Quando gli psicoanalisti discutono animosamente tra loro tendono a farlo a colpi di diagnosi. L' avversario non viene solo contestato teoricamente ma viene innanzitutto psichiatrizzato come se fosse un paziente.
Nei dibattiti filosofici si discute a colpi di "tesi". L' ultimo caso è quello della critica del "nuovo realismo" nei confronti del "pensiero debole". La colpa del pensiero debole come sottoprodotto dell' ermeneutica sarebbe quella di cancellare il peso oggettivo della realtà esterna, di introdurre al posto di questo peso il carattere aleatorio delle interpretazioni che finisce per fare evaporare la nozione stessa di realtà. Sino ad individuare in questa perdita del riferimento stabile alla Realtà la giustificazione ontologica dei sofismi interpretativi di ogni genere.
In un brillante libretto titolato Inattualità del pensiero debole (Forum, Udine) Pier Aldo Rovatti, che condivide con Gianni Vattimo la paternità del pensiero debole oltre alla cura del volume che nel 1983 ne ha sancito la nascita, prende posizione decisa in difesa della sua creatura. Due le sue argomentazioni principali. La prima: nessuno ha mai sognato di contestare che se piove piove - era uno degli argomenti "forti" contro i debolisti -, ma nessuno può negare che a) non esiste un fatto in sé che non sia preso in una rete stratificata di significazioni (la pioggia può essere benvenuta o maledetta, può dare luogo a valutazioni meteorologiche o a poesie, ecc.) e, soprattutto, che b) il fatto in sé della pioggia apre inevitabilmente sul "vissuto" singolare di chi lo vive e questo vissuto, che pure è un fatto, non è mai semplice come un fatto!
Nondimeno il riferimento di Rovatti a questa dimensione non anima chissà quale irrazionalismo, ma agisce come contrappeso critico nei confronti di quei saperi forti che vorrebbero prescindere dalla dimensione affettiva e interpretativa del soggetto e che invocano la Verità, la Vita, la Realtà, la Storia e il Soggetto stesso come assoluti dogmatici.
Mi chiedo, en passant, quanto la psicoanalisi potrebbe apportare a questo dibattito sull' esistenza nuda e cruda della realtà opposta alla natura artefatta delle interpretazioni. Una scarpa è una scarpa, è un fatto, ma per qualcuno - per esempio per un feticista - non è mai solo una scarpa ma diviene un idolo, un talismano, la condizione stessa che rende possibile il desiderio erotico. E non si tratta affatto, come sarebbe stolto credere, di situazioni patologiche. Anzi, la psicoanalisi non ci obbliga forse a coniugare il tema dell' esistenza della realtà esterna con quello, ricchissimo di implicazioni etiche, della cosiddetta Normalità?
Una delle tesi maggiori di Freud è che ciascuno viva la cosiddetta realtà attraverso gli occhiali speciali del suo fantasma inconscio che la colora "surrealisticamente", ovvero senza alcuna preoccupazione realistica. Ma quando Rovatti evoca la complessità stratificata del vissuto non ha in mente innanzitutto la psicoanalisi, ma una nozione di "esperienza" che eredita da Husserl attraverso la mediazione del suo maestro Enzo Paci.
La seconda argomentazione in difesa del pensiero debole avanzata da Rovatti riguarda invece l' importanza che sin dalla sua origine i debolisti hanno assegnato all' intreccio tra realtà e dispositivi di potere. «L' appello alla Verità e alla Realtà» - scrive Rovatti - «è un appello astratto» se non tiene conto dell'incidenza dei dispositivi del potere.
La sfida filosofica del pensiero debole è nei confronti del dogmatismo concettuale che accompagna ogni pensiero dell' assoluto. Per questo Enzo Paci identificava la lotta contro la barbarie nella lotta della ragione filosofica contro ogni pensiero che escludeva la singolarità critica. Anche nel nome della realtà - una certa psicoanalisi non ha fatto altro che celebrare il culto del "principio di realtà" e ha generato spesso mostri - si possono invocare gli spettri del conformismo e quelli del sacrificio e del terrore.
Il riferimento a Foucault è su questo punto cruciale perché riconduce la questione ontologica della verità a quella del potere pensando la storia stessa - come ci ricorda Rovatti - come un "gioco della verità" attraverso i dispositivi organizzati dal potere.
Anche tutto l' interesse che nell' ultimo decennio Rovatti ha manifestato verso l' opera di Franco Basaglia e la dimensione della follia si muove proprio in questa direzione: la follia non è un fatto nudo e crudo, non è mai un' evidenza oggettiva - non è una malattia del cervello, ma è il risultato di pratiche violente di esclusione, di una stigmatizzazione che è innanzitutto storica e sociale.
Questo libretto testimonia come il pensiero debole lungi dall' essere un capitolo minore della storia più recente dell' ermeneutica o del postmodernismo, sia innanzitutto una lezione di metodo: la lotta contro la barbarie è innanzitutto lotta contro la violenza intrinseca nelle fissazioni oggettivistiche della Verità (e della Normalità).
Nei dibattiti filosofici si discute a colpi di "tesi". L' ultimo caso è quello della critica del "nuovo realismo" nei confronti del "pensiero debole". La colpa del pensiero debole come sottoprodotto dell' ermeneutica sarebbe quella di cancellare il peso oggettivo della realtà esterna, di introdurre al posto di questo peso il carattere aleatorio delle interpretazioni che finisce per fare evaporare la nozione stessa di realtà. Sino ad individuare in questa perdita del riferimento stabile alla Realtà la giustificazione ontologica dei sofismi interpretativi di ogni genere.
In un brillante libretto titolato Inattualità del pensiero debole (Forum, Udine) Pier Aldo Rovatti, che condivide con Gianni Vattimo la paternità del pensiero debole oltre alla cura del volume che nel 1983 ne ha sancito la nascita, prende posizione decisa in difesa della sua creatura. Due le sue argomentazioni principali. La prima: nessuno ha mai sognato di contestare che se piove piove - era uno degli argomenti "forti" contro i debolisti -, ma nessuno può negare che a) non esiste un fatto in sé che non sia preso in una rete stratificata di significazioni (la pioggia può essere benvenuta o maledetta, può dare luogo a valutazioni meteorologiche o a poesie, ecc.) e, soprattutto, che b) il fatto in sé della pioggia apre inevitabilmente sul "vissuto" singolare di chi lo vive e questo vissuto, che pure è un fatto, non è mai semplice come un fatto!
Nondimeno il riferimento di Rovatti a questa dimensione non anima chissà quale irrazionalismo, ma agisce come contrappeso critico nei confronti di quei saperi forti che vorrebbero prescindere dalla dimensione affettiva e interpretativa del soggetto e che invocano la Verità, la Vita, la Realtà, la Storia e il Soggetto stesso come assoluti dogmatici.
Mi chiedo, en passant, quanto la psicoanalisi potrebbe apportare a questo dibattito sull' esistenza nuda e cruda della realtà opposta alla natura artefatta delle interpretazioni. Una scarpa è una scarpa, è un fatto, ma per qualcuno - per esempio per un feticista - non è mai solo una scarpa ma diviene un idolo, un talismano, la condizione stessa che rende possibile il desiderio erotico. E non si tratta affatto, come sarebbe stolto credere, di situazioni patologiche. Anzi, la psicoanalisi non ci obbliga forse a coniugare il tema dell' esistenza della realtà esterna con quello, ricchissimo di implicazioni etiche, della cosiddetta Normalità?
Una delle tesi maggiori di Freud è che ciascuno viva la cosiddetta realtà attraverso gli occhiali speciali del suo fantasma inconscio che la colora "surrealisticamente", ovvero senza alcuna preoccupazione realistica. Ma quando Rovatti evoca la complessità stratificata del vissuto non ha in mente innanzitutto la psicoanalisi, ma una nozione di "esperienza" che eredita da Husserl attraverso la mediazione del suo maestro Enzo Paci.
La seconda argomentazione in difesa del pensiero debole avanzata da Rovatti riguarda invece l' importanza che sin dalla sua origine i debolisti hanno assegnato all' intreccio tra realtà e dispositivi di potere. «L' appello alla Verità e alla Realtà» - scrive Rovatti - «è un appello astratto» se non tiene conto dell'incidenza dei dispositivi del potere.
La sfida filosofica del pensiero debole è nei confronti del dogmatismo concettuale che accompagna ogni pensiero dell' assoluto. Per questo Enzo Paci identificava la lotta contro la barbarie nella lotta della ragione filosofica contro ogni pensiero che escludeva la singolarità critica. Anche nel nome della realtà - una certa psicoanalisi non ha fatto altro che celebrare il culto del "principio di realtà" e ha generato spesso mostri - si possono invocare gli spettri del conformismo e quelli del sacrificio e del terrore.
Il riferimento a Foucault è su questo punto cruciale perché riconduce la questione ontologica della verità a quella del potere pensando la storia stessa - come ci ricorda Rovatti - come un "gioco della verità" attraverso i dispositivi organizzati dal potere.
Anche tutto l' interesse che nell' ultimo decennio Rovatti ha manifestato verso l' opera di Franco Basaglia e la dimensione della follia si muove proprio in questa direzione: la follia non è un fatto nudo e crudo, non è mai un' evidenza oggettiva - non è una malattia del cervello, ma è il risultato di pratiche violente di esclusione, di una stigmatizzazione che è innanzitutto storica e sociale.
Questo libretto testimonia come il pensiero debole lungi dall' essere un capitolo minore della storia più recente dell' ermeneutica o del postmodernismo, sia innanzitutto una lezione di metodo: la lotta contro la barbarie è innanzitutto lotta contro la violenza intrinseca nelle fissazioni oggettivistiche della Verità (e della Normalità).
Massimo Recalcati (la Repubblica - 05 gennaio 2012)
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