Il tabù famigliare più grande, perché più diffuso, è quello sul
figlio preferito. Nessun genitore ammette, prima di tutto a sé stesso, di
averne uno, e molti sono pronti a fornire zuccherose rassicurazioni come
«l’amore di una mamma non si divide come le fette di una torta, quando nasce un
nuovo bambino c’è una nuova torta intera di affetto anche per lui».
Non è vero. I genitori spesso non lo sanno neppure, ma mentono. Le
preferenze esistono, sono sempre esistite. Solo che in passato erano chiare,
evidenti e riconosciute, anche socialmente: il primogenito ereditava tutto. Dal
XX secolo in poi si è fatta strada la giusta convinzione che nelle famiglie non
debbano esserci figli e figliastri, nel patrimonio e nell’affetto. Tutti o
quasi ci provano, ma i rapporti speciali nascono e — ignorati, negati, repressi
— resistono.
Per questo in Francia sta avendo successo il libro di due docenti
dell’Università di Nantes, Catherine Sellenet (Psicologia e Sociologia) e
Claudine Paque (Letteratura), che indagano sul più comune non detto della vita
famigliare. Accanto a segreti spaventosi e per fortuna relativamente rari
(violenza, incesto), c’è quello banalissimo del «cocco di mamma», che molti
hanno sperimentato in almeno una delle versioni, in qualità di figli o di
genitori. «La preferenza esiste e la sua negazione non fa che danneggiare la
relazione, talvolta pervertirla», scrivono le autrici di L’enfant préféré, chance ou fardeau?
(edizioni Belin), che aggiungono: «Accettare la realtà della preferenza per uno
dei propri figli potrebbe aiutare a ridurre i danni sia sull’eletto sia sugli
altri fratelli».
Le autrici hanno interrogato 55 genitori: all’inizio del colloquio
neanche uno ha ammesso di avere preferenze per un figlio o una figlia in
particolare. Alla fine l’80 per cento lo ha riconosciuto. Spesso è l’uso delle
parole, il nomignolo, a tradire, come quel padre che cita «il primo figlio»,
«la più piccola», e poi racconta estasiato di «giocare a calcio con Paul», il
prediletto chiamato per nome. Oppure quella madre che parla lungamente di
François, Anne e infine arriva a «Josephine, la mia principessa», che unica ha
diritto all’iperbole.
Il libro è pieno di empatia per i genitori che cercano di fare del
proprio meglio, ma la tesi è che bisogna cominciare a indagare sul perché si
formano le preferenze e sugli effetti che hanno sui bambini: «una fortuna o un
fardello?», si chiede il titolo. Intanto, cosa spinge un papà o una mamma ad
avere una predilezione? L’unica socialmente accettata è verso il figlio svantaggiato,
più debole o colpito da handicap. Le altre, inconfessabili, sono spesso
generate da un riflesso narcisistico: si tende a preferire il bambino che ci
assomiglia di più, che ha lo stesso carattere o gli stessi capelli, il
bambino-specchio che realizza il nostro sogno di immortalità. E poi il bambino
facile che va bene a scuola, non solo perché pone meno problemi, ma soprattutto
perché ci risparmia la fatica di dubitare di noi stessi e ci conferma nella
riuscita di genitori, grande imperativo della nostra era.
Sellenet e Paque sottolineano che nell’attuale mondo di mamme e
papà consapevoli e molto presi dalla loro missione, tutte le responsabilità
vengono scaricate sui figli. Litigate tra voi, bambini cari? È perché siete di
animo poco generoso, siete gelosi. In realtà, quando i figli trovano il
coraggio di accusare un padre o una madre di fare preferenze, il più delle
volte hanno ragione, hanno captato piccoli segnali molto eloquenti, un tono
della voce, un’indulgenza in più, o anche solo una porzione migliore nel grande
rito strutturante del pasto tutti insieme a tavola.
Il libro non auspica un ritorno al passato, a Menelao che
nell’Odissea preferisce serenamente Megapente o a Abramo al quale Dio chiede di
sacrificare Isacco proprio perché è il preferito, senza dubbio alcuno. Ma
genitori più onesti con sé stessi potrebbero agire per controllare le
conseguenze dei loro sentimenti. Prevale una specie di sindrome da «La scelta
di Sophie», il celebre e tremendo film nel quale i nazisti costringono la madre
Meryl Streep a scegliere chi salvare tra il maschio e la femmina.
In condizioni normali, ammettere con sé stessi una predilezione
non dovrebbe essere così straziante. Oltretutto preferire un figlio, proprio
come discriminarlo, non equivale a fargli un favore. Il prediletto sarà
probabilmente più sicuro di sé, affidabile, esperto nel sedurre le figure di
responsabilità (dopo i genitori in famiglia, gli insegnanti a scuola e i
superiori nel lavoro), ma pure oggetto della gelosia dei fratelli, patirà di sensi
di colpa e da adulto farà forse più fatica a trovare una strada autonoma,
lontana dall’amore in cerca di retribuzione di quei bene intenzionati, attenti,
e bugiardi genitori.
Stefano Montefiori (Jack's Blog - Corriere della Sera - 23 marzo 2014)
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