Premessa: chi scrive ha sempre ritenuto il bonus di 80 euro deciso dal governo Renzi una buona cosa.
Per i tanti che guadagnano 1.000-1.500 euro al mese, o anche meno, una
cifra del genere è importante. E non capirlo significa solo essere dei
fortunati egoisti che non hanno mai avuto difficoltà economiche. Di
fronte ai numeri che raccontano però come quasi un milione e mezzo di
italiani siano poi stati costretti a riversare al fisco, e in un’unica
soluzione, il piccolo aumento di stipendio, la sola reazione possibile è
il disgusto. Perché lo Stato all’improvviso indossa i panni di un Robin
Hood al contrario che ruba ai poveri per dare ai ricchi.
E lo fa con calcolato dolo. Nulla di quello che è accaduto è sorprendente. Tutto era perfettamente noto già il 12 marzo del 2014, quando alla vigilia delle elezioni europee, il presidente del Consiglio annunciò “un’operazione di portata storica” i cui destinatari erano “non solo i ceti meno abbienti, ma anche un po’ di ceto medio”.
Per mettere da subito più soldi nelle buste paga e incassare quello che Repubblica
definisce con molta indulgenza un “legittimo dividendo politico” (cioè
dare gli 80 euro nella speranza che gli undici milioni di beneficiati
poi votassero per la maggioranza), l’esecutivo aveva deciso di battere
la strada dello sconto sull’Irpef. Ne avevano diritto tutti i lavoratori
con reddito inferiore ai 26 mila euro. Non dovevano invece averlo i più poveri: cioè quelli che guadagnano meno di 7.500 euro all’anno. Chi ha una busta paga di 600 euro è già esentato dalle tasse. Dargli uno sconto era impossibile.
Ogni mese, però, in Italia decine di migliaia di persone perdono il
lavoro e a fine anno si trovano a incassare meno del previsto. Altre
migliaia, invece, il posto lo mantengono, ma in aziende che a causa
della crisi sospendono per lungo tempo il pagamento degli stipendi. Poi
ci sono i datori di lavoro che si sbagliano e che il bonus lo
inseriscono in busta, sebbene gli stipendi dei loro collaboratori siano troppo bassi. Risultato: 341 mila persone, o per meglio dire 341 mila poveri,
si trovano ora a dover restituire in un’unica soluzione quanto
mensilmente ricevuto. E se non lo fanno (per loro anche 200 o 300 euro
sono una somma enorme) scatta la cartella esattoriale.
Insomma, se il governo Monti ha inaugurato la categoria degli esodati, quello Renzi è a buon diritto il padre della categoria dei cornuti e mazziati.
Del resto, non era il grande Ettore Petrolini a dire: “Bisogna prendere
il denaro dove si trova: presso i poveri. Hanno poco, ma sono tanti”?
Certo, poi ci sono anche situazioni diverse. Più di un milione di lavoratori si sono resi conto di aver guadagnato troppo solo quando hanno presentato il 730.
Alcuni di loro hanno sforato la soglia dei 26 mila euro solo per uno o
due euro. Difficile sostenere che potessero accorgersene prima. Il loro
errore dimostra anzi che il bonus sarebbe stato giusto pagarlo non di mese in mese,
ma solo a fine anno una volta calcolato il reddito esatto (non per
niente un milione 600 mila italiani hanno scoperto di averne diritto
solo in quel momento). Ma ciò che è giusto, si sa, non è sempre politicamente conveniente:
chi ti dà il voto in cambio di due scarpe, almeno quella sinistra la
vuole vedere subito. E se poi, dimenticate le urne, gliele togli tutte e
due è facile che quel giorno smetta di votarti.
È il caso che Renzi ci rifletta. Magari per decidere
che le restituzioni vengano d’ora in poi cancellate ai più poveri e
rateizzate per gli altri. Forse non ci guadagnerà in consenso. Ma in
dignità sì.
Peter Gomez (Il Fatto Quotidiano - 4 giugno 2016)
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