L'altro giorno sono accaduti al Senato
alcuni fatti assai rilevanti e tutt'altro che positivi. Giornali e
televisioni li hanno diffusi ampiamente ma a me non sembra che ne
abbiano messo in rilievo il vero significato. Cercherò di farlo qui
sforzandomi d'essere obiettivo nel racconto e ovviamente soggettivo nel
giudizio il quale riguarda soltanto me e chi come me ne dà identica
valutazione.
Tralasciamo le risse ostruzionistiche che hanno avuto come provocatori i senatori grillini con qualche più limitata interruzione da parte della Lega. Quando nelle aule di Montecitorio e Palazzo Madama gli animi si scaldano parte la spinta e il ceffone. È sempre stato così, fin dai tempi di Almirante e di Giancarlo Pajetta e dunque non è questo il punto. Partirei dalle parole di Mario Draghi di tre giorni fa al Brookings Institute di Washington sulla crisi economica che coinvolge il mondo intero, l'Europa più degli altri e l'Italia in particolare. Non è entrato nel dettaglio, il presidente della Bce, l'aveva già fatto in molte altre occasioni. Ma una cosa assai importante l'ha detta e ci riguarda da vicino. Posso virgolettarla perché tutti i "media" l'hanno riferita con le medesime parole: "Il problema non è quello di licenziare; il problema è quello che nei modi possibili si creino nuovi posti di lavoro aumentando la produttività del sistema delle imprese, la formazione dei giovani e un sostegno che mantenga l'equità duramente toccata dai sacrifici che la situazione impone".
Queste parole sono estremamente chiare: il problema non è licenziare ma aumentare la produttività.
Avete capito bene? Spero di sì, spero che l'opinione pubblica comprenda il senso di quelle parole dette da Draghi il quale ha anche aggiunto che la Banca centrale europea non farà mancare (e già lo sta facendo) il sostegno della sua liquidità ma non è solo questo lo strumento. Se la produttività non aumenta nelle imprese la liquidità resta inerte nelle banche, nei fondi e perfino nelle famiglie; non aumenta la produzione, non aumentano gli investimenti, non aumentano i consumi. Da questo punto di vista gli 80 euro distribuiti ai ceti meno abbienti sono stati un "flop" di proporzioni inusitate.
Ho cominciato da Draghi perché la sua è una delle voci più importanti d'Europa e una delle poche che si batte per una politica della crescita nei fatti e non soltanto nelle parole. Ma ce ne sono altri, di fatti, ancora più importanti e gravi, il primo dei quali riguarda la legge delega trasformata in una sorta di decreto sottoposto al voto di fiducia. È stata votata da una solida maggioranza poiché i dissenzienti del Pd di fronte alla situazione che si era creata hanno votato tutti a favore con la sola eccezione d'un paio di astenuti contro i quali Renzi manifesta il desiderio di sottoporli alla commissione di disciplina proponendone l'espulsione dal partito. Non sappiamo se il gruppo dei dissidenti del Pd nella Camera dei deputati si comporterà come i colleghi del Senato oppure darà un voto contrario o un'astensione, ma se anche questo accadesse la maggioranza alla Camera è molto più forte che al Senato e quindi nulla di drammatico accadrebbe al governo. È così accaduto che laddove il gruppo dei dissenzienti senatori avesse votato contro forse il governo sarebbe stato battuto sulla delega, mentre se votasse contro alla Camera ciò non avverrebbe e quindi sarebbe una manifestazione del tutto inutile.
Dunque la delega, passata al Senato e poi alla Camera diventerà legge dello Stato. La logica vorrebbe che sulle leggi di delega la fiducia non fosse mai messa: il governo chiede infatti al Parlamento di poter eccezionalmente acquisire poteri legislativi. Di solito ciò avviene quando esiste un'urgenza di intervento riconosciuta dal Capo dello Stato che deve comunque essere approvata e convertita in legge dalle Camere entro 60 giorni; ma non avviene per le deleghe. La fiducia sulla delega è comunque avvenuta negli ultimi 25 anni più d'una volta. Non so se questo fatto che non sollevò obiezioni quando accadde, sia diventato parte di una Costituzione materiale ma non credo che ciò sia possibile senza che rappresenti un vulnus per la divisione tra i poteri dello Stato così come i principi dello Stato di diritto impongono.
Tutto qui? No, c'è ben altro di cui parlare e comincio con una notizia. Da ricerche fatte dopo il voto sulla delega al Senato e dopo che Berlusconi e i colonnelli di Forza Italia si erano sgolati a dichiarare che avrebbero votato contro la delega cui veniva apposta la fiducia, risulta che ben 51 senatori di Forza Italia non erano presenti in aula al momento del voto. Un'assenza di 51 significa di fatto un consenso di 26 voti a favore della maggioranza quindi quand'anche una ventina di dissenzienti del Pd avessero votato contro la legge sulla delega sarebbe in ogni caso stata approvata.
Si discute spesso di che cosa contenga realmente il patto del Nazareno e se esista un documento scritto che ne indichi i confini. Ma non è così, il patto del Nazareno è un accordo sostanziale tra Renzi e Berlusconi affinché procuri vantaggi concreti all'uno e all'altro. Tutto questo avverrà anche, anzi soprattutto, quando Napolitano deciderà tra qualche mese di dimettersi dalla sua carica come ha più volte manifestato e le Camere dovranno eleggere chi lo sostituisca, nelle prime otto votazioni con maggioranza qualificata ma alla nona con voto del 50,1 degli aventi diritto.
Che cosa dovrà fare quando sarà stato eletto, il neo presidente? È evidente: dovrà emettere quell'atto di clemenza che Berlusconi non si stanca di chiedere e di ricordare alla memoria di tutti e che è la sola cosa di cui ha veramente bisogno. Denari ne ha in quantità, le aziende funzionano e comunque se vuole può anche venderle, gli serve soltanto la clemenza dello Stato che tanto più secondo lui gli è dovuta in quanto è totalmente innocente da ogni illegittimità. E poi vuole rientrare in possesso del passaporto che in questo momento non possiede e gli rende impossibile di muoversi per il mondo per risiedere dove più gli piace. Questo è il prezzo vero dell'accordo.
Per il resto avrà Renzi come figlio nel senso che ha sempre detto e previsto: il "figlio buono" che potrà prendere il suo posto per altri vent'anni e così probabilmente sarà. La democrazia intesa in senso vasto, comprende anche questo. Non sarà più chiamata parlamentare ma sarà comunque una democrazia nel senso che gli italiani saranno liberi di fare ciò che vogliono purché non intralcino l'esercizio del potere politico ed economico e sociale. Questo fa parte della storia d'Italia anche molto prima che ci fosse lo Stato unitario. Io l'ho scritto più volte e non desidero ripetermi: ricordo soltanto il vecchio motto "o Franza o Spagna purché se magna". Non è una visione molto brillante di questo Paese ma purtroppo è abbastanza confermata dalla realtà della storia ed anche dall'attualità.
Eppure non siamo ancora al centro del problema. Nel suo discorso al Senato il buon ministro del Lavoro ha fatto capire che la delega prevede l'abolizione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; analoghe dichiarazioni aveva già fatto il capogruppo dei senatori del Pd, Luigi Zanda, ma nella legge l'articolo 18 non è mai menzionato. Si parla genericamente del lavoro e di alcune misure che lo concernono, del precariato, dei possibili indennizzi. E basta.
Le modifiche dell'articolo 18 a quanto lo stesso ministro del Lavoro ha dichiarato e Zanda confermato e Renzi a sua volta più volte indicato, saranno contenute in uno dei decreti attuativi nella legge delega. I decreti attuativi vengono discussi dal governo previo parere di un comitato parlamentare appositamente eletto dalle commissioni competenti. Ma il comitato si limita ad emettere un parere non vincolante dopodiché i decreti vengono emessi e diventano immediatamente esecutivi, non passano più attraverso le Camere. Conclusione: l'articolo 18 sarà abolito per decreto non soggetto al visto del Parlamento.
Giova ricordare per chi l'avesse dimenticato in che cosa consiste l'articolo 18. Fu introdotto nella legislazione italiana nella prima metà degli anni Sessanta dell'altro secolo dall'allora ministro del lavoro socialista Giacomo Brodolini e stabiliva che i licenziamenti potessero avvenire soltanto se esisteva una "giusta causa" a motivarli. Naturalmente questo non avveniva quando un'impresa era in un tale dissesto prefallimentare da dover ristrutturare interamente il proprio modo di produrre e la manodopera addetta. Ma questa era un'altra questione e non riguardava il licenziamento individuale protetto invece dalla giusta causa che poteva essere invocata dal licenziato attraverso un ricorso sul quale interveniva il giudice del lavoro che dava ragione all'una o all'altra parte; se la giusta causa non emergeva pienamente il lavoratore veniva reinserito nella stessa mansione che fino a quel momento aveva praticato.
Allo stato attuale questa situazione è tuttora in piedi con leggeri indebolimenti introdotti qualche anno fa dalla Fornero che però lasciano intatto il principio. I padroni dalle belle brache bianche da quando Brodolini intervenne quelle brache non le hanno più potute mettere. Ma adesso se vogliono potranno rifarlo dopo l'abolizione dell'articolo 18. È possibile che i tempi in cui viviamo rendano necessari questi mutamenti ancorché estremamente dolorosi. Ma consentite che io mi rifaccia alle parole di Draghi che certamente di questi argomenti se ne intende forse più dei nostri politici. Draghi ci ricorda che il problema non è di licenziare ma di creare nuovi posti di lavoro e aumentare la produttività del sistema. Questo è il punto. Licenziare non serve a niente o meglio serve ad accattivarsi quei padroni che vogliono rimettersi le brache bianche. A me non sembra una motivazione sufficiente. Nei prossimi giorni il sindacato Cgil, la sua segretaria Camusso e il segretario della Fiom Landini guideranno un corteo di lavoratori. Quelli protetti tuttora dall'articolo 18 ammontano a 6 milioni che con l'indotto e le relative famiglie salgono di un bel po'. Vedremo qual è l'umore che emanerà da quel corteo e le decisioni successive del sindacato. Ma il sindacato purtroppo (o per fortuna) non fa politica, ha il solo compito di tutelare gli interessi dei lavoratori e dei pensionati che rappresenta. Resta dunque il problema dei politici. Che cosa faranno? Si intestardiranno nell'abolizione di un articolo la cui esistenza non interessa nessuno salvo i diretti danneggiati? Non interessa l'Europa, non interessa la Germania e neppure la Francia. In alcuni Paesi quella protezione esiste, in molti altri no perché è più facile che i licenziati trovino altri posti di lavoro. Qui da noi questo non sta avvenendo o è molto difficile. Certo l'abolizione dell'articolo 18 è un profondo cambiamento ma verso il vecchio non verso il nuovo. Personalmente amerei che si cambiasse verso il nuovo. Se avviene il contrario non credo che questo Paese avrà un bel futuro.
Tralasciamo le risse ostruzionistiche che hanno avuto come provocatori i senatori grillini con qualche più limitata interruzione da parte della Lega. Quando nelle aule di Montecitorio e Palazzo Madama gli animi si scaldano parte la spinta e il ceffone. È sempre stato così, fin dai tempi di Almirante e di Giancarlo Pajetta e dunque non è questo il punto. Partirei dalle parole di Mario Draghi di tre giorni fa al Brookings Institute di Washington sulla crisi economica che coinvolge il mondo intero, l'Europa più degli altri e l'Italia in particolare. Non è entrato nel dettaglio, il presidente della Bce, l'aveva già fatto in molte altre occasioni. Ma una cosa assai importante l'ha detta e ci riguarda da vicino. Posso virgolettarla perché tutti i "media" l'hanno riferita con le medesime parole: "Il problema non è quello di licenziare; il problema è quello che nei modi possibili si creino nuovi posti di lavoro aumentando la produttività del sistema delle imprese, la formazione dei giovani e un sostegno che mantenga l'equità duramente toccata dai sacrifici che la situazione impone".
Queste parole sono estremamente chiare: il problema non è licenziare ma aumentare la produttività.
Avete capito bene? Spero di sì, spero che l'opinione pubblica comprenda il senso di quelle parole dette da Draghi il quale ha anche aggiunto che la Banca centrale europea non farà mancare (e già lo sta facendo) il sostegno della sua liquidità ma non è solo questo lo strumento. Se la produttività non aumenta nelle imprese la liquidità resta inerte nelle banche, nei fondi e perfino nelle famiglie; non aumenta la produzione, non aumentano gli investimenti, non aumentano i consumi. Da questo punto di vista gli 80 euro distribuiti ai ceti meno abbienti sono stati un "flop" di proporzioni inusitate.
Ho cominciato da Draghi perché la sua è una delle voci più importanti d'Europa e una delle poche che si batte per una politica della crescita nei fatti e non soltanto nelle parole. Ma ce ne sono altri, di fatti, ancora più importanti e gravi, il primo dei quali riguarda la legge delega trasformata in una sorta di decreto sottoposto al voto di fiducia. È stata votata da una solida maggioranza poiché i dissenzienti del Pd di fronte alla situazione che si era creata hanno votato tutti a favore con la sola eccezione d'un paio di astenuti contro i quali Renzi manifesta il desiderio di sottoporli alla commissione di disciplina proponendone l'espulsione dal partito. Non sappiamo se il gruppo dei dissidenti del Pd nella Camera dei deputati si comporterà come i colleghi del Senato oppure darà un voto contrario o un'astensione, ma se anche questo accadesse la maggioranza alla Camera è molto più forte che al Senato e quindi nulla di drammatico accadrebbe al governo. È così accaduto che laddove il gruppo dei dissenzienti senatori avesse votato contro forse il governo sarebbe stato battuto sulla delega, mentre se votasse contro alla Camera ciò non avverrebbe e quindi sarebbe una manifestazione del tutto inutile.
Dunque la delega, passata al Senato e poi alla Camera diventerà legge dello Stato. La logica vorrebbe che sulle leggi di delega la fiducia non fosse mai messa: il governo chiede infatti al Parlamento di poter eccezionalmente acquisire poteri legislativi. Di solito ciò avviene quando esiste un'urgenza di intervento riconosciuta dal Capo dello Stato che deve comunque essere approvata e convertita in legge dalle Camere entro 60 giorni; ma non avviene per le deleghe. La fiducia sulla delega è comunque avvenuta negli ultimi 25 anni più d'una volta. Non so se questo fatto che non sollevò obiezioni quando accadde, sia diventato parte di una Costituzione materiale ma non credo che ciò sia possibile senza che rappresenti un vulnus per la divisione tra i poteri dello Stato così come i principi dello Stato di diritto impongono.
Tutto qui? No, c'è ben altro di cui parlare e comincio con una notizia. Da ricerche fatte dopo il voto sulla delega al Senato e dopo che Berlusconi e i colonnelli di Forza Italia si erano sgolati a dichiarare che avrebbero votato contro la delega cui veniva apposta la fiducia, risulta che ben 51 senatori di Forza Italia non erano presenti in aula al momento del voto. Un'assenza di 51 significa di fatto un consenso di 26 voti a favore della maggioranza quindi quand'anche una ventina di dissenzienti del Pd avessero votato contro la legge sulla delega sarebbe in ogni caso stata approvata.
Si discute spesso di che cosa contenga realmente il patto del Nazareno e se esista un documento scritto che ne indichi i confini. Ma non è così, il patto del Nazareno è un accordo sostanziale tra Renzi e Berlusconi affinché procuri vantaggi concreti all'uno e all'altro. Tutto questo avverrà anche, anzi soprattutto, quando Napolitano deciderà tra qualche mese di dimettersi dalla sua carica come ha più volte manifestato e le Camere dovranno eleggere chi lo sostituisca, nelle prime otto votazioni con maggioranza qualificata ma alla nona con voto del 50,1 degli aventi diritto.
Che cosa dovrà fare quando sarà stato eletto, il neo presidente? È evidente: dovrà emettere quell'atto di clemenza che Berlusconi non si stanca di chiedere e di ricordare alla memoria di tutti e che è la sola cosa di cui ha veramente bisogno. Denari ne ha in quantità, le aziende funzionano e comunque se vuole può anche venderle, gli serve soltanto la clemenza dello Stato che tanto più secondo lui gli è dovuta in quanto è totalmente innocente da ogni illegittimità. E poi vuole rientrare in possesso del passaporto che in questo momento non possiede e gli rende impossibile di muoversi per il mondo per risiedere dove più gli piace. Questo è il prezzo vero dell'accordo.
Per il resto avrà Renzi come figlio nel senso che ha sempre detto e previsto: il "figlio buono" che potrà prendere il suo posto per altri vent'anni e così probabilmente sarà. La democrazia intesa in senso vasto, comprende anche questo. Non sarà più chiamata parlamentare ma sarà comunque una democrazia nel senso che gli italiani saranno liberi di fare ciò che vogliono purché non intralcino l'esercizio del potere politico ed economico e sociale. Questo fa parte della storia d'Italia anche molto prima che ci fosse lo Stato unitario. Io l'ho scritto più volte e non desidero ripetermi: ricordo soltanto il vecchio motto "o Franza o Spagna purché se magna". Non è una visione molto brillante di questo Paese ma purtroppo è abbastanza confermata dalla realtà della storia ed anche dall'attualità.
Eppure non siamo ancora al centro del problema. Nel suo discorso al Senato il buon ministro del Lavoro ha fatto capire che la delega prevede l'abolizione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; analoghe dichiarazioni aveva già fatto il capogruppo dei senatori del Pd, Luigi Zanda, ma nella legge l'articolo 18 non è mai menzionato. Si parla genericamente del lavoro e di alcune misure che lo concernono, del precariato, dei possibili indennizzi. E basta.
Le modifiche dell'articolo 18 a quanto lo stesso ministro del Lavoro ha dichiarato e Zanda confermato e Renzi a sua volta più volte indicato, saranno contenute in uno dei decreti attuativi nella legge delega. I decreti attuativi vengono discussi dal governo previo parere di un comitato parlamentare appositamente eletto dalle commissioni competenti. Ma il comitato si limita ad emettere un parere non vincolante dopodiché i decreti vengono emessi e diventano immediatamente esecutivi, non passano più attraverso le Camere. Conclusione: l'articolo 18 sarà abolito per decreto non soggetto al visto del Parlamento.
Giova ricordare per chi l'avesse dimenticato in che cosa consiste l'articolo 18. Fu introdotto nella legislazione italiana nella prima metà degli anni Sessanta dell'altro secolo dall'allora ministro del lavoro socialista Giacomo Brodolini e stabiliva che i licenziamenti potessero avvenire soltanto se esisteva una "giusta causa" a motivarli. Naturalmente questo non avveniva quando un'impresa era in un tale dissesto prefallimentare da dover ristrutturare interamente il proprio modo di produrre e la manodopera addetta. Ma questa era un'altra questione e non riguardava il licenziamento individuale protetto invece dalla giusta causa che poteva essere invocata dal licenziato attraverso un ricorso sul quale interveniva il giudice del lavoro che dava ragione all'una o all'altra parte; se la giusta causa non emergeva pienamente il lavoratore veniva reinserito nella stessa mansione che fino a quel momento aveva praticato.
Allo stato attuale questa situazione è tuttora in piedi con leggeri indebolimenti introdotti qualche anno fa dalla Fornero che però lasciano intatto il principio. I padroni dalle belle brache bianche da quando Brodolini intervenne quelle brache non le hanno più potute mettere. Ma adesso se vogliono potranno rifarlo dopo l'abolizione dell'articolo 18. È possibile che i tempi in cui viviamo rendano necessari questi mutamenti ancorché estremamente dolorosi. Ma consentite che io mi rifaccia alle parole di Draghi che certamente di questi argomenti se ne intende forse più dei nostri politici. Draghi ci ricorda che il problema non è di licenziare ma di creare nuovi posti di lavoro e aumentare la produttività del sistema. Questo è il punto. Licenziare non serve a niente o meglio serve ad accattivarsi quei padroni che vogliono rimettersi le brache bianche. A me non sembra una motivazione sufficiente. Nei prossimi giorni il sindacato Cgil, la sua segretaria Camusso e il segretario della Fiom Landini guideranno un corteo di lavoratori. Quelli protetti tuttora dall'articolo 18 ammontano a 6 milioni che con l'indotto e le relative famiglie salgono di un bel po'. Vedremo qual è l'umore che emanerà da quel corteo e le decisioni successive del sindacato. Ma il sindacato purtroppo (o per fortuna) non fa politica, ha il solo compito di tutelare gli interessi dei lavoratori e dei pensionati che rappresenta. Resta dunque il problema dei politici. Che cosa faranno? Si intestardiranno nell'abolizione di un articolo la cui esistenza non interessa nessuno salvo i diretti danneggiati? Non interessa l'Europa, non interessa la Germania e neppure la Francia. In alcuni Paesi quella protezione esiste, in molti altri no perché è più facile che i licenziati trovino altri posti di lavoro. Qui da noi questo non sta avvenendo o è molto difficile. Certo l'abolizione dell'articolo 18 è un profondo cambiamento ma verso il vecchio non verso il nuovo. Personalmente amerei che si cambiasse verso il nuovo. Se avviene il contrario non credo che questo Paese avrà un bel futuro.
Eugenio Scalfari (La Repubblica - 12 ottobre 2014)
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