La
street art e la guerra alle apparenze. Intervista a NemO’S
Arte o non arte? Questo è il dilemma che
si rincorreva nei giorni scorsi sui profili Facebook di molti utenti non solo
messinesi. Oggetto dell’infuocata polemica i “dipinti” apparsi sui muri e sulle
pensiline dei tram grazie a (o, per qualcuno, “a causa di”) Distrart,
iniziativa finanziata da un progetto europeo condiviso dal Comune di Messina. E
c’è chi è arrivato a definire addirittura “violenza urbana” quei murale: i
passanti, secondo gli accesi oppositori, sarebbero costretti a subire lo
“shock” di immagini “dure”, “cupe”, senza scegliere di farlo come avviene, per
esempio, andando deliberatamente in un museo.
Per far sentire anche la sua voce, abbiamo
contattato NemO’S, l’autore di queste opere tanto graffianti quanto
dibattute, uno dei più noti, appassionati e intriganti street artist tra quelli
sbarcati finora in riva allo Stretto.
“Parlare di violenza urbana – questa la
sua obiezione – riferendosi a un disegno su un muro, in un paese come l’Italia
che, a partire dagli anni ’80, ha subito gli effetti del boom edilizio con
conseguenti abusi e illeciti, lo trovo assurdo. I palazzinari, la mafia, le
giunte comunali che coprono una collina di cemento o svuotano un fiume che
ciclicamente straripa portando danni e morti, creano violenza urbana. Dopo aver
pagato dalle casse pubbliche più di un miliardo tra penali, oneri finanziari e
costi di liquidazione per non realizzare il ponte sullo Stretto di Messina,
costosissimo progetto considerato infattibile per ovvi problemi ambientali,
sismici ed ingegneristici, c’è ancora qualcuno che parla di riprendere in mano
l’idea di questo ecomostro di 3666 metri. Questa è violenza urbana non un
disegno! Credo che, in un Paese dove crollano scavi archeologici, si
sotterrano i rifiuti e i nostri paesaggi vengono continuamente invasi dalla
speculazione edilizia, chi parla di violenza urbana per un disegno, un disegno
che tra l’altro dovrebbe far pensare, debba sentirsi colpevole per tutto quello
che viviamo. Si tratta di ignoranza: si ignorano i veri problemi che affliggono
la società e ci si sofferma su un qualcosa più facile da criticare attraverso
un commento mal argomentato su un social network. Se la gente riflettesse e
pensasse in maniera diversa, si lamenterebbe del palazzinaro o della politica
non di un disegno. Un viadotto sulla Palermo-Agrigento, è crollato dopo una
settimana dall’inaugurazione ma nessuno ha parlato di violenza urbana. In
Sicilia Ciancimino e tutta la mafia hanno costruito e speculato in zone
meravigliose. Ragusa, Siracusa, Gela, Augusta, solo per fare alcuni esempi,
sono state invase dalla speculazione edilizia. Chi parla di violenza urbana
riferendosi a un disegno è un ignorante e con molte probabilità fa parte di
quelle persone che hanno permesso e permettono lo scempio edilizio e gli
ecomostri senza alcun accenno di ribellione. E’ come vivere in una stanza piena
di merda e preoccuparsi che la libreria non abbia la polvere”.
Perché molti artisti come lei, Banksy su
tutti (uno dei massimi esponenti della street art) preferiscono “nascondersi”
dietro uno pseudonimo o una sigla?
“Non si tratta di una prerogativa della
street art. Da sempre l’uomo ha sentito la necessità di crearsi uno pseudonimo
per definire la propria identità: dagli artisti, scrittori, pittori, cantanti,
attori, ballerini, ai politici, ma come anche ai partigiani o ai pellerossa;
insomma da sempre, in tutti gli ambiti. La Tag diventa come un nome di
battaglia attraverso la quale è possibile identificarsi e distinguersi dagli
altri. Il writing è nato in un contesto sociale metropolitano di competizione
dove persone e gang di vari quartieri dovevano affermare la propria presenza, e
uno degli strumenti per farlo era la Tag. Ovviamente non si firmavano con il
proprio nome, indirizzo e dati anagrafici ma usavano un nome di battaglia come
centinaia di anni prima i pellerossa usavano nomi che ricalcavano ed
esorcizzavano determinati caratteri e concetti. Ed è per questo che le prime
Tag erano affiancate dalla parola One così da sottolineare e rafforzare
l’unicità di quel nome di battaglia”.
Perché NemO’S?
“Quando ho cominciato a dipingere per
strada ho dovuto decidere una Tag. Nemo allude a un fumetto dei primi dell’800
di Winsor Mc Cay che racconta di un fantastico mondo onirico, Slumberland, dove
sono ambientati gli incubi del protagonista, appunto Nemo, ma anche al
misterioso capitano di Julies Verne che “combatteva” contro la guerra e le
ingiustizie del mondo nel silenzio degli abissi. Nemo dal latino si traduce
Nessuno. Io ho sempre detestato le gerarchie e per questo non mi è mai
piaciuto definirmi artista. E’ un appellativo che ti eleva rispetto a chi
guarda l’opera, che crea un divario. Sono solo una persona che disegna e mi è
sempre piaciuta l’idea di firmare i miei pezzi “nessuno”. Come se nessuna
identità avesse creato quel disegno e come se questo fosse semplicemente
comparso per magia. E’ cosi che, riferendomi ai disegni, aggiunsi alla Tag il
genitivo “s” trasformando la traduzione e il significato da “nessuno” a “di
nessuno” completando così quel paradossale modo di identificarmi”.
I personaggi dei suoi lavori
sembrerebbero ingordi e corrotti. Appaiono degradati anche nel corpo. E’
impossibile un raggio di luce nel guasto della decadenza umana?
“I miei personaggi non sono ingordi e
corrotti ma ricalcano nella loro estetica quello che penso della società umana
e dell’uomo. Vedo l’essere umano come un sacco di pelle contenente delle
viscere con poca coscienza e sempre meno altruismo. L’estetica attraverso la
quale rappresento i miei personaggi vulnerabili, malati, goffi, impacciati,
indifesi vuole essere una critica al senso di perfezione e immortalità al quale
ci ha abituato la società di oggi. Si tratta di una riflessione personale sull’umiliante
condizione dell’essere umano e sulle sue contraddizioni. Assolutamente non
tocca a me e ai miei disegni alimentare alcun tipo di speranza. La speranza non
esiste! Sono migliaia di anni che l’uomo ripete i propri errori. Quale speranza
ci deve essere? Ci attacchiamo alla speranza nelle generazioni avvenire per
cercare di giustificare così i nostri comportamenti. Si dovrebbe cercare il
cambiamento e il riscatto nel presente ma la speranza nasce per concretizzarsi
nel futuro. Tendiamo a giustificare silenziosamente attraverso questa attesa
fiduciosa le nostre colpe rimanendo però immobili in una condizione di disagio
e lasciando i buoni propositi a chi verrà dopo, idealmente più illuminato di
noi. Ma anche “Poi” l’essere umano sarà mosso da questa sorta di illusoria
auto giustificazione e riporrà tutte le sue buone intenzioni, aspettando che
qualcuno, dopo di lui, faccia qualcosa di positivo”.
Alcuni personaggi brutalizzano, altri si
fanno brutalizzare. Nel suo immaginario, perseguitati e oppressori sono
entrambi come marci. Nessuno è incolpevole?
“Quando si parla di umanità si intende
quel carattere essenziale e distintivo dell’uomo di potenziale capacità di
comprensione che ci dovrebbe contraddistinguere dall’animale. Dovrebbe essere
la prima parte di noi stessi ma troppo spesso questa caratteristica viene meno.
I corpi molli e le carni flaccide sono la rappresentazione del degrado
intellettuale e sociale che stiamo vivendo. La continua, subdola e spasmodica
ricerca di una perfezione estetica ideale ha costretto l’uomo a dover
sopravvivere in quella società egoista da lui stesso creata che ci ha
trasformato in cartelloni pubblicitari di noi stessi. Siamo degli oggetti del
consumismo, l’importante è funzionare esteticamente. Chiunque partecipi,
chiunque abbia un ruolo negativo all’interno della società o chi rimane anche
solo passivo rispetto queste dinamiche è colpevole. Sono un osservatore delle
dualità umane con una predilezione per l’umorismo macabro e il cinismo. D’altra
parte mi pervade un senso di meraviglia per il potenziale umano temperato dal
disgusto per la nostra debolezza e follia. I miei personaggi sono la traduzione
grafica di quel che sento e quel che provo ogni giorno. Le scene che
rappresento sono paradossi, incubi che mi aiutano a descrivere scene di vita
reale e di un mondo pieno di contraddizioni”.
Grandi pittori come, per citarne uno,
Francis Bacon si sono espressi sempre nel modo più crudo possibile e c’è chi
trova tuttora raccapriccianti i suoi capolavori. Perché alcune persone si
indignano, giudicano orribile, si sentono offese da immagini che raccontano la
degenerazione dell’uomo?
“Francis Bacon rappresentava nel suo
lavoro l’ossessione dell’uomo per se stesso… poteva disegnare margherite? Bacon
è uno dei miei artisti preferiti. Durante un’intervista gli era stato chiesto
se aveva mai pensato di disegnare un sorriso, lui rispose che i suoi disegni
erano proprio quel tentativo e i suoi quadri ne erano il risultato. Chi scrive,
analizza e cerca di tradurre l’esistenza umana attraverso la filosofia, la
scrittura, la musica, la pittura. Cosa dovrebbe fare? Dovrebbe parlarne bene o
male? E’ ovvio che il possedere un minimo di capacità di analisi e di
sensibilità porta a una riflessione sulle contraddizioni e sul malessere insite
nell’umiliante condizione umana. La gente si indigna perché non vuole sapere,
ha paura della verità e preferisce illudersi che il mondo sia bello, felice e pulito.
Scappa dalla realtà delle cose per vivere nel facile mondo delle apparenze.
Vuole vivere bene la propria vita. Vuole essere egoisticamente ignorante, vuole
ignorare i problemi altrui, con arroganza cerca di vivere in una scatola che
apparentemente sia il più perfetta possibile. La gente si indigna perché è
fortemente egoista e superficiale con gli altri ma anche con se stessa, non ha
voglia di sporcarsi la vita. Tutto questo è un circolo vizioso che non può che
degenerare nell’individualismo, nell’ignoranza, nelle brutalità, in tutto ciò
che è negativo e in tutto quello che cerco di rappresentare. Chi si indigna non
vuole affrontare la sua vita all’interno del contesto sociale e non vuole
sopportare ciò che potrebbe essere insopportabile. Ci sono due possibilità: o
ci si chiude in se stessi nella ricerca di un’illusoria vita serena, o ci si
sporca le mani documentandosi, cercando di capire e dannandosi la vita
nell’analizzare la contraddittorietà dell’esistenza umana”.
I suoi lavori si trovano anche a Londra,
New York, Madrid… Come valuta la sua esperienza messinese rispetto a quella
nelle grandi città estere?
“Ogni città ha le proprie
caratteristiche. A New York, nonostante sia una delle città più grandi e
moderne del mondo e il popolo americano sia aperto e composto da centinaia di
sfumature di culture e di etnie diverse, ho dovuto censurare un pene perché
stavo disegnando in un quartiere di ebrei ortodossi. Messina in confronto è un
piccolo paese ma allo stesso tempo possiede una grande storia culturale che
l’ha portata a essere citata nell’Odissea. Posizionata sul mare, su uno
stretto, animata da secoli da un viavai di popoli e persone. E’ qualcosa di più
di una semplice città di mare, è la connessione con la terra ferma, punto di
sbarco dei migranti e di persone che scappano da situazioni tragiche. Purtroppo
come in tante altre città italiane, da nord a sud, ho trovato una realtà chiusa
fatta di ignoranza e provincialismo: il nord ha i propri meccanismi malati e il
sud idem. Ovviamente in tutti i paesi ci sono censure, ma nelle capitali
europee hanno caratteri diversi: in alcune più dal punto di vista politico e
sociale, in alte religioso… A Messina c’è stato chi ha difeso il disegno e chi
lo ha totalmente criticato. C’è spesso un equilibrio tra critica e
approvazione, è normale. Ma la differenza è stata che in una città come Messina
si discute di violenza urbana riferendosi a un disegno quando in realtà di
violenza urbana ce n’è in abbondanza e nessuno ha mai detto nulla per una
questione di opportunismo e qualunquismo! E’ molto più semplice giudicare in
maniera anonima un disegno che sporcarsi le mani e spendere il proprio tempo
per cercare di polemizzare su un ecometro. La differenza tra Messina, l’Italia
in generale e le altre città credo sia il qualunquismo e il populismo di chi
critica, la chiusura mentale e il disinteresse. E l’egoismo totale rispetto ai
veri problemi”.
Cosa pensa di chi fa arte di strada
illegalmente?
“Io appoggio totalmente chi fa arte
illegale, la street art e il writing sono nati in questo modo. Non appoggio
l’illegalità delle cose in quanto tale ma condivido a pieno e continuerò a fare
arte illegale perché rappresenta la massima libertà espressiva di una persona.
Questo significa non avere un luogo, delle restrizioni o delle regole dal punto
di vista espressivo. Fare arte illegale crea un potenziale espressivo
superiore. Chiunque può esprimersi, non ci sono selezioni, non ci sono giudizi,
non ci sono preconcetti. Ovviamente ci sarà sempre chi farà meglio o peggio, ma
non si può e non si deve togliere la libertà di espressione a nessuno. Per me
l’arte illegale è la summa della libertà espressiva”.
L’arte urbana col tempo si sta sempre
più “istituzionalizzando”. In molti si chiedono se questo non sia un
controsenso per un’espressione artistica che nasce anche come condanna nei
confronti delle società capitalistiche e del loro sistema basato su interessi
specialmente economici?
“Street art, writing e arte urbana non
nascono per criticare la società capitalista nella maniera più assoluta ma come
battaglia tra gang dei quartieri delle grandi metropoli. Gli stessi writers,
col tempo diventati famosi, hanno iniziato a collaborare con brand come Nike e
Adidas. La street art non nasce come condanna. Banksy è, da un certo punto di
vista, come il padre della street art al quale tutti quelli che fanno street
art devono qualcosa. Lui ha iniziato a illustrare meccanismi sociali
controversi e paradossali ma questo non significa che la street art sia nata
per questo. Si tratta di una corrente di libertà espressiva che viene fatta e
viene creata nell’ambiente urbano ma assolutamente non nasce con lo scopo
di denunciare qualcosa. Detto questo, ci sono ovviamente artisti che
analizzano e rappresentano la società in tutte le sue forme e contraddizioni,
compreso il capitalismo, ma come veniva fatto, con mezzi diversi, nella satira
medioevale censurata dalla Chiesa cattolica, durante la Belle Epoque, la
rivoluzione francese o le guerre mondiali. Vedo la street art come la massima
possibilità di libertà espressiva di un individuo che di conseguenza decide di
esprimere quello che vuole. Ci sono street artist affermati che fanno pura
estetica e che collaborano con brand più o meno famosi, più o meno considerati
capitalisti, altri che hanno collaborato con società energetiche, istituti
bancari, case automobilistiche. Se farlo o meno è a discrezione dell’artista.
La street art in questo momento è una moda, è un qualcosa che può portare soldi
e chi è abituato a speculare cerca di farlo; da qui la necessità di tanti di
istituzionalizzare un’arte nata come libera. Ma più grave di chiudere uno
street artist in una galleria, è chiamare un illustratore che non ha mai
dipinto un muro a farlo, senza considerare che la street art ha un suo passato.
In questo modo attraverso finti festival, finti progetti di riqualificazione e
finta street art, la gente percepisce un qualcosa di snaturato, sfruttato e
spremuto per i soli interessi economici. Questo è il vero danno che sta subendo
la street art”.
Giampiero
Cicciò (L’Eco
del Sud – 10 ottobre 2015)
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