«La vecchiaia non è così male se considerate le alternative», diceva Maurice Chevalier. Mai aforisma, almeno in Italia, fu più azzeccato. Se le diseguaglianze generazionali invece di diminuire aumentano, è anche perché politici di destra e di sinistra non osano mettersi contro i battaglioni delle locuste.
L'attuale parlamento uscito dalle urne nel 2013 è il
più giovane della storia d'Italia (ad abbassare la media – intorno ai 37
anni – ci sono soprattutto deputati e senatori grillini all'opposizione, i
parlamentari della Lega viaggiano sui 45 anni, quelli del Pd sono sui 49, più
maturi i forzisti con 54). Ci si aspettavano, quindi, riforme importanti per
ridurre il gap di opportunità tra vecchi e giovani. Ma i costi politici e i
prezzi elettorali per redistribuire reddito e ricchezza sarebbero troppo alti.
Il calo dei consensi matematico.
Così, a tutti i livelli, i vecchi continuano a
comandare indisturbati. A dettare leggi, e ad arricchirsi. Spulciando la lista dei 100 manager più pagati d'Italia nel 2014
, per esempio, non si trova un nome che abbia meno di 50 anni nemmeno con il
lanternino. Esclusi due figli d'arte (John Elkann della Fca e Fabio De Longhi)
e il 42enne Claudio Berretti riuscito – caso più unico che raro – a diventare
un pezzo grosso del fondo di investimento Tamburi, sono tutti assai in là con
l'età. Peggio ancora il destino delle giovani donne che sognano un posto
da amministratore delegato: nella lista dei cento amministratori e consiglieri
d'azienda più ricchi d'Italia ci sono solo tre esponenti del gentil sesso, e
solo una ha poco meno di 50 anni, Luisa Deplazes de Andrade della Safilo.
Nessun paese sulla terra si fida così poco dei suoi
giovani. Senza scomodare i miliardari under trenta della Silicon Valley
e i manager di Wall Street che a quarant'anni sono ai vertici da un pezzo, una
ricerca interna di ManagerItalia ha calcolato che il nostro paese, con un'età
media dei dirigenti pari a 47 anni e mezzo, «occupa l'ultima posizione nella
graduatoria europea. Ciò non deve sorprendere», interviene il presidente
Claudio Pasini, «se si considera che da noi i giovani manager, ossia quelli
fino a 39 anni d'età, rappresentano solo un quinto del totale». In media, nei
paesi Ue, gli under 40 che comandano in azienda sono invece il doppio,
arrivando al 40 per cento del totale. Dati, sotto le Alpi, da fantascienza.
Anche la Coldiretti ha analizzato la platea dei dirigenti
della pubblica amministrazione e delle imprese, arrivando a conclusioni
identiche: la loro età media è la più alta del continente, vicini addirittura
ai 60 anni. La Coldiretti si augurava una rapida rottamazione necessaria al
rilancio del Paese, ma evitava di ricordare che la stessa associazione degli
agricoltori è guidata da lustri da un sessantenne, Vincenzo Gesmundo, che ha
ottenuto dalla stessa Coldiretti, nel 2014, una retribuzione da favola da 1,8
milioni di euro.
La generazione delle locuste domina non solo il mondo
agricolo. Ma gestisce soldi e potere in ogni settore: l'età media di presidenti
e ad delle banche sfiora oggi la soglia dei 70 anni, quasi la metà dei
presidenti di Tribunale delle città capoluogo sono ancora più vecchi. «I
consiglieri di amministrazione delle banche italiane hanno in media 5 anni in
più che nel resto delle banche europee, e guadagnano il doppio dei loro
colleghi tedeschi», continuava lo studio Coldiretti.
«In Italia il settore privato, se possibile, fa con i
giovani ancora peggio del pubblico», accusa Chiara Saraceno. «Gli
imprenditori alla meritocrazia e allo svecchiamento preferiscono da sempre il
familismo più estremo o la chiusura dentro élite gerontocratiche. Basti pensare
ai dati Istat, che dimostrano come trovare lavoro è più facile per un
sessantenne che per un trentenne».
Gli studi degli avvocati sono esempio perfetto
dello spread tra i redditi di giovani professionisti e soci più anziani: a parte
rari casi, i praticanti possono restare tali per 4-5anni, e guadagnare cifre
ridicole rispetto agli incassi degli anziani. Anche i giornali non fanno
eccezione: le redazioni sono piene di over cinquanta ben pagati e
stragarantiti, mentre i giovani under 40 sono ormai delle mosche bianche. I
cronisti precari, invece, vengono pagati anche 10-20 euro a pezzo, e sanno già
che la loro pensione sarà scandalosa.
Ci si aspettava, con l'arrivo del giovane sindaco
fiorentino a Palazzo Chigi, un'inversione di rotta radicale. Ma finora
l'andazzo non è cambiato. Renzi, quando l'anno scorso ha nominato i nuovi
vertici delle grandi società partecipate, ha messo da parte il mantra della
rottamazione e premiato vecchietti e soliti noti. Come amministratore delegato
dell'Eni ha voluto Claudio De Scalzi, 60enne ex fedelissimo di Paolo Scaroni,
mentre presidente è stata nominata Emma Marcegaglia, 50enne e capo della
Confindustria fino a qualche anno fa. All'Enel il governo dei giovani ha
piazzato Francesco Starace, anche lui sessantenne e una vita passata in
azienda, e Maria Grieco, 63 anni. A Finmeccanica i top manager sono Gianni De
Gennaro, 66 anni, e Mauro Moretti, 61enne ex Trenitalia, mentre alla Rai i
vertici sono oggi formati da Anna Maria Tarantola, 70 anni, e Luigi Gubitosi,
il più giovane del mazzo scelto, però, da Mario Monti. Unico under 50 è Matteo
Del Fante, quarantottenne fiorentino, nuovo ad di Terna.
«Al di là di qualche nome assai discutibile, sulla
questione dell'età e del rinnovamento in molti si aspettavano più coraggio»,
ammette la Saraceno.
Se nella pubblica amministrazione non c'è spazio per i
giovani e nelle imprese ancor meno (la Confindustria resta, da Giorgio
Squinzi in giù, assai anziana e conservatrice), le università sono un altro
paradigma indiscusso del potere delle locuste. A gennaio un'inchiesta di Gian Antonio Stella ha
dimostrato che nel 2014, nonostante riforme a gogo e promesse di svecchiamento
a ruota libera, su 13.239 professori ordinari italiani nemmeno uno ha meno di
35 anni. E solo 15 docenti (spesso figli di baroni e di potenti) è sotto i 40.
I prof sotto la trentina, ricercatori compresi, dal 2008 a oggi si sono quasi
estinti, crollando del 97 per cento. «Avanti così, con il turn over che ci
lascia prendere un giovane ogni due docenti che vanno in pensione, rischiamo
nel 2020 di non avere più giovani che possano concorrere ai programmi europei»,
denuncia Stefano Paleari presidente della Crui, la conferenza nazionale dei
rettori.
Se i baroni continuano ad essere garantiti
oltre ogni logica, e a decidere posti e finanziamenti e controllare i concorsi,
i nostri giovani cervelli fanno fatica a sopravvivere. Letteralmente. Per
Almalaurea i loro stipendi sono i più bassi dell'Occidente, e – anche se
riuscissero ad ottenere una cattedra tra qualche lustro – il loro salario
massimo potrebbe in media arrivare a 40 mila euro lordi l'anno, la metà esatta
di quanto prende oggi un professore a fine carriera.
Anche nel primo anno del regno di Renzi, nulla è stato
fatto per modificare il trend, e chi può fugge all'estero alla prima occasione
di lavoro. D'altronde lo stesso Renzi, in visita alla Silicon Valley, qualche
mese fa ha spiazzato tutti: «Non vi chiedo di tornare a casa ma di andare
avanti e cambiare il mondo. Non mi interessa riprendere cervelli in fuga . Ma vorrei rendere l'Italia
talmente bella e semplice da avere voi la necessità di tornare a casa». Come
dire, scordatevi rivoluzioni del mondo universitario in tempi brevi.
La strada resta in salita. Papa Francesco, ricevendo i
ragazzi delle Acli, ha chiesto alle istituzioni e alla società di non tarpare
le ali ai giovani. «L'estendersi della precarietà e del lavoro nero fa
sperimentare tra le giovani generazioni come la mancanza di lavoro tolga
dignità, impedisca la pienezza della vita umana. Serve una risposta sollecita e
vigorosa». Ad oggi, non ve ne è traccia. Né di risposte, né di vigore:
nonostante il calo microscopico fotografato dall'Istat (i giornali hanno
gridato al miracolo, ma i disoccupati giovani in meno sono solo 8 mila) il
tasso di disoccupazione giovanile dal 2007 a oggi è raddoppiato, e resta
inchiodato al 40,9 per cento, con punte mai viste prima (tra il 60 e l'80 per
cento) in Sicilia e Campania. Non è un caso che il Vaticano abbia organizzato
elemosine per i giovani italiani: in occasione del Giubileo preti e cardinali
devolveranno una parte del loro stipendio a un fondo (ancora da costituire) per
sostenere l'occupazione giovanile. Amen.
BAMBOCCIONI PER FORZA - Secondo il demografo Massimo Livi
Bacci, ancora prima dell'ultima grande recessione del 2008, «il 50 per cento
dei giovani tra i 15 e 30 anni dipendeva dal reddito familiare». Dopo sette
anni, la situazione è peggiorata. Se i bamboccioni costretti a vivere con i genitori,
sottolinea l'Eurostat, sono aumentati di cinque punti (due under 35 su tre non
si muovono dalla loro cameretta, nessuno peggio di noi in Europa dove
nonostante la crisi le opportunità per i ragazzi di diventare autonomi sono
cresciute) il rapporto “Noi Italia” dell'Istat segnala che i Neet,
acronimo inglese che segnala i ragazzi under 30 che non lavorano e non
studiano, sono da Bolzano a Caltanissetta circa due milioni e mezzo. «È una
generazione bruciata, e i padri hanno enormi responsabilità» conclude la
Saraceno.
Già: non accorgendosi delle sperequazioni tra il loro
benessere e la povertà che stavano costruendo per le successive generazioni,
occupando tutti i posti disponibili e gestendo quasi tutta la ricchezza
nazionale, hanno preferito abbandonare i figli al loro (triste) destino. Il
loro refrain è sempre lo stesso: «Non toccateci redditi e pensioni, sennò non
possiamo aiutare i nostri poveri ragazzi». Di fatto, opponendosi a qualsiasi
riforma sistemica che possa mettere a rischio il loro predominio, preferiscono
che siano loro a gestire le risorse, piuttosto che sia lo Stato a
redistribuirle.
La vittoria della gerontocrazia è assoluta. Le
locuste non hanno ceduto un centimetro nemmeno quando si è ipotizzata una
staffetta generazionale in fabbrica e in ufficio: ci ha provato Mario Monti,
l'ha annunciata in pompa magna Enrico Letta, l'ha riproposta ora Marianna
Madia. Il primo programma, regolato dal decreto 807 del 2012 del ministero del
welfare, prevedeva il passaggio volontario nella stessa azienda da lavoratori
maturi ai giovani. Il fallimento dell'esperimento è stato totale: in due anni
si sono contati solo cinque casi di staffetta, in Lombardia e Veneto: nessun
anziano ha accettato di rinunciare a parte del reddito per avere più tempo
libero e favorire, contemporaneamente, l'ingresso di un ragazzo.
La proposta di Letta, molto simile, è stata
accantonata subito. Anche il governo Renzi ha promesso un ricambio, in modo da
inserire nel mondo della pubblica amministrazione 85 mila giovani. Annuncio esorbitante,
tanto che il numero dei possibili fortunati è sceso rapidamente a 15 mila, dopo
i calcoli della Ragioneria dello Stato sui costi troppo alti della misura. Alla
fine, lo scorso aprile, il Senato ha approvato una versione ancora più “soft”:
i lavoratori prossimi alla pensione, se vogliono, potranno decidere di optare
per un part-time, continuando però a pagare contributi full-time. Numeri sul
piano Madia non esistono ancora, ma sembra difficile che abbiano aderito in
molti. Le locuste non sono, si sa, una specie particolarmente generosa.
Anche il Jobs Act sembra aver peggiorato il gap
tra vecchi e giovani. Al di là degli effetti sull'occupazione generale, tutti
ancora da verificare, la nuova legge ha di certo precarizzato definitivamente
le generazioni degli under. Abbandonati i co.co.co e gli altri contratti
superflessibili introdotti dalla legge Biagi (che, sarà bene ricordarlo, è
stata inutile dal punto di vista occupazionale e catastrofica sul piano dei
diritti), si punta su un contratto a tutele crescenti che, però, non darà mai
una sicurezza definitiva. Se i ragazzi saranno sempre licenziabili dal loro
datore di lavoro, l'abolizione dell'articolo 18 non riguarda padri e
nonni. Alla fine della fiera, i garantiti di un tempo sono ancora più garantiti
di prima, i giovani saranno precari a vita e prime vittime sacrificali di
qualsiasi crisi aziendale.
Le locuste l'hanno sfangata anche stavolta, e nessuno
se ne è dannato più di tanto. Se Confindustria ha applaudito il
provvedimento, le forze sociali, a parte mugugni e inutili scioperi, hanno
lasciato fare. Quando Silvio Berlusconi propose una legge molto simile a quella
varata da Renzi, la Cgil di Sergio Cofferati portò in piazza tre milioni di
persone, impedendo il blitz. Stavolta le proteste dei sindacati (e
dell'opinione pubblica in generale) sono state assai più blande. Per due
motivi: le nuove regole non toccano la pubblica amministrazione e, soprattutto,
non interessano la stragrande maggioranza dei loro iscritti. Cioè pensionati e
lavoratori dipendenti, che continueranno a essere tutelati come e più di prima.
Se qualche maligno ha polemizzato con i giudici della Corte
Costituzionale che hanno difeso (a maggioranza, 5 contro 4) l'aumento delle
pensioni che la Fornero aveva bloccato, accusandoli di proteggere i loro
interessi privati di futuri pensionati, è un fatto che il sindacato italiano
rappresenti solo le generazioni ipergarantite. Uno studio di Tito Boeri,
Agar Brugiavini e Lars Calmfors spiegò per esempio che tra gli iscritti di
Cgil, Cisl e Uil quasi il 50 per cento non è più un lavoratore. Una percentuale
folle: in Francia e Germania scende al 20 per cento.
«La chiusura manifestata dal sindacato di fronte a
misure di modifica del regime pensionistico sembra fortemente motivata dalla difesa
delle organizzazioni sindacali dei diritti dei loro iscritti anziani», ragiona
su Lavoce.info il professore di economia alla Bocconi Vincenzo Galasso. Non
solo: confrontando il numero delle attuali iscrizioni della Cgil (oltre
5,6 milioni) con uno studio Argo-Omnibus voluto dallo stesso sindacato, si
scopre che gli under 34 sono appena il 10,4 per cento del totale degli
iscritti. Sembra difficile che un sindacato fatto di vecchi e gestito da
anziani possa combattere per redistribuire ricchezza anche alle generazioni più
giovani. Che ormai hanno capito che la partita è persa: quando possono, seguono
il consiglio del grande Eduardo. E fuggono via, lontano.
Emiliano Fittipaldi (L'Espresso - 12 giugno 2015)
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