Il coraggio di Paolo Borsellino di Antonino Di Matteo
Paolo Borsellino era un magistrato che con la passione e il rigore morale che lo contraddistinguevano rappresentava il concretizzarsi del principio costituzionale della "legge uguale per tutti". Io appartengo a quel gruppo di giovani siciliani che si sono determinati ad affrontare la dura avventura del concorso in magistratura negli anni Ottanta, proprio perché affascinati dalla inebriante brezza, anzi, dal forte vento di pulizia e di ribellione che era rappresentato dalla esperienza del pool antimafia di Palermo. E quindi il nome, il lavoro, il carisma di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino rappresentavano già allora per me, ma vi assicuro per molti altri magistrati che sono anche qui oggi in questa sala, l’ideale punto di riferimento di un cammino appena intrapreso con la decisione di dedicare tutte le nostre forze al perseguimento di un sogno, quello di diventare magistrato. Superato il concorso, una serie di eventi e di coincidenze, hanno fatto incrociare la mia piccola storia di giovane magistrato con la grande storia del giudice Borsellino e con le tragiche vicende della strage di via d’Amelio. Conservo indelebile il ricordo dell’entusiasmo e dell’emozione che provai quando durante l’uditorato conobbi personalmente Paolo Borsellino e constatai immediatamente l’enorme carica umana che sapeva trasmettere anche ai colleghi più giovani. Ho impressa nella memoria la sensazione di sgomento e di angoscia che mi assalì al momento in cui appresi la notizia della strage e che mi indusse d’istinto, in quel terribile 19 luglio 1992 (stavo facendo il tirocinio mirato ed ero già stato assegnato alla procura della Repubblica di Caltanissetta), a venire in questo Palazzo, nei corridoi della Procura dove ebbi modo di respirare quell’aria di rabbia, di desolazione, di disperazione che ammorbava veramente questo intero Palazzo di Giustizia. Ricordo quando, solo dopo un anno di esperienza alla procura di Caltanissetta, il procuratore Tinebra che oggi è presente e ne sono contento, ritenne di farmi entrare in quel ristretto gruppo di magistrati che seguivano le indagini e i dibattimenti per le stragi. Ero entusiasta e orgoglioso di potere fare parte di quel gruppo e di poter dare il mio contributo, sentivo forte il peso della responsabilità, della gravosità e dell’impegno, avevo la coscienza dei miei limiti, la paura di non essere all’altezza, la paura anche di poter essere eventualmente strumentalizzato. Ho lavorato per sei lunghi anni a quelle indagini ed è stata l’esperienza, professionale ed umana che più mi ha segnato. Ricordo tutto di quei momenti, di quei processi, perché tutto vivevo con l’intensità, la passione, l’emozione di chi scopre giorno per giorno quanto sia faticoso ma allo stesso tempo esaltante il difficile cammino di ricerca di verità così complesse come quella sulle stragi. Bene, in quel periodo, in quegli anni dell’immediato post-stragi era tangibile il grande impegno dello Stato in tutte le sue articolazioni per scoprire e processare gli esecutori, gli autori della strage. Gli uffici giudiziari di Caltanissetta vennero messi nelle condizioni di lavorare al meglio, con un grande dispiego di forze ed energie da parte del Ministero per la organizzazione del supporto ai magistrati. Vennero applicati magistrati esperti provenienti da altra sede, si avvertiva lo spasmodico e prioritario impegno di tutte le Forze di Polizia per quelle indagini. Si respirava la viva attenzione dei mass media e quindi dell’opinione pubblica. Nel tempo però ottenuta la condanna nei vari processi, mi pare di 22 - 23 tra esecutori e mandanti mafiosi della strage, si è verificata una progressiva diminuzione dell’intensità dell’impegno non certo da parte dei magistrati della Procura della Repubblica di Caltanissetta. Ciò a mio parere è molto grave perché questa diminuzione dell’intensità dell’impegno dello Stato è stata contestuale al momento in cui emergevano, con elementi probatori concreti e circostanziati, precise ipotesi di corresponsabilità di soggetti non organici a Cosa Nostra. Si trattava di ipotesi che certo non erano frutto di teoremi, come pure è facile ed abituale bollare le ricostruzioni probatorie che lambiscono livelli alti di responsabilità. No, non erano teoremi. Tanto che più sentenze definitive emesse “In nome del popolo italiano” da più Corti di Assise hanno valutato come particolarmente concreti quegli elementi ed invocato espressamente la necessità di ulteriori, incisivi approfondimenti investigativi su quei punti. E invece gradualmente ma inesorabilmente è accaduto il contrario. Gli uffici giudiziari di Caltanissetta sono stati progressivamente sguarniti e per carenza di magistrati hanno vissuto e vivono situazioni di grande difficoltà. Le Forze di polizia non hanno investito più di tanto delle loro risorse in indagini evidentemente scomode come quelle sui cosiddetti mandanti esterni. La politica si è dimostrata assolutamente indifferente all’esigenza di approfondimento evidenziata dalle sentenze. Perfino le Commissioni Parlamentari Antimafia che si sono succedute nel corso delle ultime legislature o hanno ignorato il problema o addirittura, mi riferisco a una relazione di maggioranza della commissione nazionale antimafia (credo della terzultima legislatura), non hanno trovato di meglio che criticare ferocemente il lavoro di quei pubblici ministeri che avevano osato “volare un po’ più alto”.
Antonino Di Matteo - 19 luglio 2008 - http://www.antimafiaduemila.com/content/view/8156/78/
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