Il tema della gestazione
per altri (Gpa) farà discutere, e molto, nel nostro Paese. Le scelte riproduttive dei singoli
individui e il superamento dei limiti
biologici configurano nuovi terreni di scontro. Contro questa pratica si
è creata un’inedita alleanza tra le
solite forze oscurantiste – destre (anche estreme), movimenti clericali
e omofobi – e il cosiddetto femminismo
“della differenza”. Secondo costoro, le donne verrebbero schiavizzate
per permettere a gente ricca di “comprarsi” un figlio. Ma è davvero così?
Per far chiarezza – una volta per tutte – ne ho
parlato con Serena Marchi, che
dopo un viaggio di 33.613 km per il mondo, ha dato voce alle madri gestanti
nella sua ultima fatica, Mio tuo suo loro (Ed. Fandango), che verrà
presentato alla libreria Tuba, a Roma, il
prossimo 28 marzo alle 19. “Già nel mio primo libro, Madri
comunque, c’erano due testimonianze su questo tema. Al Salone di Torino,
nel 2015, con il mio editore abbiamo deciso di dedicarci esclusivamente ad
esso”.
Le critiche, ovviamente, non mancano: “Mi hanno
accusato di essere andata solo nei
paesi occidentali e non essermi occupata di India, Nepal e Thailandia,
ma è stata questa la mia scelta”, dice ancora. Con una precisazione importante:
“Laddove esiste sfruttamento del corpo
femminile sono la prima a condannare. Di fronte alla costrizione, alla
schiavitù, tutti siamo contrari“.
Eppure, ricorda l’autrice “non si può dire che tutte le donne che si
prestano a partorire per altri siano schiave,
tutte sfruttate, tutte vittime di un mercato e di un giro
d’affari milionario. Continuare a trattare così questo tema complesso è dannoso e fuorviante”.
Serena ha incontrato donne libere, consapevoli e convinte di aiutare una famiglia o un
single ad avere un bambino. “Per amore,
per soldi, per dono. Per mille motivi che, a mio avviso, vanno
rispettati perché fanno parte della scelta. È tale indipendenza che si fa fatica a capire”. Con un rischio ulteriore:
“Sta passando il messaggio che una donna non sia in grado di decidere per se stessa e quindi abbia
bisogno di qualcuno che la difenda”. Atteggiamento
paternalistico, a ben vedere. Quasi patriarcale.
Le chiedo cosa pensa che ci sia dietro l’opposizione di certe femministe. “Da
sempre un uomo per diventare genitore ha bisogno di una donna. A me sembra che il vero fastidio stia in due genitori
gay. Tra le mie intervistate c’è chi ha preferito appositamente due uomini” perché in Inghilterra,
Canada e Usa è la donna, ricordiamolo,
a scegliere la coppia per cui partorire. “Scelta assolutamente solidale: sia perché, mi hanno detto, due gay
non possono avere figli da soli, sia perché molto spesso non hanno la
possibilità di diventare padri in altri modi: l’adozione è pratica ancora molto limitata. Ed essere due uomini
non può bastare per essere etichettati come cattivi genitori”.
Eppure, il problema sembrerebbe proprio questo: la genitorialità maschile è l’ultima
frontiera dello “sfruttamento patriarcale”? “Le donne che ho incontrato io, in
molti casi, non hanno permesso neppure ai loro uomini di dire come la
pensassero. Come Julia, di Las Vegas. Suo marito mi ha detto, sorridendo, che
non sa come fa. Che per lui è un po’ matta”. Eppure Julia ha deciso così.
Inoltre, prosegue l’autrice, “voglio premettere che continuare a parlare di surrogacy in riferimento ai
papà gay è un errore. La stragrande maggioranza di chi vi ricorre è
composta da donne, in coppia o single,
impossibilitate a portare a termine una gravidanza”. Laddove le portatrici lo
fanno per soldi – “scelta lecita, legittima e non criticabile” secondo
Marchi – come in Ucraina o Russia,
alle coppie gay la Gpa è vietata.
Gli omosessuali invece vanno in Canada
e in alcuni stati degli Usa “dove le donne scelgono la coppia che si propone e,
nella quasi totalità dei casi, si mantiene un costante contatto con il bambino dopo la nascita. Smetterei di
parlare di “uso” dei gay del corpo femminile. Vedo uno sfruttamento molto più diffuso in moltissimi altri ambiti, da parte dei maschi etero,
nella nostra quotidianità”.
Attraverso le testimonianze di questo libro, entriamo
nel cuore delle donne che hanno fatto una
scelta coraggiosa. Come Regina,
mamma di Novella Esposito. Come
possiamo leggere nel libro, la figlia
aveva perso la bambina che aspettava e le era stato asportato l’utero: Quando
entrai nella sua stanza, mi guardò e toccandosi il ventre mi disse: “Non ho più
niente”. E allora mi venne d’istinto, da dentro, dal cuore, dalle viscere. Mi
avvicinai, le accarezzai la testa, mi chinai su di lei e le dissi: “Novè, non
ti preoccupare. Se non puoi tu te lo
faccio io, un figlio“. “Me la porterò dentro tutta la vita”
confessa, emozionata, Serena: “Durante quella giornata ho toccato con mano e
sentito nelle viscere il significato della parola amore”.
Dario Accolla (Il Fatto Quotidiano - 26 marzo 2017)
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