Il
"lavoro" rimane un riferimento importante per la nostra società. Così
la "Festa del lavoro" del Primo maggio suscita sempre grande
consenso. Lo conferma il sondaggio condotto, nei giorni scorsi,
dall'Osservatorio sul Capitale sociale di Demos-Coop per Repubblica. Più di due
italiani su tre ritengono, infatti, che "celebrare" il Primo Maggio
abbia ancora senso. È un sentimento diffuso in tutta la popolazione. Senza
chiare "esclusioni" ideologiche. E quindi anche fra gli elettori di centro-destra
e di destra. Celebrare il lavoro, a questi italiani, appare tanto più
significativo perché si tratta di una risorsa sempre più scarsa e
dequalificata. Una larga parte degli intervistati, oltre 7 su 10, afferma di
non aver percepito la ripresa. Secondo loro, l'occupazione non è mai ripartita.
E se le statistiche dicono cose diverse, loro non se ne sono accorti. Semmai,
pensano che si sia allargato il lavoro "nero". E, ancor più, il
lavoro "precario". Ne sono convinti 3 italiani su 4. D'altra parte
non c'è fiducia nella politica e nelle politiche. Nei risultati delle leggi
approvate negli ultimi anni. Meno di 1 italiano su 10 pensa che il Jobs Act
abbia prodotto effetti. Mentre l'abolizione dei voucher ha convinto quasi tutti
gli intervistati. Ma del contrario: allargherà ancor più il lavoro nero e
precario. Il "reddito di inclusione sociale", invece, per ora, lo
conoscono in pochi.
Così, il
lavoro resta un riferimento importante, per gli italiani. Almeno, per gran
parte di essi. Che celebreranno il Primo Maggio con un sentimento di
"attesa". L'attesa che il lavoro ritorni. D'altronde, si assiste a un
mutamento sensibile dei progetti, professionali e di vita, tra gli italiani,
rispetto agli ultimi anni. In particolare, ritorna, con forza, la richiesta del
"posto fisso", soprattutto nel settore pubblico. Checco Zalone lo
aveva colto - e narrato - con efficacia, nel suo film "Quo vado?", un
anno e mezzo fa. Oggi quell'intuizione appare confermata dai dati di questo
sondaggio. Che, a differenza del film di Zalone, non sono divertenti.
L'indagine di Demos-Coop, infatti, ci racconta come, nell'ultimo anno, il clima
d'opinione intorno alle professioni libere e liberali si sia sensibilmente
raffreddato. La quota di persone che, per sé e i propri figli, vorrebbero
un'attività in proprio o da libero professionista, infatti, è in calo. Di
qualche punto. Mentre l'unica vera "ripresa" convinta, nell'ambito
del lavoro e dei "lavori", riguarda, appunto, il "posto
fisso". Sottolineato dalla crescente importanza attribuita agli Enti Pubblici.
Tanto delegittimati (per non dire disprezzati), come soggetti e come
istituzioni, quanto apprezzati, come sbocchi professionali. Si ripropone,
dunque, uno scenario noto, in un passato recente. Quando il grado di attrazione
di "un" lavoro, coincideva con il suo livello di
"sicurezza". Intesa come "stabilità" e
"continuità". Mentre la "flessibilità" piaceva agli
imprenditori - e ai politici "liberisti". Ma non ai lavoratori. Per
questa ragione è significativo il sostegno espresso, nel sondaggio Demos-coop,
all'ipotesi di ripristinare l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, abrogando
le modifiche apportate dal Jobs Act del governo Renzi. Questa proposta,
avanzata dalla Cgil, come quesito da sottoporre a referendum, era stata
bocciata dalla Corte costituzionale, lo scorso gennaio. Ma oggi, nel sondaggio,
ottiene il consenso di 7 italiani su 10. È un indice ulteriore del livello di
sfiducia e di incertezza che pervade la società nei confronti del lavoro.
Soprattutto e tanto più, negli ultimi anni.
Tuttavia,
alcuni segnali muovono in direzione diversa. Espressi, però da chi ha un
lavoro. Ne indichiamo due, fra gli altri.
Il primo: le
aspettative nel futuro. Cresce, infatti, la quota di lavoratori che scommettono
su una situazione personale migliore, "nei prossimi 2-3 anni". Oggi è
circa il 30%. Tuttavia, quasi un lavoratore su due ritiene che la propria
condizione non cambierà. E per il 18% potrebbe, perfino, peggiorare. L'altro
segnale in controtendenza riguarda la soddisfazione del lavoro svolto. Molto
elevata, per il 55% del campione intervistato da Demos-Coop. Ma, comunque, più
che sufficiente, per un altro 27%. Solo il 18% degli italiani, in definitiva,
si ritiene insoddisfatto del lavoro svolto. Tuttavia, il problema riguarda
"gli altri". La componente "esclusa" dal mercato del
lavoro. A questo proposito è interessante il tratto generazionale che impronta
l'insoddisfazione. Particolarmente marcata fra i "giovani-adulti".
Coloro che hanno fra 25 e 34 anni. Nati fra i primi anni 80 e 90. Le fasce
"anziane" dei Millennials. Ancora "giovani" e non ancora
"adulti". In una società nella quale la giovinezza si prolunga sempre
più, ma riflette dipendenza, rinvio dell'autonomia. I "giovani-adulti":
non riescono ad affrancarsi dalla famiglia (non conviene), né a mettersi
davvero in proprio. Oggi, si sentono più precari di alcuni anni fa. Sicuri che,
se mai riuscissero a raggiungere la pensione, questa non basterebbe per vivere.
A loro, il
lavoro appare un'esperienza meno soddisfacente rispetto agli altri. Anche
perché, più degli altri, ne sono esclusi. Per questo, come gran parte della
popolazione, ritengono che i giovani, per fare carriera, se ne debbano andare
dall'Italia. E molti di essi se ne vanno davvero. Spesso non ritornano.
La loro
"insoddisfazione", peraltro, si è espressa anche politicamente,
quando hanno bocciato, in massa, il referendum costituzionale.
I
giovani-adulti: sono lo specchio di una società che invecchia senza accettarlo.
Una società di finti-giovani.
Ilvo Diamanti (La Repubblica – 29 aprile 2017)
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