Da sempre le svolte politiche maturano in Parlamento e
nei partiti, ma poi si sperimentano nella tv pubblica. Così le sue nomine, dai
consiglieri a Campo Dall'Orto, mostrano l'invecchiamento precoce della
rivoluzione renziana.
«Sono dolente che per il modo con cui si svolgono le
cose non mi sia possibile darle le consegne e porgerle di persona il mio saluto
augurale: voglia credere che questo, anche se dato per lettera, è fervidissimo
e che per l'affetto che ho preso alla Rai in 15 mesi di Presidenza mi dà una
sincera soddisfazione di sapere che passa nelle sue mani esperte...».
Era l'inizio di agosto anche allora, quasi
settant'anni fa. Il 2 agosto 1946: con un biglietto su carta intestata
dell'Eiar corretta a macchina con la scritta "Il Presidente Rai", il
primo presidente dell'azienda dopo la Liberazione del 1945 Arturo Carlo Jemolo
salutava il suo successore, Giuseppe Spataro.
Jemolo era uno storico e giurista insigne, fuori dai
partiti. Spataro era uno dei fondatori della Dc (le prime riunioni clandestine
del partito si erano svolte nella sua casa romana), il sottosegretario per la
stampa e l'informazione, un notabile potente che per tutta la sua presidenza
(1946-1950) resterà deputato e nella direzione di piazza del Gesù.
Confermata la giornalista come presidente della Rai
ora tocca alla casella del direttore generale, che sarà Antonio Campo
Dall’Orto. Sorvolando sui debiti lasciati a La7
Eccolo tracciato, una volta per tutte, il dna della Rai. Regola numero uno: le nomine da sempre si fanno in estate, all'inizio di agosto. Regola numero due: le svolte politiche maturano in Parlamento e nei partiti, ma si sperimentano prima nelle stanze della grande azienda del servizio pubblico.
Eccolo tracciato, una volta per tutte, il dna della Rai. Regola numero uno: le nomine da sempre si fanno in estate, all'inizio di agosto. Regola numero due: le svolte politiche maturano in Parlamento e nei partiti, ma si sperimentano prima nelle stanze della grande azienda del servizio pubblico.
Di cosa parliamo, quando parliamo di Rai? Le nomine in
viale Mazzini eccitano la fantasia di politici, giornalisti e operatori del
settore più di Sanremo, campionato di calcio e premio Strega messi insieme ma
raccoglie l'indifferenza del pubblico. Sbagliando, però. La Rai anticipa e
riflette la politica, più che lo schermo e uno specchio.
Breve storia, abbiate pazienza.
Il Tesoro indica la direttrice di Rainews. Per il Dg,
invece, Renzi vuole Antonio Campo Dall’Orto, ex La7. Il sindacato dei
giornalisti Rai protesta: «Non spetta al governo fare il nome». Per il Cda
polemiche sui pensionati eletti, per la legge Madia dovranno lavorare gratis.
Nel 1945-46 l'epurazione di Jemolo e l'arrivo di
Spataro anticipa in Rai la lunga stagione politica dell'egemonia democristiana.
Nel 1961 viene nominato direttore generale un fiorentino di 41 anni che si
chiama Ettore Bernabei. Direttore del “Popolo”, uomo di Amintore Fanfani,
sembra l'ennesimo democristiano parcheggiato in Rai in vista di altri
incarichi. Invece durerà fino al 1974. E sotto la sua guida da «tiranno
illuminato», come lo definirà molti anni dopo Andrea Barbato, la televisione
diventerà uno dei motori della modernizzazione italiana e strumento decisivo di
lotta politica.
Nel 1975, quarant'anni fa, c'è la prima riforma della
Rai. Viene limitato il potere del governo e della Dc (con gli alleati minori, i
socialisti, i famelici socialdemocratici) di nominare i vertici di viale
Mazzini. La nomina del Cda Rai viene consegnata al Parlamento, alla commissione
parlamentare di vigilanza in cui c'è anche il Pci di Berlinguer che quell'anni
stravince le elezioni amministrative e aspira a diventare forza di governo. «La
Rai comincia a riflettere la dialettica culturale e sociale del Paese e la sua
articolazione diventa più complessa, meno monopolitica e centralizzata», esulta
il giovane responsabile stampa del Psi che si chiama, indovinate?, Fabrizio
Cicchitto. E nasce la sequenza Fibonacci di viale Mazzini, il numero magico
732111: sette consiglieri Dc, tre socialisti, 2 comunisti, uno a testa al Psdi,
Pri e Pli. Un anno dopo partono il Tg1 democristiano (direttore il moroteo
Emilio Rossi, ferito alle gambe dalle Br nove mesi prima della strage di via
Fani) e il Tg2 laico, con la direzione di Andrea Barbato.
Lo spin doctor di Matteo Renzi e quello di Fitto. L’ex
deputato forzista Mazzuca. La storica dell’arte vicina a Orfini. L’ex
presidente della Fnsi. La commissione di Vigilanza elegge il Cda Rai. E l’unico
che viene dalla tv è Freccero, eletto dai 5 stelle e da Sel.
Una breve stagione di libertà e di concorrenza, la
professionalità del Tg1, il più autorevole canale di informazione e il Tg2
corsaro di Barbato, nell'Italia degli anni Settanta delle radio libere, dei
primi esperimenti di tv via cavo e della scalata di Silvio Berlusconi. Alla
fine di luglio 1977, sempre in estate, il Pci rientra per la prima volta nella
lottizzazione: direttore dell'informazione regionale è il dc irpino Biagio
Agnes, il condirettore è il capo della Federstampa, appena assunto in Rai, il
“compagno scomodo” Sandro Curzi. «Lottizzano anche i comunisti», titola il
“Corriere” (29 luglio 1977).
Domenica 7 dicembre 1986 è un'altra data storica per
la tv italiana: per la prima volta l'Auditel fotografa i rapporti di forza tra
la Rai e la Fininvest, il cavallo di viale Mazzini ne esce agonizzante,
l'audience del servizio pubblico è appena tre punti sopra quella del Biscione.
«La Rai era in gravissima crisi, doveva cercare una fetta di pubblico molto
fedele ma che fino a quel punto era rimasto escluso dalla yv», ha ricordato
Enrico Menduni, all'epoca consigliere di amministrazione in quota Pci.
«Gli unici erano i comunisti. Furono loro i nostri
“taxi della Marna”, gli arruolati dell'ultima ora che ci fecero vincere la
battaglia decisiva». Decidono in tre, a tavola, nella saletta riservata di un
ristorante del centro di Roma: il dc Agnes, il socialista Enrico Manca (quello
che ha cacciato Beppe Grillo dalla tv di Stato) e il comunista Walter Veltroni,
giovane responsabile informazione di Botteghe Oscure.
Al Pci va la direzione di Raitre con Angelo Guglielmi
e la direzione del tg3 con Curzi: le due anime, l'intellettuale di avanguardia
e il giornalista di partito. Il Pci riporta una paradossale vittoria nel
momento del suo minimo elettorale, alla vigilia del crollo del muro di Berlino
e del cambio del nome. Per il sistema politico la tripartizione Dc-Psi-Pci è la
lottizzazione perfetta. E invece è vicina la fine, Tangentopoli e la Seconda
Repubblica. I partiti tradizionali spariscono dalla scena in pochi mesi. Al
loro posto i due super-partiti che si sono formati sulle guerre mediatiche ed
editoriali degli anni Ottanta-Novanta: il partito Rai, la sinistra Dc, il Pci.
E il partito Fininvest di Berlusconi, Gianni Letta, Confalonieri, i socialisti,
la destra dc. Il bipolarismo all'italiana, prima che dalle leggi elettorali,
nasce dalla televisione. Ancora pensate che la tv non c'entri nulla con il
resto del Paese?
Nel 1993 c'è un ritorno all'antico modello Jemolo, la
Rai dei professori fuori dai partiti. Dura pochissimo. E nel 2005 la legge
Gasparri consacra il ritorno in grande stile della lottizzazione partitica, con
la vigilanza che elegge il cda e il governo che sceglie il direttore generale.
A ciascuno il suo: ex direttori di giornali di partito, ex parlamentari, ex
capi uffici stampa. E tutti contenti.
Arriviamo, finalmente, a oggi. Cosa dice questa tornata
di nomine in viale Mazzini dello stato di salute del governo Renzi e della
politica italiana? Il premier gioca a dire che non è colpa sua se è stato
costretto a scegliere i nomi con i metodi del passato perché la legge Gasparri
non è stata eliminata: la colpa è sempre colpa degli altri. Ma se non cambia la
musica, cambiano i suonatori. E il concerto, già mediocre, rischia di
trasformarsi in un'assordante cacofonia. Partiamo dalle dichiarazioni di
principio: «Fuori i partiti dalla Rai.
La governance della Tv pubblica dev’essere riformulata
sul modello Bbc (Comitato Strategico nominato dal Presidente della Repubblica
che nomina i membri del Comitato Esecutivo, composto da manager, e
l’Amministratore Delegato). L’obiettivo è tenere i partiti politici fuori dalla
gestione della televisione pubblica».
Recitava così il punto numero 17 del programma dei
cento punti presentato da Renzi alla stazione Leopolda nel 2011. In
quell'edizione l'econonista Luigi Zingales (nominato in seguito dal governo
Renzi nel cda Eni da cui si è di recente dimesso) era stato travolto dagli
applausi quando aveva tuonato contro i premiati per fedeltà al boss partitico
di turno: «L’Italia è governata dai peggiori. L’80 per cento dei manager
dichiara che la principale strada per arrivare al successo è la conoscenza di
una persona importante, poi ci sono lealtà e obbedienza, la competenza arriva
solo quinta».
Conoscenza o competenza? Guelfo Guelfi, per
provenienza geografica, si presenta dal nome e dal cognome. La sua unica
competenza, pare, sono le campagne di comunicazione della provincia di Firenze
presieduta da Renzi. Ex lottacontinuista di piazza, testimone al processo
Sofri-Calabresi, ma i giudici credettero a Leonardo Marino e non a lui, oggi è
stato collocato nel cda Rai, una perfetta parabola craxiana.
Rita Borioni, nominata dal giovane turco Orfini,
confessa di candidamente di non vedere Sky e ha all'attivo in tv il programma
Stendhal per Red-tv, la rete di D'Alema che ha seguito il destino di tutte le
iniziative del leader massimo, cioè il disastro. E di lei si potrebbe dire
quello che gridava nel 1958 il capogruppo del Pci Pietro Ingrao nell'aula di
Montecitorio chiedendo di sapere «a che titolo» il ministro delle Finanze
Giulio Andreotti avesse nominato il suo collaboratore Franco Evangelisti nel
cda della Rai: «Per quale merito? Nessuno riesce a saperlo. Per capacità
giornalistiche? Non risulta a nessuno. Per doti particolari di amministratore?
Non abbiamo notizie. Almeno informateci su questo punto!». Chissà cosa
risponderebbe oggi Orfini. Perché sulla Rai, ahinoi, le domande sono sempre le
stesse. Solo che cala la qualità delle risposte.
Il merito? Ciascuno può giudicare: i successi del
sindacato giornalisti guidato da Franco Siddi, la qualità dei consigli di Paolo
Messa all'Udc e al ministro Corrado Clini, gli ascolti di Rainews 24 della
neo-presidente, la bravissima Monica Maggioni, le copie vendute dai giornali
del simpaticissimo Arturo Diaconale e di Giancarlo Mazzuca, il bilancio di La7
diretta da Antonio Campo Dall'Orto, altro uomo della Leopolda.
Nel 2011 si chiedeva al raduno renziano: «Chi sono le
persone che ispirano i giovanissimi?», con una risposta esattamente all'insegna
dell'innovazione: «Le ricerche dicono: gli amici, il papà, la mamma». Rimane
Carlo Freccero, indicato dal Movimento 5 Stelle (e da Sel) che ha compiuto la
prima vera operazione politica della legislatura, semplice, pulita: votare il
migliore. Perché c'è il merito, non sempre uno vale uno, Freccero per genio e
sregolatezza vale tutti gli altri consiglieri messi insieme. Ed è stato lui a
definire il renzismo in un'intervista a Daniela Preziosi sul
"Manifesto" (30 ottobre 2014) come «fanfanismo digitale»: «Renzi fa
un racconto consolatorio, una storia a lieto fine, come una soap opera. C'è la
crisi e la gente non vuole essere angosciata. Il politico oggi ha il compito di
tranquillizzare, infondere fiducia. Come le monarchie di una volta».
In ogni caso, come si dice, non è colpa dei nominati ma di chi ce li ha messi. E le nomine Rai mostrano l'invecchiamento precoce della rivoluzione renziana. Più che fanfanismo digitale è craxismo terminale. Non si vede per ora un disegno, un progetto, un'idea. Orfini vorrebbe essere il nuovo Togliatti, ma qui non ci sono le masse proletarie da portare nei luoghi di potere per combattere i comitati d'affari della borghesia. Non c'è la borghesia e neppure i partiti, ma piccoli circuiti di amici che si auto-assegnano qualche identità di circostanza per coprire il vuoto. Dalla grande massoneria alle loggette di provincia. Dalle sezioni del grande Pci al potere spartito con la playstation, davanti a un bigliardino. Dai potenti sindacati anni Settanta ai professionisti della (s)concertazione. Dai grandi quotidiani alle gazzette senza lettori e forse senza redattori. Dai poteri forti alle micro-lobby romane. Dal professionismo al rampantismo...
In ogni caso, come si dice, non è colpa dei nominati ma di chi ce li ha messi. E le nomine Rai mostrano l'invecchiamento precoce della rivoluzione renziana. Più che fanfanismo digitale è craxismo terminale. Non si vede per ora un disegno, un progetto, un'idea. Orfini vorrebbe essere il nuovo Togliatti, ma qui non ci sono le masse proletarie da portare nei luoghi di potere per combattere i comitati d'affari della borghesia. Non c'è la borghesia e neppure i partiti, ma piccoli circuiti di amici che si auto-assegnano qualche identità di circostanza per coprire il vuoto. Dalla grande massoneria alle loggette di provincia. Dalle sezioni del grande Pci al potere spartito con la playstation, davanti a un bigliardino. Dai potenti sindacati anni Settanta ai professionisti della (s)concertazione. Dai grandi quotidiani alle gazzette senza lettori e forse senza redattori. Dai poteri forti alle micro-lobby romane. Dal professionismo al rampantismo...
L'ennesima spartizione agostana dal 1946 a oggi, il
delitto di mezza estate del 2015 è l'auto-rappresentazione di un potere in
crisi, di una classe dirigente evaporata. E Matteo Renzi che si era candidato a
fare la rottamazione, ancora una volta, dimostra che è più facile galleggiare
sul nulla, cullarsi sui vizi del passato piuttosto che provare a costruire una
nuova classe dirigente. Questa nuova-vecchia Rai è per paradosso la più anti-renziana
che si possa immaginare, nel senso del Renzi prima maniera che sfoggiava
autonomia, coraggio, capacità di dire di no al capo. Mentre ora il Renzi 2 sta
per mettere la faccia e la firma su una nuova stagione di conformismo.
L'ideologia delle buone notizie, come si chiamava ai tempi di Bernabei e della
Dc, che però, almeno, sapevano raccontare il Paese.
Il cavallo di bronzo dello scultore Francesco Messina
di fronte al palazzo del potere Rai di viale Mazzini è piazzato lì a
testimoniare le tristi sorti dei conquistatori della tv di Stato. Nelle
intenzioni dovrebbe rappresentare un destriero rampante, ma nell'immaginario si
è capovolto nel suo opposto: l'ippogrifo che non riesce ad alzarsi in volo, il
cavallo morente. Un simbolo rovesciato. Come il renzismo di oggi.
Marco
Damilano (L’Espresso
- 06 agosto 2015)
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