Una paura
inconfessata del mondo si specchia nell'unica sicurezza in cui si arrocca il
Movimento 5 Stelle nel momento in cui lancia l'assalto al cielo: la chiusura
oligarchica in sé, con una superstizione settaria e una fiducia religiosa. Come
Ratzinger, anche Grillo è convinto che " extra ecclesiam nulla
salus", perché non c'è salvezza fuori dal sacro recinto. È singolare come
questi due sentimenti siano intrecciati nel procedere del partito, dal
"V-day" fino alla farsa autolesionista delle primarie prefabbricate
che investiranno Di Maio con una corona giocattolo, da grandi magazzini. Un
movimento nato in piazza, convinto di essere generato direttamente dal popolo,
alternativo al sistema, ai suoi riti stanchi e alle procedure più logore, si
mostra incapace di darsi un metodo di democrazia interna coerente con quanto
predica all'esterno e con l'idea di rinnovamento che propone, talmente radicale
che dovrebbe semmai rovesciare l'antico motto cristiano, cercando il
cambiamento ovunque si manifesti e in qualsiasi forma: " Ubi salus, ibi
ecclesia".
L'anomalia è
congenita e connaturata, come il conflitto d'interessi per Berlusconi o il
bullismo politico per Renzi. Nasce cioè dalla concezione di sé, non come parte
ma come un diverso tutto, che non vuole conquistare il sistema ma pretende di
soppiantarlo. Ciò comporta, necessariamente, l'abolizione di ogni distinzione,
e cioè del libero criterio con cui si forma ogni giudizio politico, per
incasellare la realtà dentro uno schema di comodo basato sul pregiudizio, che accomuna
tutta la politica precedente alla transustanziazione del comico in leader, come
un'era barbara da rigettare in blocco. Non importa che in questa lunga stagione
costellata di errori e anche di colpe ci siano tradizioni, esperienze, filoni
culturali, testimonianze e personalità che hanno costruito la miglior storia
d'Italia, avvicinandola all'Europa. E non importa neppure che nella capacità di
distinguere, ogni volta e in ogni circostanza, risieda l'esercizio della
libertà intellettuale del cittadino: l'unica cosa che conta è ridurre la
politica "altra" a fascio indistinto, insieme con le istituzioni marce
e i riti repubblicani vuoti.
Deriva
dunque dalla differenza, più che dalla proposta, l'autocandidatura grillina non
all'alternativa ma alla sostituzione di sistema. Una differenza che si vive
come antropologica, irridendo gli avversari e sbeffeggiandoli, che si presenta
come metodologica (nel culto elettronico del sacro Graal che dovrebbe garantire
trasparenza e invece la confisca), ma in realtà è profondamente ideologica. Non
si tratta infatti di tornare agli ideali democratici su cui è nata la
repubblica, ma di trasportare il sistema nell'altrove grillino dove una casta
di puri sostituirà un meccanismo corrotto e inaugurerà finalmente l'era della grande
semplificazione, banalizzando - come avviene quotidianamente in Campidoglio - i
problemi e purtroppo le loro soluzioni. Solo un piccolo mondo nuovo, compatto,
rigidamente controllato, impermeabile e autosufficiente può sostituire il
grande vecchio mondo che non si può emendare, selezionare, discernere, ma
soltanto mandare al macero in blocco.
Soltanto che
la rigidità del meccanismo cozza contro l'elasticità della teoria. C'è un capo
supremo che tutti riconoscono ma che nessuno ha eletto, con titoli aziendali,
manageriali e religiosi ben più che politici: il "fondatore", il
"capo politico", l'"elevato". Nessuno ovviamente disconosce
il carisma di Grillo sui suoi adepti, e nemmeno l'istinto politico. Solo che lo
statuto speciale che si è attribuito lo colloca in un luogo esterno al
controllo, alla verifica, alla trasparenza, al metodo democratico che
l'articolo 49 della Costituzione prescrive ai partiti, un luogo di permanente
arbitrio e di totale insindacabilità, che lo rende nello stesso tempo responsabile
finale di ogni cosa, e a piacere irresponsabile di tutto. Quando poi Davide
Casaleggio scende nel campo politico e amministrativo incontrando sindaci e
parlamentari, dirimendo conflitti, decidendo priorità e strategie, l'affare si
complica perché la mancanza di ogni investitura democratica è in più distorta
dall'elemento dinastico, come se si potesse ereditare il ruolo di co-fondatore,
l'approccio imprenditoriale per regolare dall'alto la politica, le chiavi
misteriose del caveau battezzato con sprezzo del pericolo Rousseau, che
custodisce solo per gli iniziati i percorsi e i destini di tutti.
È evidente
che tutto questo cozza con la predicazione della trasparenza, con il principio
della democrazia diretta (anche con quella indiretta, a dire il vero), con lo
streaming inflitto a Bersani, con il disvelamento di ogni meccanismo
decisionale, con il rovesciamento dei vecchi metodi castali, che ancora
resistono nei partiti e determinano in buona parte il successo del movimento.
L'unico principio che regge alla prova dei fatti è il famoso "uno vale
uno", ma rovesciato rispetto alla rivoluzione che prometteva: davvero
conta sempre e soltanto quell'uno nascosto in alto, che ha potestà di nomina e
di veto come i signori feudali, ben più di qualsiasi leader di ogni vecchio
partito. Quelli, infatti, dichiarandosi di destra o di sinistra si impongono un
vincolo politico-culturale, a cui devono in qualche modo rispondere, e in base
al quale vengono giudicati, mentre qui ogni piroetta è lecita, nel nulla
identitario. Quelli, in più, devono fare i conti con il libero gioco delle
correnti, qui invece totalmente assenti come dimostrano le primarie
addomesticate coi figuranti attorno a Di Maio, e il silenzio amaro dei
dissidenti, che hanno paura del fulmine dall'alto, capace di incenerire ogni
dissenso.
Le finte
primarie sono dunque il risultato di un metodo, che è un'aperta trasgressione
ai principi fondativi del movimento, una deformazione delle sue teorie, una
falsificazione politica. La miseria politica degli altri partiti non giustifica
affatto la clamorosa anomalia grillina. Chi non ha altra base culturale che la
purezza e la trasparenza, nascendo ogni giorno dal seno del popolo per riporre
proprio lì la virtù salvifica di ogni scelta, ha infatti il dovere politico della
coerenza: se non nei programmi, che sono più complicati perché dipendono anche
da variabili esterne, almeno nel metodo con cui costruisce il suo gruppo
dirigente, la sua leadership, la sua struttura interna.
Abbiamo
ripetuto molte volte e inutilmente, davanti ai periodici grovigli del Pd, che
un moderno partito è forte se disarmato, è nuovo in quanto aperto, è
democratico perché scalabile e contendibile. Vale per tutti, naturalmente. E
invece proprio nei 5 Stelle c'è il timore non solo di ogni convergenza
democratica nei parlamenti (dove pure non esiste per definizione una verità
assoluta, ma tante verità parziali che si possono combinare in quel gioco che
si chiama politica), ma anche di ogni contatto esterno per definizione
"impuro", e adesso addirittura di ogni possibile contaminazione
interna che scombini la scelta dell'oligarchia di vertice, blindata proprio
mentre si convocano le primarie, con una contraddizione clamorosa. La prova del
9 è l'intolleranza per l'informazione proclamata direttamente da Grillo ieri
davanti ai giornalisti, mentre l'uomo del cambiamento, Di Maio, si inchinava a
baciare la teca di San Gennaro: "Vi mangerei, anche per il gusto di
vomitarvi". Non fa ridere, qualcuno dovrebbe dirglielo. Per paura,
tacciono gli oppositori interni. Per connivenza, stanno zitti gli intellettuali
esterni, pronti a crocifiggere ad ogni passo la seconda repubblica, come se non
si facesse male da sola. Quanto alla terza, non resta che aspettare la ribellione
cibernetica di Rousseau, come un moderno Hal, per dichiarare il gigantesco
"tilt" democratico di questa odissea spaziale coi dadi truccati.
Ezio Mauro (La Repubblica – 20 settembre 2017)
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