"Basta dettagli sul raid che ha ucciso Bin Laden". Non solo le foto: dalla Casa Bianca ora parte l'ordine di un silenzio-stampa più generale sul blitz del reparto speciale dei Seal. Troppe versioni si sono susseguite in questi giorni, troppe contraddizioni, troppi sospetti. La ragion di Stato interviene e mette un "tappo" alla verità? Nell'era di WikiLeaks l'improvviso ripensamento di Barack Obama sembra anti-storico, irrealistico. Ma l'America del Primo emendamento, la democrazia teoricamente più trasparente della storia, ondeggia continuamente nei suoi cicli storici di apertura e chiusura, con vittorie e sconfitte nella battaglia fra democrazia e segretezza. Mentre ieri Obama portava una corona di fiori a Ground Zero, era impossibile non ricordare quel che pensa tuttora il 42% degli americani: che la Commissione d'indagine sull'11 settembre "ha nascosto o rifiutato d'investigare prove cruciali che contraddicono la versione ufficiale su quell'attacco". E non sono i soliti seguaci delle teorie del complotto.
Uno dei più autorevoli giuristi coinvolti nei lavori di quella Commissione, John Farmer, si dissociò dalle conclusioni con parole che fanno rabbrividire: "Ciò che il governo e i militari hanno detto al Congresso, ai mass media e all'opinione pubblica su quel che sapevano allora, è quasi interamente falso".
Il conflitto tra democrazia e segretezza è antico quanto lo Stato moderno. Max Weber scrive: "Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni. Lo Stato cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico, perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico". Ma nella storia americana la tensione tra il diritto di sapere dei cittadini e la voglia di segreto dei governanti ha avuto dei rovesci tumultuosi. Le due guerre mondiali mettono a confronto due presidenti democratici e progressisti, eppure molto diversi tra loro su questo terreno. Woodrow Wilson firma una severa legge di censura, l'Espionage Act del 1918, fonte di abusi gravi (centinaia di socialisti e pacifisti sono sbattuti in carcere per avere contestato il presidente, non certo per avere svelato segreti militari). Franklin Delano Roosevelt eredita quello strumento ma ne fa un uso più moderato: nel 1942 affida l'Office of Censorship al giornalista Byron Price, ex direttore dell'Associated Press, che opta per un'autocensura volontaria lasciata quasi interamente alla discrezione dei mass media. Questo non impedisce che il sospetto del segreto continui a macchiare episodi-chiave della seconda guerra mondiale: l'accusa a Roosevelt di avere nascosto i preparativi dell'attacco giapponese su Pearl Harbor o le prime notizie sullo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti. Le guerre sono il miglior pretesto per mettere la sordina alla trasparenza, e l'America passa da un conflitto all'altro: quelli "caldi" si chiamano Corea, Vietnam, Iraq, Afghanistan, ma incrociano i 40 anni della guerra fredda con l'Urss e l'arco della "guerra globale al terrorismo" secondo l'etichetta coniata da George Bush.
Il periodo dello scontro mondiale con il blocco comunista è ideale per le trame segrete: è l'epoca dei golpe sostenuti dalla Cia (come "l'altro 11 settembre", quello del 1973 in cui il governo democratico di Salvador Allende viene deposto dai militari in Cile). L'eliminazione di Mossadeq in Iran, sostituito dallo Scià (1953), la Baia dei Porci a Cuba (1961), sono i primi episodi di una lunga serie di "ferite" alla trasparenza. Non riguardano solo la sfera della politica estera e della Difesa, investono anche una tragedia tutta nazionale: l'assassinio di John Kennedy nel 1963. Quasi mezzo secolo dopo, il 70% degli americani restano convinti che la commissione d'inchiesta presieduta dal giudice Earl Warren abbia nascosto la verità, cioè l'esistenza di una vasta congiura interna contro il presidente.
Ma il pendolo oscilla violentemente nella direzione opposta negli anni Settanta. La trasparenza si prende una rivincita nel 1971 quando il New York Times pubblica i Pentagon Paper e inchioda la Casa Bianca sui risvolti segreti della guerra del Vietnam: "Il presidente Lyndon Johnson ha mentito sistematicamente alla pubblica opinione e al Congresso su un tema di primaria importanza nazionale". I Pentagon Paper sono al tempo stesso il segnale di una metastasi nella segretezza, ma anche l'occasione per mobilitare gli anticorpi. La Corte suprema difende il diritto a pubblicarli, il tentativo di censura è sconfitto. Farà scuola anche per le rivelazioni sul Watergate che portano alla caduta di Richard Nixon (1974). Più tardi un altro scandalo - il traffico clandestino Iran-contras, forniture di armi a Teheran per pagare i terroristi di destra in Nicaragua - rischia di portare all'impeachment Ronald Reagan e nel 1986 Charles Krauthammer su Time osserva: "La democrazia americana è allergica ai segreti. L'idea stessa di segreto comporta una condanna etica. La promessa democratica dell'apertura non si concilia con il mondo occulto delle diplomazie e degli intrighi militari".
Ma la battaglia per la trasparenza non è mai vinta una volta per tutte. Nel 1994 un'apposita indagine bipartisan del Congresso, condotta dalla Moynihan Commission on Government Secrecy, rivela dati inquietanti: "Ogni anno vengono generati 400.000 nuovi segreti, la cui divulgazione sarebbe teoricamente un grave danno per la sicurezza nazionale". È ancora poca cosa, rispetto a quel che accade in questa nazione con lo shock dell'11 settembre 2001. A quasi dieci anni di distanza, una monumentale inchiesta del Washington Post intitolata "Top Secret America" denuncia "un universo nascosto che cresce al di fuori di ogni controllo". Eccone alcuni elementi: 1.271 organizzazioni statali e 1.931 società private che lavorano su programmi legati all'antiterrorismo; 854.000 persone che si muovono nella sfera "top secret". La conclusione di quell'inchiesta è severa: "Il mondo occulto che il governo ha creato in risposta all'attacco dell'11 settembre è diventato così vasto e segreto che nessuno sa più quanto costi, quante persone impieghi, quante attività si svolgono al suo interno". Un episodio fondamentale nell'escalation della segretezza resta la guerra in Iraq, "legittimata" dal segretario di Stato Colin Powell alle Nazioni Unite nel febbraio 2003 con il celebre discorso sulle "armi di distruzione di massa di Saddam Hussein": prove false, ma a lungo coperte dal segreto.
Obama arriva alla Casa Bianca deciso ad aprire ampi squarci nel velo della segretezza, è il portatore di una cultura della trasparenza. Ma l'oscillazione del pendolo stavolta è breve, dura pochi mesi. Nell'aprile 2009 Obama rende pubblici gli interrogatori della Cia che hanno fatto uso della tortura sotto l'Amministrazione Bush. Ma nel maggio dello stesso anno, quando stanno per essere divulgate foto che documentano violenze dei soldati americani contro i prigionieri in Iraq e in Afghanistan, scatta già un ripensamento. Sotto pressione dal Pentagono, "per non mettere in pericolo i nostri soldati al fronte", Obama vieta la pubblicazione di quelle immagini. Né passa l'idea di aprire delle indagini sui reati perpetrati con il ricorso alla tortura. Obama dice che "è ora di ammettere che furono fatti errori, voltare pagina e andare avanti". Vince la ragione di Stato. Oggi di nuovo, di fronte alle reticenze sull'uccisione di Bin Laden, risuonano le celebri parole di Jonathan Schell, pubblicate nel 1971 sul New Yorker dopo la vittoria della trasparenza sui Pentagon Papers: "La questione è: chi ha il diritto di definire l'interesse della nazione? In una democrazia, questo spetta ai cittadini".
Federico Rampini (La Repubblica - 06 maggio 2011)
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