Forse non sbagliamo se, nel leggere l’ultimo Eugenio Scalfari,
siamo portati a pensare che ogni tanto si sentirà un po’ solo. Non
parliamo, per carità, dei suoi fans che sono ancora legioni, pronti a
centellinare le omelie domenicali con religioso fervore. E neppure
alludiamo ai colleghi giornalisti che non cessano di
tributare al Fondatore il rispetto e la considerazione che merita. Del
resto, se non ci fosse stato Scalfari, non ci sarebbe stata Repubblica. Ogni tanto però sorge il dubbio che, se oggi ci fosse ancora la Repubblica di Scalfari, su un punto soprattutto somiglierebbe poco alla Repubblica di Ezio Mauro: il giudizio sul governo di Matteo Renzi. Scalfari ha sicuramente una qualità (sui difetti noi del Fatto abbiamo già dato): dall’alto della barba bianca e della storia personale, può permettersi di non essere ipocrita. Se disistima qualcuno (o se non lo ritiene degno della sua attenzione), prima o poi glielo farà capire.
Rivelatore di questo stile è una piccola confidenza che mi fece Eugenio (quando ci chiamavamo per nome) a proposito dei tanti libri,
spesso inutili, di autori altrettanto superflui, spesso giornalisti,
che intasavano e ritengo ancora intasino gli scaffali del Fondatore,
accompagnati da dediche anelanti benevolenza. Quando a Scalfari capitava
di incrociare lo sguardo supplichevole di uno di questi presunti Hemingway,
alla fatale domanda “direttore hai ricevuto il mio libro?”, al tapino
era riservata la seguente formula standard: “Certamente, caro, e mi
compiaccio con te”. Mi spiegò, se ben ricordo, che questo modo di
congratularsi aveva il pregio di evitare un qualunque pronunciamento sul
contenuto del tomo (che evidentemente neppure era stato sfogliato). Ma
tutto col dovuto garbo e lasciando il resto alla libera interpretazione
del romanziere o del saggista di turno, che infatti ringraziava
riconoscente immaginando il meglio. Qualche tempo dopo mi capitò incautamente
di far pervenire a Scalfari non ricordo più quale mio capolavoro
editoriale e infatti di lì a poco la sua voce inconfondibile al telefono
sentenziò: “Caro, mi è arrivato il tuo libro e mi compiaccio con te”.
Il motivo di questa digressione è presto detto. È immaginabile che, all’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi,
E. S. abbia nutrito più di una riserva sulla cultura governativa dello
scout di Rignano, pur riconoscendogli, come tanti, quella vitalità
caotica ma salutare degli uomini nuovi che irrompono in una situazione
stagnante. La predilezione di Scalfari per Enrico Letta
non era un mistero, come non lo fu il suo disappunto per l’improvvisa
giubilazione del “nipote” preceduta da un mancato invito al Quirinale
dove al posto dell’allora premier, considerato non certo un fulmine di
guerra, ratto si presentò l’altro. Ecco, a noi piace pensare che per
dare una mano al suo grande amico Giorgio Napolitano evitando
sgradevoli finzioni, almeno all’inizio Scalfari abbia adottato nei
confronti del nuovo arrivato l’infallibile metodo del “mi compiaccio”. Ovvero: garbo istituzionale con cauta sospensione di giudizio. Quando però Renzi ha cominciato sul serio a fare Renzi, Scalfari non si è trattenuto.
Prima ha rispolverato la favola del Pifferaio di Hamelin che ammaliava
le turbe conducendole dove più gli conveniva. Poi ha smontato alcuni dei
capisaldi del renzismo, a cominciare dagli 80 euro e dal Senato.
Quindi,
domenica scorsa, ha impartito una lezione al giovane presidente del
Consiglio sulle differenze tra deflazione e depressione. Il tutto
condito da un attacco finale alle riforme renziane, ipotizzando che esse
mirino esclusivamente al rafforzamento del rottamatore attraverso forme
rischiose di “democrazia individuale e sovranità popolare fittizia”.
Definizione che ha lo stesso suono di quella “democrazia autoritaria” denunciata da questo giornale in una petizione che in un mese ha già raccolto più di 233 mila adesioni.
Non
pretendiamo certo che Scalfari unisca la sua firma a quella di quei
molti giuristi e personaggi della cultura che certamente stima o che gli
sono amici. Non siamo ipocriti neppure noi. Si parla tuttavia di una
crescente insofferenza del Fondatore per la sudditanza nei confronti di Renzi dimostrata dalla cosiddetta grande informazione,
con frequenti cadute di stile e di gusto. Si dice anche che all’inizio
di agosto, conversando amabilmente nella sede di Largo Fochetti sulla
decadenza degli imperi nella storia, egli abbia ricordato come pur di
assecondare le voglie dell’imperatore Tiberio, i cortigiani ricorressero
a bassezze di ogni genere e tipo, descritte queste con dovizia di
particolari. Chissà a quale giornale si riferiva. Ma, se avesse voluto
dire che la libera stampa, se ancora libera, piuttosto
che assecondare i governanti dovrebbe incalzarli con qualche salutare
sferzata, ebbene su questo non potremmo che dichiararci d’accordo.
Antonio Padellaro (Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2014)
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