Portella della Ginestra: che cosa sapremo dai documenti desecretati dal
governo? C’è speranza e scetticismo insieme. Sono trascorsi quasi sessanta
anni, ma è come se fosse ieri, quella strage di uomini e donne innocenti non
l’ha dimenticata nessuno, né coloro che c’erano, né i figli ed i figli dei
figli. Troppo crudele, troppo ingiusta, troppo ignobile. Se qualcuno avesse
voluto dimenticarla non ci sarebbe riuscito: ogni anniversario è stato vissuto
come la giornata successiva all’eccidio. Onore al merito di chi ha provveduto a
tenere in piedi la memoria.
Di Portella della Ginestra sappiamo tutto e niente. Decine di libri,
inchieste, investigazioni, rivelazioni, bugie. Le verità ed i sospetti
s’intrecciano: una parola definitiva, una verità giudiziaria, storicamente
accettabile, non c’è ancora. C’è una sola spiegazione per questa omertà. Ancora
oggi il mistero viene protetto, perché potrebbe far male. Molto male.
Proviamo a ricostruire gli eventi, cercare di seguirli e trovare un filo
logico, che ci permetta di guardare in faccia la realtà. Cominciamo
dall’inizio, l’ultimo conflitto mondiale. È a quel tempo che i legami
d’Oltreoceano si consolidano e fanno la storia – attraverso due personaggi,
Frank Costello e Angelo Tresca, entrambi italoamericani. Perché loro due?
L’italoamericano Frank Costello accettò di malavoglia il comando di Cosa nostra
americana. Era il 1942, Lucky Luciano era finito in galera e Vito Genovese era scappato
in Italia: Costello avrebbe preferito curare i suoi affari piuttosto che
l’organizzazione. Aveva cervello, e lo usò: propose al Pentagono la
disponibilità della mafia a collaborare con le forze alleate per lo sbarco in
Sicilia. In cambio ottenne la scarcerazione di Lucky Luciano.
Luciano e altri 64 mafiosi, espulsi dall’America dopo la guerra come
ricompensa dei servigi resi in Sicilia e nel Napoletano, tornarono liberi e
rispettati.
L’11 gennaio 1943, il giornalista italoamericano Angelo Tresca, venne
ucciso da un killer. Un colpo di pistola in bocca. Tresca era un radicale
anarchico. Tre anni prima, nel ’40, aveva raccontato ad un suo collega del
Times l’incontro avuto con Benito Mussolini a Basilea, in Svizzera, quando il
Duce era esule. Un ricordo lontano: forse il 1904. Tresca, cacciato via
dall’Italia per le sue attività sindacali, prima di raggiungere gli Stati
Uniti, aveva soggiornato nella Confederazione. “Mussolini ha tradito la causa”,
riferì Tresca al collega del Times. Bastò perché fosse giustiziato. I sospetti
caddero su Vito Genovese, che però negò tutto…
Erano i giorni in cui, Genovese decideva di andarsene in Italia. Un abile
intrigo. Genovese divenne amico dei fascisti e dopo lo sbarco degli alleati,
divenne anche uno dei collaboratori del governatore militare, Charles Poletti
e, qualche anno dopo, amico di Salvatore Giuliano, capo dei banditi di
Montelepre, separatista, anticomunista e filo americano.
L’attività di Costello fu altrettanto fruttuosa. I mafiosi italoamericani
entrarono nel controspionaggio, e vennero addestrati nella base alleata di
Algeri. Nei mesi che precedettero l’armistizio dell’8 settembre, alcuni
ufficiali italiani – un gruppo ristretto – si recarono ad Algeri. Erano
siciliani, a cominciare dal più alto in grado, il generale Castellano. Ad essi
sarebbe toccata di partecipare alle trattative per l’armistizio, e mettere così
le basi per una intesa che andasse al di là della preparazione dello sbarco.
Gli americani, del resto, avevano deciso di aprire un fronte in Sicilia per
accontentare Stalin. Dal punto di vista strategico, l’operazione militare
avrebbe favorito i sovietici. Pare logico, supporre che volessero trarre
benefici duraturi dall’operazione, stabilendo lungo il confine occidentale una
testa di ponte affidabile e duratura. Ciò che avvenne prima e durante lo sbarco
lo prova: il governatorato militare americano, a differenza di quello inglese,
non si limita ad assumere decisioni provvisorie, tipiche dell’esercito di
occupazione, ma contribuisce a creare una classe dirigente.
Molti siciliani, grazie alle relazioni americane, avrebbero svolto un
ruolo centrale nel governo dell’economia, della finanza e delle istituzioni
dell’Isola. Il dopoguerra fece la fortuna di molti siciliani, come Vito
Guarrasi e Michele Sindona. A Guarrasi fu affidato il patrimonio della grande
famiglia anglo-siciliana dei Whitaker, e questi – a sua volta – lo consegnò in
gestione a Michele Sindona, che sarebbe divenuto il perno dei collegamenti fra
mafia, finanza e massoneria.
I servizi segreti statunitensi, è il 24 ottobre 1944, riferiscono che le
logge massoniche aderenti al separatismo, hanno deciso di organizzarsi “per
eliminare dal mondo politico italiano tutti i filocomunisti; per finanziare
squadre di killer reclutati fra ex fascisti e gangster di professione,
utilizzandole per attentati ad alte personalità di governo e per stragi ai
danni della popolazione civile sotto false insegne che indichino come
responsabili i comunisti”.
In due documenti del consolato americano a Palermo (21 e 27 novembre) si
accenna a “una riunione dei capi della mafia con il generale Castellano per la
formazione di gruppi incaricati di favorire l’autonomia… sotto la direzione
della mafia”.
Mafia e separatisti si servono del banditismo. Salvatore Giuliano,
imprendibile bandito di Montelepre, faceva politica; decine di sindacalisti e
dirigenti della sinistra vengono uccisi: fino al 1950 Giuliano terrorizza i
nemici della classe dirigente nata nel dopoguerra.
Il movimento contadino fu decapitato, la mafia consolidò il suo potere e
le sinistre subirono una sconfitta elettorale. Solo allora, la strategia della
tensione ebbe una pausa e la mafia consentì l’eliminazione del banditismo,
legittimando il suo ruolo normalizzatore.
La strage di Portella della Ginestra “affidata alla banda Giuliano” e
l’uccisione e del bandito, Salvatore Giuliano, e del suo luogotenente Gaspare
Pisciotta sono tre episodi legati indissolubilmente fra loro. Svelarne uno
significa avere la verità sul resto.
Pisciotta era stato protagonista di un
episodio nel corso del processo per la strage di Portella, che si era svolto
nel 1954 a Viterbo. Dietro le sbarre, aveva accusato i mandanti della strage,
gridando come un ossesso. “Siamo un corpo solo: banditi, polizia e mafia; come
il padre, il figlio e lo spirito santo”.
Portella fu la prima strage di Stato. Mettendo insieme i delitti politici
della mafia e quelli eseguiti dai banditi, non si può che trarne una
conclusione: la Sicilia aveva sperimentato il primo golpe mafioso. Quale scopo
perseguiva il nuovo regime filo-occidentale? Impedire alle sinistre l’accesso
alle istituzioni.
Bisognava accontentarsi delle urla di Pisciotta? Era tutta lì la
questione: nel padre, il figlio e lo spirito santo. Che Giuliano avesse fatto
il gioco della mafia e dei separatisti, e questi ultimi siano stati i cani da
guardia dell’America, era risaputo.
La Procura di Palermo negli anni Ottanta si occupò della strage di
Portella. Quando ne venni a conoscenza, incontrai il magistrato. “Ci ho
lavorato anch’io sulla strage di Portella, su Pisciotta e sull’assassinio del
Procuratore della Repubblica, Pietro Scaglione”, riferì senza esitazioni
Alberto Di Pisa, allora sostituto procuratore. “Prima di Scaglione, la mafia
non aveva colpito un giudice. L’assassinio di Scaglione è legato alla strage di
Portella della Ginestra. Lo uccisero in maggio del 1971, cinque mesi dopo il
tentato golpe del principe Borghese”.
In effetti, Gaspare Pisciotta lo incontrò in carcere, gli manifestò il
proposito di dare nome e cognome al padre, al figlio e allo spirito santo.
Scaglione promise che sarebbe ritornato con il cancelliere per verbalizzare
tutto quanto, e il giorno dopo lo avvelenarono con il caffè corretto.
“Stricnina…”, precisò Di Pisa. “Sbagliarono entrambi, Pisciotta e
Scaglione. Le cose non dette portarono alla tomba l’uno e l’altro”. Lo
avrebbero ucciso 17 anni dopo. Perché?
Ammazzano Scaglione il 5 maggio 1971, precisò Di Pisa. “Meno di due mesi dopo
un ex deputato comunista, poi uscito dal partito, Giuseppe Montalbano, si
presenta spontaneamente alla Commissione antimafia e afferma che il delitto è
da mettere in relazione all’avvelenamento di Pisciotta, avvenuto nel carcere
dell’Ucciardone il 9 febbraio 1954. Pisciotta avrebbe confidato qualcosa
d’importante a Scaglione, senza che il giudice verbalizzasse. Si può ipotizzare
che abbia rivelato all’allora sostituto procuratore Scaglione di non essere
stato lui il killer di Giuliano. Quando Scaglione sta per lasciare Palermo, nel
’71, chi teme queste informazioni, lo fa uccidere”.
Ma se Scaglione sa e non ha mai aperto bocca, perché dovrebbe farlo nel
1971? “Semplice”, sostenne il magistrato. “Scaglione non è affatto contento di
come è stato trattato. Formalmente, infatti, lascia Palermo perché è stato
promosso Procuratore generale a Lecce, ma aveva dovuto difendersi in
Commissione antimafia e nel Consiglio superiore della magistratura per la fuga
di Luciano Liggio, il capo dei corleonesi. Egli considerò ingiusta la stessa
indagine sul suo conto, e probabilmente lo era. Perciò qualcuno pensò che
avesse deciso di utilizzare le notizie in suo possesso”.
“La deposizione di Frank Mannino alla commissione antimafia è
importante”, sostenne Di Pisa. “Mannino era un componente della banda Giuliano,
era stato condannato all’ergastolo. Fu interrogato il 2 luglio 1970… Allora
Mannino fa questo discorso: prima del processo di Viterbo, viene l’avvocato
Crisafulli e ci dice: guardate che Pisciotta dirà di avere ucciso Giuliano, ma
state tranquilli che non è lui. Ancora Pisciotta non aveva confessato – dicendo
Ho ucciso io Giuliano – Mannino, così può affermare di essere convinto che non
sia stato lui. È un traditore, accusa all’Antimafia, ma non è l’assassino di
Giuliano. Mannino dice dell’altro: Giuliano è stato drogato e ucciso nel sonno…
Non fu né il capitato Perenze, né Pisciotta. Quando venne arrestato, ricorda
ancora Mannino, il colonnello Calandra dei carabinieri ebbe a mostrargli una
bustina, dicendo: “La vedi questa bustina? Si dorme 24 ore…”.
“E la Commissione?”, chiesi al sostituto procuratore. “Niente… Come se
avessero parlato delle arance di Catania! Anzi dai verbali si trae la
sensazione che qualcuno dei membri della Commissione abbia voluto sviare il
discorso”.
“Da che cosa lo ha capito?”
“Da qualche domanda ridicola e dal fatto che nessuno pone quesiti che
approfondiscano le rivelazioni di Mannino. Un commissario dell’antimafia chiede
a Mannino se è vero che Giuliano toglieva ai ricchi per dare ai poveri…”
“E chi fece questa domanda?”
“Un deputato della Provincia di Catania, compaesano dell’ex ministro
dell’Interno Mario Scelba e del questore Angelo Vicari. Sia Scelba che Vicari
ebbero un ruolo importante nella repressione del banditismo ed in particolare nella
vicenda relativa alla cattura di Giuliano. Ma la questione principale è
un’altra: Pisciotta confessò un delitto non commesso. Perché lo fece? e chi
uccise Giuliano? chi voleva colpire Pisciotta?”
“La risposta è venuta “, ricordai.
“E quale sarebbe, quella di Nardo Messina?”
“Sì, Nardo Messina. Rivela il coinvolgimento della mafia nei golpe
bianchi e sostiene che fu Luciano Liggio ad ammazzare Pisciotta. Ecco perché
Liggio fece assassinare Scaglione. Masino Buscetta ha detto che l’omicidio Scaglione
è stato anomalo. Non solo mafia, insomma. Questo spiega perché Liggio abbia
potuto fare quello che voleva per decenni…”.
Tra i segreti che Pisciotta portò con sé nella tomba vi è certamente
quello sui mandanti della strage di Portella della Ginestra verificatasi il 1°
maggio del 1947 allorquando Giuliano e la sua banda spararono su dei contadini
inermi uccidendo 11 persone e ferendone altre cinquanta. Al processo di Viterbo
che si celebrò nel 1951 Pisciotta disse che la strage era stata compiuta in
cambio di promesse fatte a Giuliano ed alla sua banda da parte di ministri,
nobiluomini e parlamentari. E fece nomi e cognomi, senza che succedesse niente.
Coloro che ci hanno fatto le promesse – afferma Gaspare Pisciotta – si
chiamano Bernardo Mattarella, il principe Alliata, l’onorevole monarchico
Marchesano ed anche il signor Scelba, ministro dell’Interno. I primi tre si
servivano dell’onorevole Cusumano Geloso come ambasciatore… ed il tramite tra
la banda Giuliano ed il governo di Roma era l’onorevole Marchesano… Furono
Marchesano, il principe Alliata e Bernardo Mattarella ad ordinare la strage di
Portella della Ginestra. Prima della strage essi si sono incontrati con
Giuliano”.
“Gli incontri tra i mandanti e Giuliano furono quattro: il primo ad
Alcamo al quale partecipò l’onorevole Mattarella; il secondo a Boccadifalco al
quale parteciparono il principe Alliata e l’onorevole Marchesano; il terzo al
Passo di Rigano, al quale partecipò l’onorevole Cusumano Geloso; il quarto a
Parrini, dopo le elezioni del 1948, con Cusumano e Mattarella. Giuliano anzi
ordinò anche il sequestro della famiglia dell’onorevole Mattarella perché
questi non aveva tenuto fede alle sue promesse”.
“Ho letto i giornali; ho letto anche le smentite di Mattarella, Cusumano,
Alliata e Marchesano i quali dicono che sono pazzo. Ma i pazzi sono loro.
Indico ora altri nomi di persone che conoscono tutta la verità e che lei
Presidente può fare venire qui: Domenico Albano da Borgetto, Giovanni Provenzano
da Montelepre, Rosario Costanzo da Terrasini. Sono i tre che andavano a
prendere Cusumano e gli altri e li portavano da Giuliano. La prima offerta di
50 milioni perché tacessi mi era stata fatta dall’onorevole Cusumano Geloso in
casa mia. Io avevo scritto una lettera al principe Alliata subito dopo
l’uccisione di Giuliano e Cusumano era venuto subito a trovarmi. In quella
occasione mi disse che potevo espatriare, che mi sarebbero stati consegnati
cinquanta milioni di lire.
Un’altra offerta mi fu fatta in carcere da persona
che non voglio indicare. La terza offerta la ebbi nel carcere di Viterbo e mi
fu fatta dall’avvocato difensore che ho cacciato via. Era l’avvocato Guccianti.
Mi disse che i 50 milioni li aveva messi a mia disposizione il ministro Scelba”.
Le rivelazioni di Pisciotta determinarono l’avvio di una indagine a
conclusione della quale Mattarella, Alliata e Marchesano furono prosciolti da
ogni accusa. Ma chi e perché avrebbero ordito questa infame macchinazione
servendosi di Pisciotta? Il sospetto che si tratti di una macchinazione nasce
dalle dichiarazioni rese, nel corso del processo di Viterbo, da un altro
componente della banda Giuliano, Antonio Terranova.
Afferma Terranova:
“L’avvocato Crisafulli, (un separatista, n.d.r.) mi disse: «Dobbiamo fare
nomi dei mandanti. Pisciotta li conosce, ma tu devi dare pure aiuto perché sei
innocente e sei nella stessa barca e ti devi aiutare». E facciamo i
nominativi: «Ditemi chi sono e facciamoli». E mi fanno i nomi, che sono:
Alliata, Mattarella e Scelba e non mi ricordo se c’era qualche altro… e allora
l’avvocato Crisafulli mi dice così: «guarda, tu non sei uno stupido, Alliata
e Mattarella devono essere presi di fronte e uno di striscio…».
Mentì Pisciotta o
Terranova? Il deputato comunista Giuseppe Montalbano fece intendere ai
Commissari dell’Antimafia di credere a Pisciotta. Perché? “Pisciotta manifestò
al procuratore Scaglione l’intenzione di chiarire bene come sono andati i fatti
di Portella della Ginestra e di fornire prove più concrete delle responsabilità
dei mandanti”.
Le parole di
Montalbano, uno dei leaders più influenti della sinistra, in quegli anni,
furono “ascoltate”, ma provenivano dal Pci, il partito nemico della DC, ed
erano, inoltre, pur sempre una testimonianza indiretta, un’opinione e nulla di
più.
I deputati, i
ministri e i dirigenti di partito accusati da Pisciotta furono scagionati da
ogni accusa. Resta, tuttavia, il mistero della morte di Pisciotta. Se aveva
raccontato la verità, che bisogno c’era di farlo tacere per sempre dopo l’incontro
in carcere con il sostituto procuratore Pietro Scaglione?
Si possono
formulare due ipotesi: Pisciotta si apprestava a raccontare dell’altro, fatti
che non avrebbero potuto essere confutati, oppure aveva intenzione di fare i
nomi, stavolta, di coloro che gli avevano suggerito la macchinazione, cioè i
veri mandanti dell’eccidio di Portella della Ginestra.
Non è semplice
venir fuori dall’enigma. Il mistero era il segno dei tempi che cambiavano:
l’Italia cominciava a diventare il luogo del Grande Intrigo, una Casablanca
senza confini, che si affacciava pericolosamente sull’altra parte del mondo,
l’Europa rossa dell’Urss e i suoi satelliti.
L’ambasciatore dei
“mandanti”, e cioè l’onorevole Cusumano Geloso secondo Pisciotta, venne trovato
in una pozza di sangue sul pavimento della propria abitazione. Secondo il
medico legale la morte sarebbe stata causata da emofilia… Però, Cusumano aveva
appena 33 anni. All’epoca si parlò di omicidio.
Così come di omicidio si parlò
a proposito della morte di Ciro Verdiani, l’ispettore generale di Pubblica
Sicurezza. Morirono entrambi nel 1953. E Verdiani si sarebbe incontrato più
volte con Salvatore Giuliano, senza poterlo arrestare. Secondo il medico
legale, Verdiani se ne andò a causa di un collasso cardiocircolatorio.
Pisciotta
avvelenato, Cusumano colpito da emofilia, Verdiani ucciso da collasso
cardiocircolatorio. La provvidenza aiutò i mandanti? Il fatto è che la banda
Giuliano non era un’accozzaglia di delinquenti che razziava provviste e denari,
questo è chiaro. Se ne servirono.
In un’audizione
della Commissione antimafia, o nel corso di una deposizione al processo di
Viterbo, Frank Mannino, caposquadra della banda Giuliano, fece uno strano
racconto.
Tornato a casa dopo la guerra, nel ’45 Mannino aveva ripreso il suo mestiere
di lattoniere. Fu avvicinato da Filippo Ferrara, ex-sottotenente della Marina,
che gli chiese di eseguire “un lavoro, ma negli orari in cui vi era poca
gente”.
“Di che lavoro si
tratta?” domandò Mannino. Ferrara allora mostrò un foglio di carta. C’era
raffigurata “l’Italia, la Sicilia, un soldato sullo Stretto e un soldato da una
parte… Dall’altra parte era raffigurata l’America. Tu dovresti intagliare la
latta e ricavare sei esemplari da questa stampa”, spiegò Ferrara.
Appena realizzato
il primo esemplare, Mannino lo mostrò a Ferrara e questi gli riferì lo scopo di
quel lavoro. “Ho aderito al separatismo”, disse. La Sicilia, secondo lui,
avrebbe avuto migliore futuro separandosi dal resto del Paese.
Ferrara fece anche
i nomi di coloro che erano diventati separatisti. “Abbiamo intenzione, disse,
di fare della Sicilia il 49° Stato americano… Così la facciamo fiorire”.
“Verso la fine
dell’anno, racconta Mannino, ci fu una riunione sopra il cimitero di
Montelepre. Salvatore Giuliano si presentò per la prima volta con il grado di
colonnello dell’esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia, l’Evis.
Giuliano indicò il luogo in cui avremmo trovato le armi… Si partì alla volta di
Bellolampo, dove assaltammo la caserma dei carabinieri… Si arresero… Presi
allora pennello, colori e le stampe di latta e imbrattai mura, strada, tutto
quello che mi capitava”.
Il racconto di
Mannino offre un movente alle morti inspiegabili di Pisciotta, Verdiani,
Cusumano? E le bugie di Pisciotta e Terranova?
Giuliano era il braccio
armato della strategia della tensione: la mafia era diventata Stato nel
dopoguerra. L’aiuto offerto agli alleati nello sbarco in Sicilia, l’aveva in
qualche modo legittimata, magari senza che ci fosse un progetto studiato a
tavolino. Il lavoro sporco non avrebbe potuto farlo in prima persona, così la
mafia lo commissionò a Giuliano che aveva bisogno di una identità virtuosa, di
una bandiera, di un futuro e si sentiva a capo di una Sicilia americana.
Restava da capire
la confessione di Pisciotta; anzi, che fine avesse fatto quella sua dettagliata
ricostruzione degli eventi, densa di nomi. Se uno come Pisciotta avesse parlato
oggi, avrebbe mandato in galera tutt’Italia.
Durante il periodo bellico e nell’immediato dopoguerra gli americani non
ostacolarono le mire indipendentistiche, che trovavano mafia e la vecchia
classe egemone siciliana schierate insieme, poi però il loro atteggiamento mutò
radicalmente. Ma la situazione internazionale – con il mondo spaccato in due
per gli accordi di Jalta, e il pericolo comunista – fece sì che gli USA in
realtà mantenessero, seppure sottobanco, le antiche intese. L’appoggio al
separatismo non serviva più; esso avrebbe compromesso il rapporto d’alleanza
con il governo italiano, ma la presenza del braccio armato della mafia nella
frontiera mediterranea dell’Occidente, sopravvisse e si sviluppò –
inevitabilmente – con reciproca soddisfazione.
La posizione
geografica della Sicilia e la solida struttura di Cosa nostra dirottarono
nell’Isola i grandi traffici illegali organizzati Oltreoceano. La diga
anticomunista li metteva al riparo da ogni pericolo. Il lavoro sporco veniva
espletato dalla mafia, che decimava i capipopolo rossi e soprattutto creava le
condizioni politico-sociali perché in ogni momento fosse giustificato un
intervento golpista, in grado di impedire a un governo imbelle – finito
in mano ai nemici rossi – di distruggere il Paese, minacciato da stragi, bande
criminali, rivolte contadine.
Fino alla fine del
comunismo – nel 1991 – la strategia occidentale rimase inalterata nella
sostanza: i modi mutavano a seconda delle caratteristiche degli uomini, ma il
presidio siciliano anticomunista fu mantenuto, perché fosse pronto ad
intervenire ogniqualvolta si determinavano le condizioni che lo richiedevano.
Le grandi potenze
si fronteggiano lungo una frontiera invisibile: in campo occidentale la
democrazia impone dei costi: il forte partito filosovietico va combattuto con
tutti i mezzi.
Una mafia
ideologicamente golpista non è mai esistita: ma una mafia funzionale ai disegni
delle strategie internazionali dell’Occidente ha fatto la storia del Paese, a
cominciare da Portella della Ginestra. .
Tutto si lega
insieme, offrendo lo scenario possibile: la verità possibile e la verità
processuale però restano appese allo stesso filo ma non convergono.
Occorre collegare
gli eventi. Per esempio scompare John Gotti dalla scena americana, e Totò Riina
da Cosa nostra siciliana. Queste convergenze vanno esaminate con cura. C’è un
filo costante che lega la Sicilia all’America. E’ un che Leonardo Messina
riveli un disegno golpista della mafia. La diga anticomunista, il trattato di
Maastricht. Queste sono le punte estreme. Ma dentro ci sono i tentativi di
colpo di Stato, ogni volta che il Paese si allontana dall’Occidente o può
rappresentare un pericolo. I contadini nel dopoguerra, il centrosinistra, i
comunisti al governo. Ma sono le guerre di mafia a provocare i morti, non i
golpe, finti, abbizzati, preparati e poi dismessi.
I messaggi
politici non interessano soverchio la mafia. Basta seguire la parabola dei
capimafia. Come Michele Navarra nel dopoguerra: monarchico, separatista, infine
democristiano.
Va ricordato un
episodio del 1943: il controspionaggio americano scelse Vincent Scamparino e
Max Corvo per addestrare ad Algeri agenti da infiltrare in Sicilia: i requisiti
di reclutamento non erano l’antifascismo, ma la sicilianità, o l’appartenenza a
cosche mafiose o gruppi economici importanti. Mentre Galvano Lanza e Vito
Guarrasi partecipavano alle trattative per l’armistizio, don Calogero Vizzini
di Villalba svolgeva a livello tattico attività di preparazione dello sbarco
degli alleati in Sicilia. Sono presenti ad Algeri Galvano Lanza di Trabia e
Vito Guarrasi: “oscuro ufficiale di complemento del servizio automobilistico”
.
“Mentre Insalaco
rivestiva ancora la carica di Sindaco”, si legge nella requisitoria di Alberto
Di Pisa contro Vito Ciancimino, “l’avvocato Guarrasi in una memoria fatta
pervenire allo stesso Insalaco sosteneva la legittimità, nel rinnovo dei grandi
appalti di Palermo, della trattativa privata; il che avrebbe implicitamente
favorito l’impresa Lesca, dei Cassina. Indagini giudiziarie poi dimostreranno
che i Cassina erano vicini a Ciancimino e all’onorevole Salvo Lima”.
E’ straordinario
che episodi così lontani e così misteriosi abbiano come protagonista la stessa
persona, Vito Guarrasi. Joseph Macaluso, italoamericano, e John Mc Caffery,
preannunciano l’entrata in scena di Michele Sindona nelle vicende italiane.
Joseph Macaluso avrebbe accompagnato Sindona in Sicilia nel 1979, quando il
banchiere siciliano incontrava mafiosi e massoni con l’intenzione di preparare
un colpo di Stato (almeno, così fece credere). Mac Caffery, il responsabile
della centrale di spionaggio inglese a Berna nel ’43, sarebbe stato travolto
dal crack delle banche sindoniane negli USA. Già all’inizio degli anni
quaranta, si creano le grandi intese fra alta finanza, servizi americani e
inglesi, banche svizzere e mafia.
Personaggi come
Sindona, Joseph Macaluso, Mc Caffery scrivevano le regole del grande business
contemporaneo, del mondo illegale sotterraneo che continuava a combattere
contro l’Est comunista e ne traeva benefici, attraverso i traffici illegali
della droga e delle armi.
La mafia si
sarebbe assunto il ruolo di sentinella del nuovo assetto, ed in cambio avrebbe
preteso la non ingerenza nei suoi affari?
Come provarlo?
Michele Sindona. Era lui il filo conduttore, l’uomo chiave del nuovo contesto.
Pisciotta e Sindona sono stati uccisi con una tazzina di caffè avvelenato.
Sapevano troppo entrambi e volevano parlare.
La storia si
accorcia d’improvviso. Il crimine lascia tutte le volte una impronta
riconoscibile, è come se avesse bisogno di segnalare la sua presenza. Per
trarne giovamento. Perché chi ha da capire, capisca. Quale altra ragione,
altrimenti?
Gli stessi
personaggi, le stesse situazioni, i metodi. Il potere non è mai mutato dal
dopoguerra agli anni Ottanta. Gli uomini, quelli sì; ma il rinnovamento è
avvenuto all’interno del contesto immutabile, secondo le regole, gli equilibri
politici, economici, finanziari.
Leonardo Messina,
nel dicembre del ’92, racconta alla Commissione antimafia che ad uccidere il
bandito Giuliano è stato Luciano Liggio. “Lo ha regalato allo Stato”, per
rispettare la volontà del capo dei capi, Calogero Vizzini (“Serviamoci dei
banditi tanto poi ci penso io a disfarmene”). “C’è stato un compromesso tra
un’ala dello Stato e Cosa Nostra”, spiega Messina. “Ora ci sarà un nuovo
compromesso con chi rappresenta il nuovo Stato”.
Un elemento resta
inalterato: il ruolo e le trame dello Stato nella gestione del bandito
nella sua uccisione. Il 24 ottobre ’44, i servizi statunitensi riferiscono ciò
che si prepara in Sicilia: “Eliminare dal mondo politico italiano tutti i
filocomunisti, finanziare squadre di killer…”
Un’ipotesi
plausibile? Scomparso il pericolo dell’Est, i compiti nuovi dell’avamposto
siciliano in Europa, mutano. Come? L’obiettivo più importante è saldare fra loro
i gruppi che si stavano impadronendo del mercato ex comunista – il mercato
legale e quello illegale (ma i confini fra l’uno e l’altro sono davvero labili)
– e mettere in ginocchio l’Europa nata a Maastricht. Un pericolo per la finanza
che s’affaccia sul Pacifico e sull’Atlantico.
Salvatore Parlagreco (SiciliaInformazioni - 2014)
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