In un articolo pubblicato dal Corriere
Caterina Malavenda, uno dei migliori avvocati per i reati di
diffamazione a mezzo stampa, ha dichiarato che quello del giornalista è
un mestiere “pericoloso”. E certamente lo è. Chi fa inchieste ma anche
chi si limita agli editoriali è perennemente esposto al rischio di
querele penali o alle ancora più insidiose azioni civili per il
risarcimento dei danni, materiali e morali, alla persona che si ritiene
offesa. Poiché la responsabilità penale è personale a risponderne
direttamente è il giornalista. Ma il penale è quello che ci preoccupa di
meno. Per noi sono molto più infide le azioni civili di danno. Nel
penale se si accerta che il giornalista ha detto la verità la questione
finisce lì. Nel civile anche un ladro, riconosciuto come tale, può agire
per danni se il giornalista si è espresso “in termini non continenti”.
Ma
se il mestiere del giornalista è “pericoloso” per noi, noi giornalisti
siamo pericolosi per gli altri. Da quando la carta stampata, dove esiste
ancora un certo controllo e autocontrollo, si è integrata con i nuovi
media, i social, facebook, i Dagospia, i blogger, gli influencer che,
senz’arte né parte, hanno milioni di seguaci, noi possiamo distruggere
in un amen la carriera, la reputazione e anche la vita di una persona.
Il caso Weinstein e tutto ciò che ne è seguito dice questo. Una notizia,
vera o falsa che sia, una volta che diventa ‘virale’ è inarrestabile ed
è persino inutile confutarla, perché il circuito massmediatico ha già
emesso la sua condanna, senza processo e senza appello. Il servizio che
le Iene hanno fatto sul e al regista Fausto Brizzi è semplicemente vergognoso.
Anche
noi giornalisti, e non mi tolgo certo dal mazzo perché adesso non
faccio più cronaca, siamo dei molestatori. Totò Riina è morto. Sappiamo
tutto di lui, ha ordinato o eseguito personalmente un centinaio di
omicidi, è stato il capo di Cosa Nostra. Ma adesso è morto. E un morto è
un morto. Che bisogno c’era che decine di giornalisti si appostassero
davanti all’ospedale di Parma e importunassero la moglie e i figli cui,
giustamente, umanamente, la magistratura aveva dato l’autorizzazione a
vedere per l’ultima volta il morente? Che scoop si poteva trarre da una
salma? Se non vogliamo metterci allo stesso livello dovremmo avere per
Riina la pietas che lui non ha mai avuto per le sue vittime.
Ma
il vero tarlo dell’informazione di oggi, almeno in Italia, è che non fa
informazione ma disinformazione. Prendiamo i 5Stelle. Tutte le notizie
negative sui 5Stelle trovano grande risalto sulla stampa del regime,
quelle, poche, positive vengono degradate a taccuini quando non gli
vengono addirittura ritorte contro come è avvenuto per la vittoria della
Di Pillo a Ostia trasformata disinvoltamente in una sconfitta. Parliamo
di una vicenda che credo di conoscere bene perché me ne occupo da quasi
trent’anni: l’Afghanistan. Da quel Paese in guerra da sedici anni le
notizie, poiché siamo noi gli occupanti, non arrivano o arrivano
smozzicate o stravolte. Chi, tranne Il Fatto,
ha pubblicato la ‘lettera aperta’ che il Mullah Omar inviò nel 2015 ad
Al Baghdadi intimandogli di non mettere piede in Afghanistan? Chi,
tranne Il Fatto,
dà notizia che in Afghanistan ci sono scontri cruenti fra i talebani
afgani (confusi, per ignoranza, disinteresse o volutamente con i
talebani pachistani che sono tutt’altra cosa) e gli uomini dell’Isis? E’
solo per fare qualche esempio fra gli infiniti. Gli addetti ai lavori,
che sono costretti quotidianamente a leggere i giornali, sanno benissimo
che tutte le notizie politiche sono distorte, a favore o contro questa o
quella parte. Perché quasi tutti i giornali non sono più dei giornali
ma degli agitprop.
Il
giornalismo è un mestiere da avvoltoi, si giustifica e si nobilita solo
se fatto con una tensione etica, cioè nel tentativo di migliorare,
socialmente, culturalmente, moralmente, il proprio Paese. Se guardo la
storia d’Italia dal dopoguerra a oggi devo riconoscere che non solo non
ci siamo riusciti ma che il nostro Paese è andato progressivamente
degradando fino ai livelli quasi insostenibili di oggi. E di questo
degrado i politici sono meno responsabili degli intellettuali. Perché
per il politico le mezze verità, le promesse impossibili e la stessa
menzogna sono, come dire, ‘strumenti del mestiere’ per ottenere, qui e
ora, il famoso consenso. E questo dice qualcosa anche sull’essenza
stessa della democrazia (si veda in proposito il preveggente libro, Diario intimo,
di Henri-Frédéric Amiel, scritto in tempi non sospetti, nel 1871).
L’intellettuale è invece libero da questi obblighi. Certo, paga la sua
libertà a caro prezzo. Ma nessuno ci costringe a fare questo
“pericoloso”, inteso nel suo doppio senso, mestiere. Se ne può sempre
cercare, sia pur a magro salario, un altro.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2017)
Nessun commento:
Posta un commento
Tutto quanto pubblicato in questo blog è coperto da copyright. E' quindi proibito riprodurre, copiare, utilizzare le fotografie e i testi senza il consenso dell'autore.