In una realtà lavorativa caratterizzata
dalla convivenza di tante “eccellenze” era difficile emergere, ma un sistema
improntato essenzialmente sul “dividi et impera” aveva in uso un metodo
valutativo infallibile, ampiamente collaudato nel tempo.
Come in tutte le organizzazioni, esistevano pure delle eccezioni alla regola che, adeguatamente calmierate, non inficiavano mai il livello qualitativo generale della struttura.
Puntualmente si alternavano dietro le porte delle direzioni gli ansiosi singoli che, a prescindere dal ruolo, venivano informati sul risultato conseguito per l’attività prestata nell’anno precedente.
L’omertà poi regnava sovrana, perché era implicito il detto che la valutazione ricevuta (variabile in decimali) doveva costituire un segreto da non condividere: la “preferenza” incassata, alla vista degli altri, poteva destare un certo imbarazzo ma mai confidare a nessuno il contenuto vero del “breve colloquio, confezionato ad hoc”.
Capitava pure di frequente che a parità di mansioni e con medesime prestazioni qualitative le valutazioni fra colleghi fossero differenti. La cosa ingenerava un certo imbarazzo nei più sensibili, nessun problema per i più fortunati d’indole ipocrita, portati già da loro ad essere naturalmente un po’ “stronzi”.
Un metodo limitato “a monte” da budgets valutativi, determinava quindi selezioni che andavano ad influenzare sviluppi o rallentamenti in carriera, con le annesse e connesse conseguenze economiche.
Era di certo un sistema alquanto rozzo ma efficace, speso come un metodo “sofisticato ed efficiente”.
La discrezionalità, infatti, la faceva da padrona ma, come detto, l’eccellenza media dei valutati non creava danni e non poteva mai mettere in crisi l’intera organizzazione. Una vera e propria cabala però, influenzata spesso da empatie più o meno “sane”, determinava i destini personali. Ciò a prescindere dalle potenzialità reali dei soggetti operanti nell’istituzione, ampiamente parcellizzata in tante figure professionali e realtà operative, anche periferiche.
Per quanto evidente, il primo limite era che, come accennato, i budgets assegnati localmente prescindevano dall’insieme delle specifiche categorie; ovvero, poteva capitare che eccellenze potessero essere concentrate in alcuni luoghi e mediocrità in altri e, alla tirata delle somme, vantaggi derivavano essenzialmente dalla fortunata temporanea allocazione di taluni ai fini valutativi. Ma questa non era, ovviamente, la sola pecca.
Tenendo ben presente che le principali qualità per poter fare carriera erano la “fedeltà” e la “viva intelligenza a non creare mai veri problemi”, l’aspirante doveva sempre rispettare il ruolo di “sottoposto” e nel caso, eventualmente prospettare nei dovuti modi - ai dirigenti del momento - soluzioni brillanti accessibili alla "loro portata".
Per non parlare poi dell’orgoglio, che nel caso costituiva un peccato mortale. L’arroganza no, se tornava utile al “Capo” per affermare e manifestare meglio il suo potere.
Un direttore ebbe a dire una volta: “ricordati sempre che sei un dipendente della …….”, pur sapendomi assegnato ad un compito di livello ben superiore. Neanche appartenessimo ad una caserma o fossimo componenti dell’arma dei Carabinieri.
Nei ricordi si affollano i tanti “delatori compiacenti”, i molti amici che t’invitavano a fregartene e altri che ti tranquillizzavano dicendoti “stai sereno” …… quante belle eccellenze, quante scialbe figure.
Come in tutti i casi della vita, la fortuna era la somma regina che gestiva i diversi destini dei singoli.
Anche se c’è da dire che comunque i migliori trovavano sempre il modo per andare avanti in carriera, di regola, le intelligenze più dotate, erano spesso chiamate a scomputare almeno per una volta "una pena"; magari per apprendere e somatizzare bene la lezione del “chi comanda”.
Tutto sommato, però, il sistema funzionava, anche perché tantissime brave persone si adattavano ai ruoli e, preferendo “alla carriera ad ogni costo” ben altri valori, concedevano ampi spazi ai più ambiziosi che erano portati alla lotta.
Sono le prime figure quelle più significative che si ricordano più facilmente e che affollano piacevolmente la memoria dei tanti trascorsi; tutto il resto fa parte delle esperienze che rimangono nell’ombra e che, qualora siano state brutte, ci hanno intanto forgiato “uomini”. Leonardo Sciascia docet.
Come in tutte le organizzazioni, esistevano pure delle eccezioni alla regola che, adeguatamente calmierate, non inficiavano mai il livello qualitativo generale della struttura.
Puntualmente si alternavano dietro le porte delle direzioni gli ansiosi singoli che, a prescindere dal ruolo, venivano informati sul risultato conseguito per l’attività prestata nell’anno precedente.
L’omertà poi regnava sovrana, perché era implicito il detto che la valutazione ricevuta (variabile in decimali) doveva costituire un segreto da non condividere: la “preferenza” incassata, alla vista degli altri, poteva destare un certo imbarazzo ma mai confidare a nessuno il contenuto vero del “breve colloquio, confezionato ad hoc”.
Capitava pure di frequente che a parità di mansioni e con medesime prestazioni qualitative le valutazioni fra colleghi fossero differenti. La cosa ingenerava un certo imbarazzo nei più sensibili, nessun problema per i più fortunati d’indole ipocrita, portati già da loro ad essere naturalmente un po’ “stronzi”.
Un metodo limitato “a monte” da budgets valutativi, determinava quindi selezioni che andavano ad influenzare sviluppi o rallentamenti in carriera, con le annesse e connesse conseguenze economiche.
Era di certo un sistema alquanto rozzo ma efficace, speso come un metodo “sofisticato ed efficiente”.
La discrezionalità, infatti, la faceva da padrona ma, come detto, l’eccellenza media dei valutati non creava danni e non poteva mai mettere in crisi l’intera organizzazione. Una vera e propria cabala però, influenzata spesso da empatie più o meno “sane”, determinava i destini personali. Ciò a prescindere dalle potenzialità reali dei soggetti operanti nell’istituzione, ampiamente parcellizzata in tante figure professionali e realtà operative, anche periferiche.
Per quanto evidente, il primo limite era che, come accennato, i budgets assegnati localmente prescindevano dall’insieme delle specifiche categorie; ovvero, poteva capitare che eccellenze potessero essere concentrate in alcuni luoghi e mediocrità in altri e, alla tirata delle somme, vantaggi derivavano essenzialmente dalla fortunata temporanea allocazione di taluni ai fini valutativi. Ma questa non era, ovviamente, la sola pecca.
Tenendo ben presente che le principali qualità per poter fare carriera erano la “fedeltà” e la “viva intelligenza a non creare mai veri problemi”, l’aspirante doveva sempre rispettare il ruolo di “sottoposto” e nel caso, eventualmente prospettare nei dovuti modi - ai dirigenti del momento - soluzioni brillanti accessibili alla "loro portata".
Per non parlare poi dell’orgoglio, che nel caso costituiva un peccato mortale. L’arroganza no, se tornava utile al “Capo” per affermare e manifestare meglio il suo potere.
Un direttore ebbe a dire una volta: “ricordati sempre che sei un dipendente della …….”, pur sapendomi assegnato ad un compito di livello ben superiore. Neanche appartenessimo ad una caserma o fossimo componenti dell’arma dei Carabinieri.
Nei ricordi si affollano i tanti “delatori compiacenti”, i molti amici che t’invitavano a fregartene e altri che ti tranquillizzavano dicendoti “stai sereno” …… quante belle eccellenze, quante scialbe figure.
Come in tutti i casi della vita, la fortuna era la somma regina che gestiva i diversi destini dei singoli.
Anche se c’è da dire che comunque i migliori trovavano sempre il modo per andare avanti in carriera, di regola, le intelligenze più dotate, erano spesso chiamate a scomputare almeno per una volta "una pena"; magari per apprendere e somatizzare bene la lezione del “chi comanda”.
Tutto sommato, però, il sistema funzionava, anche perché tantissime brave persone si adattavano ai ruoli e, preferendo “alla carriera ad ogni costo” ben altri valori, concedevano ampi spazi ai più ambiziosi che erano portati alla lotta.
Sono le prime figure quelle più significative che si ricordano più facilmente e che affollano piacevolmente la memoria dei tanti trascorsi; tutto il resto fa parte delle esperienze che rimangono nell’ombra e che, qualora siano state brutte, ci hanno intanto forgiato “uomini”. Leonardo Sciascia docet.
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