Sei sicuro di iscriverti in legge?
"Sei sicuro di iscriverti a legge?" "Non del tutto. Mi piace molto anche fisica, ma penso proprio che sceglierò legge." "E pensi sempre di frequentarla per poi fare il magistrato?" "Se mi iscrivo a legge, è per fare il magistrato." "Sei sicuro davvero?" Pensavo a tantissime cose, sempre, quando rispondevo a questa domanda che, nel nostro rapporto così acerbo, lei mi poneva sovente. Pensavo a mio padre, al suo lavoro di medico, al segnale forte che mi avevano trasmesso lui e mia mamma. Mio padre non ha mai voluto diventare ricco. Mia madre lo era stata, e lo era ancora un pochino. Hanno vissuto sempre come se il denaro non esistesse. Ce n'era sempre abbastanza, ma mio padre non lavorava per quello. Ha lavorato tanto per la dignità del suo lavoro, di se stesso e della gente che gli stava intorno. Ha continuato per anni da generico, alzandosi la notte per recarsi a visitare chi aveva bisogno. E poi, più anziano, quando avrebbe potuto "far soldi", si è sempre rifiutato di venire a patti con sé. Devono aver fatto fatica all'inizio, tre figli in tre anni. E mia madre era del tutto in sintonia con quello che adesso mi sembra, in entrambi, essere stato il desiderio di vivere piuttosto che avere. E pensavo al nonno Gherardo, il papà di mia mamma, con quella sua vita così contraddittoria, ma vera. Lui sì, ricco, al punto di possedere, ai suoi tempi, più di un aereo. Ma non ostentava il lusso e rifuggiva il potere, che pur tante volte gli era stato offerto. Non era mai stato una persona verso la quale gli altri sentissero distacco. Pensavo all'onore del bisnonno materno, il papà di mia nonna di cui i racconti familiari dicono che, coinvolto in affari sfortunati, non aveva esitato a restituire il suo titolo nobiliare e a rientrare nella forza lavoro della nazione: capostazione a Como. Pensavo sicuramente a tutto ciò, anche se di qualcosa soltanto ero consapevole, ma non c'era soltanto questo. C'era anche una forte volontà di riscatto dai miei studi approssimativi (fino al ginnasio ero stato un disastro) e dai miei pessimi risultati. C'era forse anche un po' il desiderio di togliersi da taluni impicci della vita (ricordo, per esempio, quanta fatica aveva fatto mio padre, ormai radiologo, per poter ottenere la "licenza" di lavorare con gli enti pubblici, come professionista esterno come facevano allora in tanti, e quante umiliazioni aveva subito senza ottenere alcun risultato, suppongo per non essersi piegato a pagare tangenti). Non c'era prestigio allora, negli anni sessanta, per la professione che avevo scelto. E nemmeno l'aspetto economico, lo stipendio, era soddisfacente. C'era anche l'esempio guascone di un altro bisnonno (sempre da parte di madre, il ramo paterno è di discendenza operaia, e quindi di loro assai poco si è tramandato). Mi aveva fatto un grandissimo effetto quest'antenato, divenuto avvocato, e nominato d'ufficio difensore di un omicida, alla sua prima causa. Ce l'aveva messa tutta, ma l'uomo era stato condannato all'ergastolo. Subissato dai sensi di colpa, il bisnonno decise di passare un vitalizio alla moglie e ai figli di quel disgraziato e di ritirarsi dalla professione. Certo, poteva permettersi un simile lusso, ma pensate l'impressione di quel gesto su un adolescente! Supero la maturità, mi iscrivo a giurisprudenza, mi laureo e, avendo già deciso il mio futuro, comincio a frequentare il palazzo di giustizia. Il 12 dicembre 1969, preistoria, qualcuno mise una bomba all'interno della Banca nazionale dell'agricoltura, a Milano, in piazza Fontana. La bomba scoppiò e fece una strage, sedici morti e ottantotto feriti. Sembrava che le indagini, dopo anni di depistaggi, andassero per il verso giusto, grazie, tra l'altro, alla solerzia e all'impegno di Emilio Alessandrini, pubblico ministero, e di Gerardo D'Ambrosio, giudice istruttore. Quei nomi figuravano sulle targhette applicate alle rispettive porte, nel palazzo. Per me, fresco di laurea, leggerli è stata un'emozione difficilmente ripetibile. Forse proprio mentre leggevo i nomi di Gerardo D'Ambrosio ed Emilio Alessandrini sulle porte davanti alle quali passavo ogni giorno, e mi inorgoglivo del fatto che, se ce l'avessi fatta, di lì a poco sarei diventato loro collega, altri, i cui nomi avremmo scoperto essere inseriti nella lista della loggia P2, tramavano perché Alessandrini e D'Ambrosio non trovassero niente. Costoro, il comandante dell'ufficio D del SID Gian Adelio Maletti e il capitano del servizio Antonio Labruna, responsabili di livello elevato dei servizi segreti, sono stati scoperti anni dopo, e anche condannati (a meno che qualche amnistia sopravvenuta non abbia consentito loro di andare esenti da pena); i miei futuri colleghi però sono stati posti in condizione di non scoprire più nulla. Ironia della sorte, una delle persone che sapeva di più di tutta la vicenda, l'estremista di destra Marco Pozzan, è stata fatta espatriare, dai servizi, con un passaporto falso intestato a certo Mario Zanella: troveremo anche questo nome, molti anni dopo, nelle liste della P2.
Gherardo Colombo (Il Vizio della Memoria - Feltrinelli - Ed. 1996)
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