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Questo e' il terzo articolo che
dedichiamo alle banche venete: nascita, vita e morte delle banche locali e
perché ciò sia accaduto ne è il filo conduttore del acconto. Il Veneto assurge
alla storia nazionale perché nel volgere di pochi anni le crisi e fallimenti di
tante banche (non solo di quelle più note) hanno probabilmente cambiato in modo
irreversibile un modello di sviluppo fondato sui distretti e sulle banche del
territorio, cosa che è forse alla base del ritardo dall’uscita dalla crisi economica
nella quale ancora ci dibattiamo.
Si può dire senza rischio di essere
smentiti che in Veneto la banca locale come categoria è pressoché sparita. Non
è stata l’unica regione d’Italia dove la banca del territorio ha perduto posizioni,
ma è senza dubbio quella dove il fenomeno è stato più massiccio.
Soltanto nel 2010 vi erano 57 banche
con sede in Regione: 11erano società per azioni, 5 Banche Popolari, 40 banche
di credito cooperativo e una filiale di banca estera. Vi operavano con 2.300
sportelli su un totale di 3.600, con un peso pari al 60 per cento.
Dopo sei anni sono rimaste in 34, di
cui 28 BCC, tutte di dimensione ridotte. Delle restanti sei, tra popolari e
spa, poche possono essere classificate come banche locali. Alcune hanno infatti
vocazione specialistica, altre sono integrate in gruppi, le cui strategie sono
dettate dalle rispettive capogruppo fuori regione. È stata registrata anche una
certa disintermediazione, che ha portato i depositanti (famiglie e piccole
imprese) verso i prodotti postali, a seguito dei timori collegati alla lunga
vicenda che ha interessato le due popolari alla fine fallite.
Inoltre il credito cooperativo è
destinato a perdere ulteriore forza come soggetto unitario, dato che nella
formazione dei gruppi voluti dalla riforma, 14 bcc aderiranno al gruppo Iccrea
e 10 a quello di Cassa Centrale Trentina. Sono scelte che frammenteranno
ulteriormente l’offerta di prodotti e servizi bancari destinati ai mercati
locali, indebolendo la posizione dei singoli intermediari, anche attraverso
forme interne di concorrenza, stante la sovrapposizione di molte aree di
operatività.
Le quote di mercato facenti capo al
localismo bancario veneto sono ora pari a pochi punti percentuali. Il Veneto
bancario appartiene in prevalenza ai gruppi Intesa, Unicredito, Bpm e Monte dei
Paschi, quest’ultimo statalizzato.
Quanto avvenuto appare come una sorta
di maledizione del vincitore, per come era letto il localismo bancario veneto
soltanto pochi anni fa, pensando addirittura che fosse il pivot del processo di
ammodernamento del sistema industriale, entrato in crisi di competitività.
Da osannate banche del territorio, le
banche piccole e medie si sono ridotte in pochi anni a una presenza del tutto
marginale, in breve sono fallite miseramente in una delle aree più ricche d’Europa.
Siamo convinti che la causa di tutto
ciò sia stato il tentativo di appropriarsi di un ruolo non loro, che ne ha
progressivamente prodotto lo snaturamento, fino al disfacimento.
Quali sono le evidenze di questa
proposizione?
In primo luogo, la crescita delle
dimensioni operative, anche in controtendenza con gli andamenti delle restanti
parti del sistema bancario, ha allentato la capacità di selezionare la clientela,
portando alla rinuncia del primato informativo della vicinanza con i propri
mercati tradizionali. La pletoricità delle strutture organizzative (numero di
sportelli, reti di partecipazioni anche estere, acquisizioni di banche in altre
regioni d’Italia, anche in condizioni critiche) ne sono i fatti più
significativi.
La crescita quantitativa ha quindi
portato con sé maggiore concentrazione, settoriale (in
primis nell’immobiliare) e per cliente,
e aumento della dimensione media della clientela, anche a seguito dell’ampliamento
delle relazioni creditizie in essere presso le grandi banche, politica che ha in
parte delegato la selezione diretta delle controparti agli intermediari
maggiori.
La perdita della selettività è stata l’anticamera
di altri e ben più gravi scompensi di governance e di fenomeni di mala gestio.
Il punto, infatti, sul quale tornare è
quello dell’assunzione di un ruolo di sostegno creditizio della grande e media
industria che ha progressivamente generato una maggiore permeabilità alle situazioni
di conflitto di interesse.
Le trasformazioni intervenute nella
governance sono lo specchio immediato di questo processo. E difficile dare una
rappresentazione precisa della pletorica e sempre più complicata governance
delle banche di cui parliamo.
Proviamo a farlo in sintesi
soffermandoci su quel che emerge dagli ultimi bilanci del Banco Popolare (2015)
e delle due popolari fallite (2016). In pochi anni, il numero dei soci e’ quasi
raddoppiato fino a raggiungere l’iperbolica cifra di 600.000 unità. In media,
una famiglia veneta su tre era socia delle tre popolari.
Limitandoci ai consigli di
amministrazione delle banche capogruppo, e cioè trascurando quelli delle decine
e decine di società e banche da esse partecipate, il numero dei membri andava dai
12 ciascuno per la Popolare Vicentina e Veneto Banca ai 24 del Banco Popolare.
Di essi oltre la metà erano, a quelle
date, espressione del mondo industriale veneto e nazionale, cioè prenditori di
credito dalle stesse banche amministrate.
Questo numero è comunque riduttivo, è
una fotografia sfuocata, perché non tiene conto degli avvicendamenti
intervenuti nel corso degli ultimi mandati, e in specie nel più recente periodo
quando si sono fatti tentativi di salvataggio in extremis, con l’obiettivo di
mantenere le crisi ancora in ambito regionale. Come ha ricordato De Bortoli sul
Corriere Economia di qualche settimana fa, oggi tutti gli imprenditori, ad
iniziare dal presidente di Confindustria plaudono agli interventi di salvataggio
a carico dello Stato e invitano a ‘voltare pagina’. Nessuno di questi signori
ricorda di aver conosciuto Zonin e Consoli!
Organi di gestione delle banche formati
da maggioranze di cosiddetti debitori di riferimento vanno alla continua
ricerca di equilibri collusivi, alimentano forme, anche implicite, di condizionamento
reciproco, favoriscono scambi e modalità di compensazione dei vari interessi in
gioco.
In questa situazione il management è
portato snaturare a sua volta il proprio ruolo o accentuando il potere in
maniera incontrollata (un servo-padrone che dirige il traffico tra i vari portatori
di interesse, provocando inevitabili ingorghi e deviazioni da percorsi di
legalità) o riducendosi a esecutore di ordini degli esponenti di maggior peso
(un padrone-servo che si assume responsabilità crescenti in cambio di
riconoscimenti materiali e di prestigio, fino a che dura il gioco, cioè fino al
momento della esplosione finale). Ovviamente sono esclusi da queste
considerazioni gli ultimi manager, chiamati al capezzale delle banche, oramai
in articulo mortis.
A tali scompensi si aggiunge la
necessità di tenere sotto controllo le sterminate basi sociali sia per catturarne il consenso,
necessario al momento del rinnovo delle cariche, sia per utilizzarle per i crescenti fabbisogni di capitale
richiesti dalla crescita dei volumi e dei livelli di rischiosità. L’averlo fatto con modalità non sempre
trasparenti ha prodotto il collocamento di azioni e obbligazioni presso
soggetti non consapevoli dei rischi. Su di essi ha gravato gran parte degli azzeramenti
di capitale primario e secondario, prima degli interventi a carico del
contribuente.
La conclusione di queste poche e
generiche riflessioni è che quando la banca locale entra in crisi non ha più
nulla di locale.
Dobbiamo tornare sul rapporto banca
industria con un’ulteriore osservazione.
Quando si allentano i criteri di
selettività del credito, si produce, in contesti territoriali circoscritti e a
forte caratterizzazione settoriale, come avviene nel caso dei distretti, una
forma di distorsione della concorrenza, dato che il credito concesso in
abbondanza tiene in vita anche i soggetti meno efficienti, che verrebbero
rapidamente espulsi dal mercato, ove si seguissero criteri di maggior rigore. L’interesse
ad una banca più selettiva dovrebbe essere in prima battuta proprio della parte
produttiva più robusta. Quando l’indebito sostegno agli operatori meno
efficienti arriva a danneggiare oltre un certo limite quelli più efficienti
sono questi ultimi a chiedere alla banca di chiudere i cordoni della borsa.
Così facendo cominciano a emergere sofferenze in misura sempre maggiore, fino a
determinare il dissesto della banca stessa. Questo è il motivo per il quale la
perdita di criteri di prudenza e di indipendenza della banca locale ne sancisce
velocemente la fine. Ad un certo punto la situazione non è più sostenibile e i
tappi saltano.
Sembra che sia avvenuto proprio questo,
nella illusione di trasformare un sistema localistico in un sistema a vocazione
nazionale o addirittura internazionale, che non era alla portata dei nostri effimeri
campioni regionali.
E alla fine è l’industria che determina
la fine della banca, ritenendola non più funzionale alla propria sopravvivenza.
L’arrivo delle grandi banche in
contesti territoriali come il Veneto è l’unico modo per tagliare di netto
questi nodi, anche se non sarà facile poiché sarà necessario un periodo di consolidamento
e riorganizzazione che potrà richiedere anni per riassorbire il moral hazard
che si è prodotto nei periodi precedenti. Per ripristinare il merito di credito
delle imprese, si dovrà ricostituire la fiducia nella qualità dell’informazione
proveniente da queste ultime. Ci vorrà del tempo. Prevarranno comportamenti
giustamente selettivi che restringeranno l’offerta di credito. Non è un caso
che, nell’accordo sottoscritto, Intesa si sia riservata la possibilità di
retrocedere alla liquidazione ulteriori 4 miliardi di impieghi delle due banche
fallite, che, in un contesto di urgenza assoluta, non ha avuto modo di
esaminare con la dovuta diligenza.
Gli è che tutte queste cose non sono
affatto nuove nella secolare storia della banca.
Purtroppo non si è imparato ancora a
sufficienza dai disastri che si creano da un rapporto distorto tra banca e
industria. E, seppure sia diabolico, continuiamo a perseverare nell’errore,
credendo di avere ogni volta in mano la pietra filosofale che faccia il
miracolo e smentisca i dannosi precedenti di questo connubio.
Come abbiamo scritto nell’articolo
uscito alcuni giorni fa dal titolo “Che cosa è veramente successo nelle banche
del Veneto”, il problema si aggrava non di poco se anche le autorità pensano di
avere in mano quella stessa pietra filosofale.
articoli precedenti:
(1/3): https://laquartadimensionescritti.blogspot.it/2017/08/lettera-un-marziano-sul-tempo-e-sulle.html
(2/3): http://laquartadimensionescritti.blogspot.it/2017/09/che-cosa-e-veramente-accaduto-nelle.html
Alla ricerca di ottimizzare gli obiettivi spesso si distorce il modo corretto di agire ed e' facile trovate interessi esterni consoni a non agevole e non garantire la clientela. Viva l'Italia.
RispondiEliminaM.