '80: "Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore
che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico". Quando nel
2007-2008 cominciò la grande crisi, e nel 2010 lambì l'Europa, economisti e
governanti si ritrovarono del tutto impreparati, sorpassati, non diversamente
dal comunismo reale travolto dai movimenti nell'89.
È il dramma che fa da sfondo alle tante invettive che
prorompono nella campagna elettorale: gli attacchi dei centristi a Niki Vendola
e alla Cgil in primis, ma anche al radicalismo della lista Ingroia, a certe
collere sociali del Movimento 5 stelle, non sono una novità nell'Italia
dell'ultimo quarto di secolo. Sono la versione meno rozza della retorica
anticomunista che favorì l'irresistibile ascesa di Berlusconi, poco dopo la
fine dell'Urss, e ancora lo favorisce. Il nemico andava artificiosamente tenuto
in vita, o rimodellato, affinché il malaugurio di Arbatov non s'inverasse. Se
la crisi economica è una guerra, perché privarsi di avversari così comodi, e
provvidenzialmente disuniti? Quando Vendola dice a Monti che occorrerà
accordarsi sul programma, nel caso in cui la sinistra governasse col centro, il
presidente del Consiglio alza stupefatto gli occhi e replica: "Ma stiamo
scherzando?", quasi un impudente eretico avesse cercato di piazzare il suo
Vangelo gnostico nel canone biblico. Anche i difensori di Keynes sono additati
al disprezzo: non sanno, costoro, che la guerra l'hanno persa anch'essi, nelle
accademie e dappertutto?
In realtà non è affatto vero che l'hanno persa, e che lo
spettro combattuto da Keynes sia finito in chiusi cassetti. Quando in Europa
riaffiora la questione sociale - la povertà, la disoccupazione di
massa - non puoi liquidarla come fosse una teoria defunta. È una
questione terribilmente moderna, purtroppo. La ricetta comunista è fallita, ma
il capitalismo sta messo abbastanza male (non quello della guerra fredda: quello
decerebrato e svuotato dalla fine della guerra fredda). Non è rovinato come il
comunismo sovietico, ma di scacco si tratta pur sempre.
È un fallimento non riuscire ad ascoltare e integrare le
sinistre che in tantissime forme (anche limitandosi a combattere illegalità e
corruzione politica) segnalano il ritorno non di una dottrina ma di un ben
tangibile impoverimento. Prodi aveva visto giusto quando scommise sulla loro
responsabilizzazione, e li immise nel governo. Fu abbattuto dalla propaganda
televisiva di Berlusconi, ma la sua domanda non perde valore: come fronteggiare
le crisi se non si coinvolge il malcontento, compreso quello morale? Ancor più
oggi, nella recessione europea che perdura: difficile sormontarla senza il
rispetto, e se possibile il consenso, dei nuovi dannati della terra. Forse
abbiamo un'idea falsa delle modernità. Moderno non è chi sbandiera un'idea
d'avanguardia. È, molto semplicemente, la storia che ci è contemporanea: che
succede nei modi del tempo presente. Se la questione sociale ricompare, questa
è modernità e moderni tornano a essere il sindacalismo, la socialdemocrazia,
che per antico mestiere tentano di drizzare le storture capitaliste
- con il welfare, la protezione dei più deboli. Sono correzioni, queste
sì riformatrici, che non hanno distrutto, ma vivificato e potenziato il
capitalismo. È la più moderna delle risposte, oggi come nel dopoguerra quando
le democrazie del continente si unirono.
Non a caso viene dal più forte sindacato d'Europa, il Dgb
tedesco, una delle più innovative proposte anti-crisi: un piano Marshall per
l'Europa, gestito dall'Unione, simile al New Deal di Roosevelt negli anni '30.
Dicono che i vecchi rimedi keynesiani - welfare, cura del bene
pubblico - accrescono l'irresponsabilità individuale e degli Stati,
assuefacendoli all'assistenza. Paventato è l'azzardo morale: bestia nera per
chi oggi esige duro rigore. L'economista Albert Hirschman ha spiegato come le
retoriche reazionarie abbiano tentato, dal '700-800, di bloccare ogni progresso
civile o sociale (Retoriche dell'intransigenza, Il Mulino). Fra gli argomenti
prediletti ve ne sono due, che nonostante le smentite restano attualissimi: la
tesi della perversità, e della messa a repentaglio. Ogni passo avanti
(suffragio universale, welfare, diritti individuali) perfidamente produce
regresso, o mette a rischio conquiste precedenti. "Questo ucciderà
quello", così Victor Hugo narra l'avvento del libro stampato che uccise le
cattedrali. Oggi si direbbe: welfare o redditi minimi garantiti creano
irresponsabilità. Quanto ai matrimoni gay, è la cattedrale dell'unione
uomo-donna a soccombere, chissà perché.
Non è scritto da nessuna parte che la storia vada fatalmente
in tale direzione. In astratto magari sì, ma se smettiamo di dissertare di
"capitale umano" e parliamo di persone, forse l'azzardo morale
diventa una scommessa vincente, come vincente dimostrò di essere nei secoli
passati.
BARBARA
SPINELLI (La
Repubblica - 06 febbraio 2013)
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