Sono trascorse due settimane dall’approvazione in prima lettura, a
Palazzo Madama, della riforma del Senato. Ma, prima di commentarla, il
professor Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale,
si è preso il suo tempo. Ciò che ne pensa è noto. A marzo ha firmato l’appello
di Libertà e Giustizia, di cui è presidente, contro la “svolta autoritaria”
segnata dal Patto del Nazareno per il combinato disposto della riforma
costituzionale e di quella elettorale (il cosiddetto Italicum), beccandosi del
“gufo”, del “professorone” e del “solone”. In aprile ha guidato la
manifestazione di L&G a Modena “Per un’Italia libera e onesta”. A maggio ha
inviato un lungo testo con una serie di proposte alternative – pubblicato dal
Fatto Quotidiano – alla ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, che l’aveva
invitato a un convegno di costituzionalisti a cui non aveva potuto partecipare:
la ministra s’era impegnata a diffonderlo, ma poi non se n’è più saputo nulla.
Ai primi di agosto, nel pieno delle votazioni al Senato, ha scritto un
editoriale su Repubblica intitolato “La Costituzione e il governo stile
executive”, in cui ha cercato di spiegare il senso di ciò che sta accadendo.
Ora accetta di riparlarne con Il Fatto. A partire dal memorandum 2013 di JP Morgan
che, come abbiamo scritto l’altro giorno, presenta straordinarie somiglianze
con l’agenda Renzi.
Professor Zagrebelsky, che cosa l’ha colpita di
più di quel documento profetico?
Prim’ancora del contenuto, del quale un po’ si è discusso, mi impressiona
il fatto stesso che quel documento sia stato scritto. E che la sua esistenza
non abbia suscitato reazioni. Non fa scandalo che un colosso della finanza
mondiale parli di politica, istituzioni e Costituzioni come se queste dovessero
rendere conto agli interessi dell’economia: rendere conto, non solo ‘tener
conto’.
È un’intimazione neppure tanto velata ai paesi
del Sud, anzi della “periferia” dell’Europa, di liberarsi delle loro
Costituzioni nate “dopo i fascismi” e dunque inquinate da una dose eccessiva di
“socialismo”.
Abbiamo già sentito questa storia, ripetuta anche da noi. I
fascismi tentarono per via autoritaria di affermare il primato della politica
sull’economia. ‘Tutto nello e per lo Stato’, dopo che lo Stato dell’Ottocento
aveva visto i governi al servizio dell’economia capitalista. Le Costituzioni
che si sono dati i popoli che hanno conosciuto il fascismo, le Costituzioni
democratiche del dopoguerra, hanno cercato un equilibrio tra autonomia
dell’economia e compiti della politica, aggiungendo l’elemento che i
totalitarismi avevano disprezzato e deriso: la libertà della cultura, senza la
quale economia e politica diventano oppressione e disgregazione. Questo è un
punto importante. Una società equilibrata non vive solo di politica ed economia,
ma anche di idee, ideali, progetti e speranze comuni. L’economia, da sola,
tende all’accumulazione della ricchezza e produce una frattura fra ricchi e
poveri. La politica, da sola, tende all’accumulazione del potere e crea una
divisione fra potenti e impotenti. Economia e politica alleate moltiplicano gli
effetti dell’una e dell’altra. La cultura libera invece può essere fattore
aggregante, solidarizzante. L’elemento essenziale per la vita sociale è che ci
sia equilibrio fra questi tre elementi. Le Costituzioni del dopoguerra, ma
anche le grandi dichiarazioni dei diritti umani (Onu nel 1948, Convenzione
europea nel 1950) hanno perseguito questo equilibrio. Il socialismo è un’altra
cosa.
Eppure la nostra Costituzione non è mai stata
così impopolare non solo presso JP Morgan e i poteri finanziari internazionali,
ma anche presso la nostra classe politica, che infatti ne sta stravolgendo un
buon terzo.
Non è un fenomeno solo italiano. Quello che accade in Italia è
solo un capitolo di una vicenda mondiale. La crisi economico-finanziaria che
viviamo ha portato allo scoperto la sudditanza della politica agli interessi
finanziari. Una sudditanza che ormai sembra diventata un destino, perché
prodotta da un ricatto al quale nessuno, pare, riesce a immaginare alternative:
il ricatto del ‘fallimento dello Stato’, un concetto fino a qualche decennio fa
addirittura impensabile e oggi considerato come un’ovvietà. Lo Stato si è
trasformato in un’azienda commerciale che, in caso di difficoltà, prima del
fallimento, può essere ‘commissariato’. I politici che rivendicano a gran voce
il proprio ‘primato’ e difendono la ‘sovranità nazionale’, in realtà vogliono
fare loro quello che farebbero i commissari ad acta, nominati dalla grande
finanza.
Non è poi una grande novità.
La ‘finanziarizzazione’ su scala mondiale dell’economia è una
novità. Che la sua dominanza sulla politica sia proclamata e pretesa con tanta
chiarezza, anche questo mi pare una novità: il fatto, cioè, che una simile
rivelazione avvenga senza scosse, reazioni, inquietudini. Sotto i nostri occhi
velati avvengono cambiamenti profondissimi: eppure i segnali non sono mancati.
Per esempio?
Ricordo quando il premier Mario Monti spiegò (e poi corresse la
formula) che ‘i governi devono educare i Parlamenti’. E i ‘governi tecnici’, e
anche quelli ‘politici’ con la loro densità di banchieri e uomini di finanza
nei posti-chiave, che cosa ci dicono? Quando si sente dire ‘tecnico’,
bisognerebbe domandare: ‘tecnico’ di che cosa? Di idraulica, di fisica
quantistica, di ingegneria elettronica? Non esiste la tecnica in sé, è sempre
applicata a qualcosa. Questi governi rappresentano il mondo finanziario, con il
compito di farlo funzionare indipendentemente da tutto il resto.
Se è per questo, alla vigilia delle elezioni del
febbraio 2013, il presidente della Bce Mario Draghi dichiarò che non era
preoccupato dall’eventuale vittoria di forze anti-finanziarie come i 5Stelle o
la sinistra radicale perché “l’Italia ha il pilota automatico”.
Un altro elemento di riflessione. Questi nostri anni sono segnati
da tanti puntini sparsi qua e là. Se li unissimo, vedremmo con una certa
inquietudine delinearsi la figura d’insieme.
Quali puntini?
Alcuni li abbiamo detti. Nell’insieme, direi la paralisi politica
che si cela dietro l’attivismo delle riforme: cioè l’arroccamento, il
congelamento di un sistema di potere. Le elezioni che non cambiano nulla, e
servono eventualmente solo a promuovere avvicendamenti di persone; e, quando
persone da avvicendare non se ne vedono, c’è la conferma delle precedenti, come
è accaduto con la rielezione del presidente della Repubblica; le ‘larghe
intese’, che sono la formula dell’immobilismo; le riforme istituzionali, come
quella del Senato, che hanno come finalità l’‘efficientizzazione’ (mi scuso, ma
la parola non è mia) del sistema, ma non certo la sua democratizzazione; la
limitazione delle occasioni elettorali; il nuovo sistema elettorale, se
confermerà la decisione annunciata a favore della ‘elezione dei nominati’ dai
vertici dei partiti; il silenzio totale sulla democrazia interna ai partiti. Si
vedrà poi che cosa accadrà circa le misure contro la corruzione e la riforma
della giustizia.
Unendo questi puntini che figura viene fuori? È
un bell’esercizio per i nostri lettori… Intanto lo faccia lei per aiutarci.
L’ho già detto: il disegno è la sostituzione della politica con la
tecnica dell’economia finanzia-rizzata. Un cambiamento epocale, che dovrebbe
sollecitare un dibattito sui principi fondamentali della democrazia e una presa
di posizione da parte di ciascuno, soprattutto di chi sarebbe preposto
istituzionalmente a farlo. Invece niente. E badi che non sto evocando congiure
o dietrologie. Sto semplicemente osservando vicende che accadono sotto i nostri
occhi, magari mascherate dietro argomenti anche seri ed esigenze anche giuste –
i costi della politica, la necessità di snellire, semplificare, sveltire – che
però ci fanno perdere il senso generale delle cose. Non vedo persone che
occupano posti di responsabilità che si pongano la domanda fondamentale: che
senso ha ciò che stiamo facendo? E diano una risposta a sua volta sensata.
Io trovo preoccupante anche il fatto che quel
documento di JP Morgan, oltre a esistere e a dire ciò che dice, sia diventato
paro paro l’agenda di Renzi e dei suoi compagni di avventura, da Napolitano a
Berlusconi.
Si tratta ben più di trasformazioni generali che piegano le
volontà dei singoli, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, che di
buone o cattive intenzioni. C’è una metamorfosi di sistema, nella quale si
collocano tante specifiche vicende, ciascuna dotata anche di ragioni sue
proprie.
Iniziamo dal nuovo Senato.
Quando Camera e Senato sono organi pressoché identici, come i
nostri padri costituenti non vollero che fossero ma come finirono poi per
diventare, è naturale domandarsi che senso abbia averli entrambi. Aggiungiamo
un po’ di populismo – i costi della politica – per venire incontro
all’antiparlamentarismo che è una caratteristica storica dell’opinione pubblica
in Italia, e il gioco è fatto. Gli abolizionisti del Senato – molti di loro
almeno – abolirebbero volentieri anche la Camera dei deputati. Tutto il potere
al governo: lì ci sono i ‘tecnici’ che sanno quello che fanno. Lasciamo fare a
loro. Vogliamo citare Michel Foucault?
Ma sì, citiamolo.
Foucault parlava di ‘governa-mentalità’. Che non è la
governabilità decisionista di craxiana memoria. È molto di più: è appunto una
mentalità governatoriale. Il centro della vita politica non deve stare nella
rappresentatività delle istituzioni, ma nell’agire degli esecutivi. Una visione
molto aderente a ciò che sta accadendo: l’accento posto sul governo spiega
l’insofferenza dei nostri politici, ma anche di molti cittadini nei confronti
della legge, della legalità. Foucault parlò anche di “governo pastorale”. Il
pastore provvede al bene del gregge caso per caso, di emergenza in emergenza:
quando c’è un pericolo, quando una pecora scappa, quando il branco si squaglia.
Il governo ‘governamentale’ è anche ‘provvedimentale’. Si fa le sue regole di
volta in volta, a seconda delle necessità: le necessità sue e degli interessi
per conto dei quali opera. Il principio di legalità anche costituzionale è
contestato e depresso, non tanto in linea di principio, ma soprattutto nei
fatti.
Non vorrei che lei facesse i vari Renzi,
Berlusconi & C. troppo colti: questi semplicemente non vogliono controlli
indipendenti, né tantomeno un Parlamento forte che gli faccia le pulci.
Può essere. Ma a me pare interessante domandarsi qual è il
significato di tutto ciò. Perché è dalla consapevolezza che nascono la azioni e
le reazioni dotate di senso. Poi, certo, c’è anche il fattore umano, la qualità
delle persone. Quando ero giovane e insegnavo all’Università di Sassari,
d’estate andavo a fare il bagno sulla spiaggia di Stintino, detta ‘La Pelosa’
per i suoi gigli selvatici. Ogni tanto ci trovavo Enrico Berlinguer con la sua
famiglia. Lo ricordo quasi rattrappito nei suoi costumini lunghi e neri di lana
grezza, sotto l’ombrellone, intento a leggere tabulati pieni di cifre: studiava
i problemi dell’economia, i cosiddetti dossier. E non aggiungo altro…
Oltre al Senato, stanno pure riformando il
Titolo V della Costituzione, quello che regola le autonomie locali.
Nella versione originaria del 1948, il Titolo V funzionava così
così. Poi, grazie a decenni d’interventi e di decisioni della Corte
costituzionale, si trovarono aggiustamenti. Ma nel 2000, per inseguire la Lega
Nord sul terreno del federalismo, si decise di riformarlo. E, quando il
centrodestra si defilò in extremis, il centrosinistra allora al governo decise
di procedere comunque a maggioranza, con questa motivazione: dimostriamo che la
Costituzione è riformabile con le procedure che essa stessa prevede, altrimenti
rafforziamo l’idea della destra di un’Assemblea costituente. Col senno di poi,
oggi che il Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale sta
cambiando a tappe forzate decine di articoli della Costituzione, viene da dire:
magari si facesse un’Assemblea costituente, eletta – come tutte le Costituenti
– col sistema proporzionale! Quello che 14 anni fa era una prospettiva
allarmante, oggi sarebbe una garanzia di democrazia. Per dire come cambia in
pochi anni la percezione delle cose…
Giusto dunque riformare un’altra volta il Titolo
V?
La riforma della riforma ha le sue buone ragioni. Innanzitutto, la
cattiva prova della riforma di 14 anni fa, che ha alimentato un contenzioso
abnorme di fronte alla Corte costituzionale. Oggi si vuole ‘ricentralizzare’,
dopo aver voluto, allora, decentralizzare. Schizofrenia impulsiva, francamente
poco costituzionale. Colpisce il silenzio generale che avvolge questo radicale
cambio di marcia: che fine han fatto tutti i tifosi del federalismo, che
nell’ultimo ventennio era diventato una parola magica, una panacea per tutti i
mali tanto a sinistra e al centro quanto a destra? Mi pare che neppure la Lega
stia protestando contro questo ri-accentramento. Ecco, questo è un altro di
quei punti che ci aiutano a tracciare il disegno generale che cancella altri
spazi di democrazia. Un buon federalismo, che non moltiplichi le poltrone e i
centri di spesa, ma che promuova energie dal basso, sarebbe un ottimo sistema
di mobilitazione di forze sociali per uscire dalla crisi con più
partecipazione, più democrazia. In fondo, la storia ci insegna che è così che
si supera il crollo dei grandi sistemi di potere. Quando venne giù l’impero di
Alessandro Magno, l’Ellenismo fu tutto un pullulare d’energie diffuse. Quando
si sbriciolò il Sacro Romano Impero, la civiltà la trasmisero i comuni e i
conventi, ancora una volta con una spinta dal basso. Ora invece si pensa di
verticalizzare e accentrare. Sarà buona cosa? E, se sì, per chi?
Poi c’è la legge elettorale, l’Italicum, che
riproduce le liste bloccate e il mega-premio di maggioranza del Porcellum
incostituzionale, e aggiunge altissime soglie di sbarramento per tener fuori
dalla Camera i partiti medio-piccoli. Così, in due mosse, un pugno di
capi-partito possono piazzare i loro servitori nel Senato non più elettivo e
nella Camera dei nominati.
Il capitolo della legge elettorale è davvero fondamentale. Lì si
gioca il grosso della partita. Di tutte le leggi, la legge elettorale è quella
che più appartiene ai cittadini e meno ai loro rappresentanti. Mi sorprende la
leggerezza, direi addirittura la spudoratezza, con cui i partiti trattano
questa materia, come se fosse cosa loro. Invece non lo è. Tutto dipende dai
loro calcoli d’interesse. Ma la legge elettorale non appartiene a loro, ma a
noi: perché ciò che ciascuno di noi è, come soggetto politico, dipende in gran
parte dalla legge elettorale. Il modo in cui se ne discute fa pensare che essi
considerino gli elettori materia inerte nelle loro mani.
Altro puntino: la riforma della Giustizia. Che
il memorandum JP Morgan equipara alla burocrazia, auspicandone la sudditanza
alle esigenze dell’economia.
Anche qui, i problemi sono molti e noti: lunghezza dei processi,
tre gradi di giudizio, sacrosante garanzie che si trasformano in pretesti per
impedire che si giunga mai alla fine, abuso della prescrizione in materia
penale, correntismo della magistratura nel Csm ecc. Vedremo se il governo li
risolverà con soluzioni più democratiche e aperte, nel senso di confermare le
garanzie d’indipendenza dei giudizi, di promuovere l’uguaglianza di tutti i
cittadini di fronte alla legge, di agevolare l’accesso alla giustizia da parte
dei più deboli (i tribunali dovrebbero servire soprattutto a questo). Il punto
è ancora questo: vedremo se non si risolverà in una riforma non per la
giustizia, ma contro la giustizia e a favore di privilegi oligarchici.
Anche in materia giudiziaria si va verso una
verticalizzazione del potere in poche mani: pensiamo alla lettera inviata dal
capo dello Stato (e del Csm) a Palazzo dei Marescialli per chiudere il caso
Bruti Liberati-Robledo e affermare il potere assoluto dei capi delle Procure sui
singoli pm.
Su questo punto c’è un dibattito. A me pare abbia detto cose
interessanti e sagge il nuovo procuratore di Torino, Armando Spataro, nel suo
discorso di insediamento, quando ha affermato con forza il ruolo del
procuratore della Repubblica come coordinatore di un ufficio plurale, nel
rispetto dell’autonomia funzionale dei singoli magistrati.
Vedo che, anche su questo punto, lei condivide
l’appello lanciato dal Fatto Quotidiano contro la svolta autoritaria. Perché
non l’ha firmato?
Non per questioni di merito, ma di metodo. Un po’ perché mi ha
stancato l’accusa di firmaiolo. Ma soprattutto perché credo più produttivo
cercare di seminare dubbi, ragionamenti e osservazioni critiche fra quei tanti
parlamentari di tutti gli schieramenti che hanno votato obtorto collo la
riforma del Senato. La logica degli appelli e dei manifesti crea una
contrapposizione che aiuta il radicalismo ottuso di chi poi dice: facciamo le
riforme costi quel che costi, anche per dimostrare che chi non ci sta non conta
niente. E così si elimina ogni spazio di discussione e di confronto.
Ma questa contrapposizione è nata ben prima del
nostro appello: lei s’è preso del gufo, del solone e del professorone fin da
marzo, quando firmò con Rodotà e altri giuristi il manifesto sulla svolta
autoritaria.
Lo so bene, ma in Parlamento non ci sono soltanto i ministri e i
loro fedelissimi. Quelli che non hanno avuto il coraggio di prendere le
distanze hanno subìto il clima di contrapposizione ‘o di qua o di là’ che si è
venuto a creare. Ma non ritengono affatto chiusa la partita e dicono: stiamo
facendo cose che siamo costretti a fare. Ma l’iter della riforma è appena
iniziato, la gran parte è ancora da percorrere e molto può ancora succedere. In
questa fase, credo più utili le critiche e le proposte alternative.
Quando lei ha inviato le sue alla Boschi, questa
anziché renderle note e discuterle nel merito le ha imboscate in un cassetto.
Può darsi che non meritassero attenzione. In ogni caso, ormai ero
già stato iscritto d’ufficio al partito dei gufi che vogliono l’immobilismo e
che dovevano essere sbaragliati per evitare la sconfitta del governo.
Lei sembra dimenticare che, su Senato e Italicum
, Renzi e Berlusconi hanno siglato un patto d’acciaio e segreto al Nazareno il
18 gennaio, e di lì non si spostano.
Sì, ma è un accordo di vertice. Nel ventre dei partiti ci sono
tanti mal di pancia.
In ogni caso il nostro appello serve anche a
mobilitare i cittadini in vista del referendum confermativo.
Questa è una storia che si aprirà successivamente, se sarà
necessario. Quel che è certo è che, con questi numeri in Parlamento, la riforma
non otterrà i due terzi. Dunque il referendum confermativo sarà possibile come
diritto dei cittadini previsto dalla Costituzione, non come ‘chiamata a
raccolta’ plebiscitaria promossa dalle forze governative. Che sarebbe un abuso,
come già avvenne al tempo della riforma del Titolo V su iniziativa, quella
volta, del centrosinistra. Il governo e la maggioranza che promuovono il
referendum sulle proprie riforme è il mondo alla rovescia.
Visto quel che è accaduto al Senato, mi sa che
lei si illude.
Sa, io sono un vecchio gufo che appartiene all’altro secolo, anzi
all’altro millennio, al tempo delle Costituzioni democratiche del Meridione,
anzi della ‘periferia’ d’Europa… E rimango legato a principi fondamentali che
rappresentano conquiste del costituzionalismo. Per questo mi auguro che chi
svolge la funzione di garante supremo della Costituzione sia fermo nel
difenderli.
Spera in un intervento del presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano?
Anche in vista di un rasserenamento e di un temperamento delle
tensioni, dopo gli allarmi che abbiamo e avete lanciato e dopo gli scontri
durissimi avvenuti in Senato, chiedo se non sarebbe auspicabile una presa di
posizione formale che dica più o meno così: ‘La Costituzione non è un testo
sacro: può essere sottoposta a modifiche, tant’è che essa stessa ne prevede le
forme attraverso l’articolo 138. Ma, in quanto garante di questa Costituzione –
quella del 1948 – ricordo che esistono dei limiti a ciò che si può fare e che
determinano ciò che non si può fare: princìpi fondamentali che non possono
essere cancellati o calpestati’.
Quali?
La rappresentanza democratica, la centralità del Parlamento,
l’autonomia della funzione politica, la legalità intesa come legge uguale per
tutti, l’indipendenza della magistratura e così via: i fondamenti del
costituzionalismo. Non ultimo, il rispetto della cultura.
Renzi & C. hanno già annunciato che
tireranno diritto, “piaccia o non piaccia”.
Sì. E in effetti l’espressione ‘piaccia o non piaccia’ fa
sorridere, se non piangere. La democrazia, a differenza dell’autocrazia,
richiede a chi è chiamato a prendere decisioni di ‘andar persuadendo’. Bella
espressione: così dice Pericle in un memorabile dialogo con Alcibiade,
raccontato da Senofonte. Prima si discute, e solo alla fine della discussione
la decisione viene presa in base ai voti. ‘Il piaccia o non piaccia’ posto
all’inizio – ripeto – non è democrazia, ma autocrazia.
Sta di fatto che nessuno sembra scandalizzarsi
neppure per la promozione di un pregiudicato, interdetto dai pubblici uffici e
affidato ai servizi sociali, a padre costituente.
Questo, come il conflitto d’interessi, è uno di quei problemi
enormi che nessuno osa più sollevare. Purtroppo sono argomenti che si logorano
ripetendoli.
Resta l’anomalia di una riforma costituzionale
fatta in fretta e furia alla vigilia di Ferragosto, con forzature regolamentari
e tempi contingentati dallo stesso presidente del Senato.
Guardi, questa storia è tutta un’anomalia. Il fatto che
l’iniziativa di riformare la Costituzione non parta dal Parlamento, ma dal
governo. Il fatto che il governo ponga una sorta di questione di fiducia, anzi,
per dir così, di mega-fiducia perché accompagnata dalla minaccia non delle
dimissioni per dar luogo a un altro governo, ma addirittura dello scioglimento
delle Camere per fare piazza pulita e tornare a votare. Il fatto che una
componente del Senato abbia scelto (dovuto scegliere, secondo il proprio punto
di vista) la via estrema dell’ostruzionismo e a questo si siano opposte
‘tagliole’ e ‘canguri’. Tutta un’anomalia che è l’esatto contrario di un clima
costituente. C’è il fatto, poi, che il ddl contenga una norma che impone alle
Camere di votare (spero non anche di approvare!) i disegni di legge del governo
entro e non oltre 60 giorni. Ecco, questi sono altri punti da congiungere,
tutti elementi della ‘governa-mentalità’ di cui dicevamo.
Senza contare il presidente della Repubblica,
che sollecita continuamente riforme-lampo perché pare che voglia dimettersi al
più presto.
Ma sa, nella Costituzione c’è un solo organo a durata variabile:
il governo. Tutti gli altri hanno una durata fissa, e quella del capo dello
Stato è di sette anni. Ecco un altro punto. Il presidente Napolitano, al
momento della rielezione, ha aderito alla supplica di chi si trovava
nell’impasse e ogni altro nome plausibile, da Romano Prodi a Stefano Rodotà,
era stato ‘bruciato’ (non sappiamo ancora da chi e perché). Tuttavia, egli
stesso dichiarò allora che la sua permanenza al Quirinale sarebbe stata ‘a
tempo’. La prima volta nella storia repubblicana. Questo fatto, avvicinandosi
il momento delle più volte annunciate dimissioni, sta creando il pericolo di un
ingorgo istituzionale, di una contrazione anomala dei tempi e di una generale
instabilità.
In un quadro, però, di immutabilità del sistema
di potere.
Beh, questo è il modo tutto italiano di uscire dalle crisi di
sistema. Lo stesso che è alla base dell’attuale governo: il massimo dell’innovazione
di facciata per non cambiare nulla nella sostanza, o ossificare quello che già
c’era.
Marco Travaglio (Jack’s Blog – Il Fatto Quotidiano – 22 agosto2014)
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