Delle amicizie pericolose di molti esponenti siciliani di Forza Italia. E della strana politica che opera curiose selezioni: non emargina i personaggi anche solo “inopportuni”, ma anzi li promuove. Con gran rabbia delle “toghe rosse”
di Gianni Barbacetto
Quando, lunedì 3 agosto 1998, fu arrestato Giovanni Mauro, presidente della Provincia di Ragusa ed esponente di Forza Italia, Enrico La Loggia, capogruppo di Forza Italia al Senato, subito dichiarato: Attenti a un nuovo caso Musotto. La persecuzione giudiziaria (nemmeno più l’errore giudiziario) e diventata ormai spiegazione esaustiva e giustificazione preventiva di ogni atto della magistratura nei confronti di ogni esponente di Forza Italia, dal suo leader all’ultimo degli aderenti.
Un atteggiamento che ha fatto scuola: tanto che dopo l’arresto di Francesco Schiavone detto Sandokan, boss dei Casalesi, il più ricercato tra i nuovi capi della Camorra campana, la moglie rilasciò ai giornali risentite dichiarazioni secondo cui il marito era vittima di una persecuzione dei comunisti. La signora Sandokan, evidentemente, ha imparato la lezione mediatica e, democraticamente, ha applicato a se lo schema già ampiamente utilizzato in tanti casi da autorevoli esponenti della politica.
Giovanni Mauro, a Ragusa, era stato arrestato con l’accusa di aver riscosso tangenti, in una provincia ad alta densità mafiosa. Il Musotto subito ricordato da La Loggia e, naturalmente, Francesco Musotto, grande avvocato palermitano, presidente della Provincia di Palermo, prestigioso esponente di Forza Italia, clamorosamente arrestato nel novembre 1995, processato per concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolto in primo grado, nell’aprile 1998. Assolto: dunque innocente. E se innocente e Musotto, non può esserlo anche Mauro?
Nel giugno 1998 i magistrati palermitani avevano chiesto l’arresto di un altro esponente di Forza Italia, Gaspare Giudice, deputato in Parlamento, eletto nel 1996 nel collegio di Bagheria con il 54 per cento dei voti. Appena ricevuta la notizia, Silvio Berlusconi aveva regalato ai cronisti una dichiarazione dalla sintassi faticosa: Essendo Giudice vicecoordinatore di Forza Italia in Sicilia e avendo avuto quindi rapporti con l’onorevole Miccichè, non si può neppure immaginare alcun alone di dubbio intorno a lui, perche altrimenti non avrebbe potuto avere quell’incarico.
Giudice, comunque, fu salvato dal voto della Camera, che a sorpresa (contro lo stesso parere gia espresso dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere) non concesse l’autorizzazione alla custodia cautelare in carcere.
Dopo l’arresto di Mauro, Cristina Matranga, esponente anomala di Forza Italia in Sicilia (anomala in quanto poco propensa a unire la sua voce al coro dei compagni di partito sempre all’attacco dei magistrati della Procura di Palermo), chiese pubblicamente a Forza Italia un’operazione di igiene politica. Il clima di quelle settimane sembrerebbe giustificare la richiesta: all’arresto di Giovanni Mauro, alle violente polemiche seguite al voto della Camera su Giudice, si sommavano da una parte il coinvolgimenti in storie di mafia di esponenti minori del partito, dall’altra l’emergere di nuove accuse di contiguità con Cosa nostra rivolte a Marcello Dell’Utri, che di Forza Italia può essere considerato il padre. Eppure a Matranga rispose, autorevolmente, Gianfranco Miccichè, coordinatore siciliano del partito (e dunque diretto superiore di Giudice): Faccia i nomi. Un tuffo nel passato più buio: chiunque abbia conservato un po’ di memoria, ricorderà che questa era la formula magica, ripetuta ossessivamente (Fuori i nomi! Fuori i nomi!), con cui negli anni Ottanta era zittito chi osava anche soltanto porre il problema dei pur evidenti rapporti tra mafia e politica. Faccia i nomi: questa volta i nomi erano già su tutti i giornali; eppure ormai non serve nemmeno più aggiungere la seconda formula magica tanto di moda negli anni Ottanta (Fuori le prove!). Perche lo schema interpretativo dei fatti, imposto con la forza dei media e della ripetizione all’infinito, e quello della persecuzione politica per via giudiziaria: quindi anche le prove sono ormai impotenti. Inutili. Più fatti significa soltanto più persecuzione. Nel momento stesso in cui si portano più elementi d’accusa, si dimostra una più pervicace volontà persecutoria.
I fatti, in verità, non mancano. Il 1 settembre era stato arrestato a Reggio Calabria, con l’accusa di concorso in omicidi di ‘Ndrangheta, Giuseppe Aquila, esponente di Forza Italia ed ex vicepresidente della Provincia di Reggio. E a Roma un parlamentare di Forza Italia era entrato in un’indagine su un traffico di droga. Senza che alcun particolare filtrasse dalle maglie del segreto istruttorio, i magistrati avevano messo sotto osservazione gli incauti rapporti tra un onorevole azzurro e un esponente albanese: i due si sarebbero incontrati a Roma e avrebbero discusso di politica internazionale, a partire dal conflitto in Kosovo tra serbi e indipendentisti albanesi.
Niente di male, se non fosse per il piccolo particolare che l’albanese in questione era in strettissimi rapporti con un compatriota impegnato in grande stile nel narcotraffico. Ormai gli albanesi sono attivi nel commercio di stupefacenti non più solo come gregari, ma anche come protagonisti, e stanno avviando contatti per stringere quei rapporti politici che, sperano, in prospettiva potranno proteggere, consolidare e far crescere i loro affari.
Il caso Musotto, ora che la polemica e svaporata, fornisce molti elementi di riflessione su come Forza Italia gestisca i rapporti tra politica e legalità. La vicenda ebbe il suo avvio l’8 novembre 1995, quando fu arrestato a Palermo Francesco Musotto, esponente di Forza Italia proveniente dalle file del Psi, presidente della Provincia eletto con ben 320 mila voti, massone, avvocato di boss di primo piano in Cosa nostra (Raffaele Ganci, mafioso della famiglia della Noce, quella che sta nel cuore di Riina; i fratelli Graviano, organizzatori delle stragi del 1993; Salvatore Sbeglia, fornitore del telecomando utilizzato per la strage di Capaci; gli uomini del clan Farinella).
Quattro giorni dopo l’arresto, il 12 novembre, Forza Italia organizzo davanti al palazzo di giustizia di Palermo una manifestazione di protesta contro i magistrati della Procura. In prima fila il coordinatore regionale del partito Gianfranco Miccichè e il presidente dei senatori Enrico La Loggia. Il giorno dopo fu la volta degli avvocati: una cinquantina di legali palermitani in toga, guidati dal presidente della Camera penale Nino Mormino, manifestarono davanti al palazzo di giustizia contro Giancarlo Caselli e i suoi sostituti. Musotto, insieme al fratello Cesare, era accusato di aver fornito assistenza ai latitanti di Cosa nostra, di aver passato loro notizie riservate sui provvedimenti giudiziari, di aver dato ospitalità, nel giugno 1993, nella villa di famiglia a Pollina, nei pressi di Cefalù, al più sanguinario dei killer corleonesi, Leoluca Bagarella. A un uomo d’onore che, dopo alcune pubbliche dichiarazioni antimafia di Musotto, metteva in dubbio la sua fedeltà ai corleonesi, Bagarella rispondeva: Che ci vuoi fare? Non vedi che lo attaccano tutti? Iddu cerca di difennisi. L’importanti e ca iddu sia dda (Quello cerca di difendersi. L’importante e che stia lì).
Il processo di primo grado si concluse il 4 aprile 1998, con una assoluzione dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. La sentenza sostiene che Bagarella fu effettivamente ospite di casa Musotto e condanna il fratello Cesare. Ma ritiene che l’accusa non abbia presentato elementi sufficienti a dimostrare che di quell’ospitalità fosse a conoscenza anche Francesco, che dunque fu assolto. Con il vecchio codice, sarebbe stata un’assoluzione per insufficienza di prove. Ma a Forza Italia e sufficiente per scatenare una nuova raffica di attacchi contro Caselli e la sua Procura. Subito dopo l’assoluzione, Musotto, interpellato dai giornali, dichiaro che non aveva intenzione di tornare alla politica. Ma fu Silvio Berlusconi in persona, il 17 aprile 1998, al primo congresso di Forza Italia, a chiamare sul palco Musotto, presentato come una vittima della persecuzione dei giudici e salutato come un eroe dalla platea. Tra gli applausi scroscianti una vera ovazione il leader di Forza Italia lo ricandido a presidente della Provincia. Alleanza Nazionale, pur con qualche isolato mugugno interno, accetto di sostenerlo. E il 25 maggio 1998 Francesco Musotto fu trionfalmente rieletto al primo turno.
Una politica sana, una sana amministrazione avrebbero in ogni paese civile respinto un personaggio che, anche penalmente innocente, aveva dimostrato di non essere sufficientemente lontano dagli ambienti di Cosa nostra. In quale regione d’Italia si sopporterebbe, se non altro per motivi d’opportunità, un presidente con un fratello in galera per mafia? Chi mai avrebbe il coraggio di candidare alla presidenza della regione il fratello di un personaggio condannato per aver ospitato nella villa di famiglia Leoluca Bagarella? Non tutti i fatti hanno rilevanza penale, certo, ma la politica dovrebbe avere sufficiente autonomia di giudizio per soppesare anche gli elementi che non entrerebbero mai in un’aula di tribunale. Un’assoluzione processuale dovrebbe comunque essere condizione necessaria, ma non sufficiente, per entrare nei ranghi della politica. Invece la sentenza, ormai non accettata quando e di colpevolezza, se e d’assoluzione viene sbandierata come un merito, diventa di per se una garanzia di correttezza, perla da inserire in curriculum, senza alcuna memoria per i fatti che stanno dietro la sentenza. Questo sì è giustizialismo: ossia schiacciamento della politica sulle vicende giudiziarie.
Il caso di Gaspare Giudice è, se possibile, ancora più istruttivo. In questa vicenda, gli elementi che l’accusa aveva raccolto a carico dell’esponente di Forza Italia erano tali da far escludere alla giunta parlamentare per le autorizzazioni a procedere che ci fosse fumus persecutionis nei confronti del parlamentare. Perfino il supergarantista Filippo Mancuso, in giunta, non aveva avuto nulla da eccepire contro la richiesta dei magistrati. Secondo l’accusa, Giudice era al diretto servizio della cosca mafiosa di Caccamo, i cui uomini si vantavano di averlo fatto eleggere e gli telefonavano fin dentro il palazzo di Montecitorio per ricordargli la sua dipendenza e per ordinargli che cosa doveva fare: Gasparino, guarda che siamo stati noialtri a metterti li, gli ripetevano. Eppure la Camera dei deputati il 16 luglio 1998 (il giorno dopo la terza condanna penale ricevuta da Silvio Berlusconi) boccio (303 voti a 210, con 13 astenuti) la richiesta d’arresto. Ancor più grave, i deputati sottraggono al giudice elementi di prova: impediscono (287 voti a 239, con 3 astenuti) l’utilizzo processuale dei tabulati Telecom, quelli da cui vengono documentati i rapporti e la dipendenza di Giudice dagli uomini delle cosche. Attorno a Giudice si muovevano personaggi come Nino Mandarà, imprenditore, fondatore del primo club di Forza Italia a Villabate, membro del direttivo provinciale del partito, grande elettore di Giudice. Il figlio di Mandarà, Nicola, nel 1995 era finito in carcere con l’accusa di essere un killer di Cosa nostra. In manette era finito anche un altro sostenitore di Forza Italia, Roberto Campesi, titolare di un negozio di caramelle, che si era fatto consegnare 160 milioni dai figli di un imprenditore arrestato per mafia con la promessa di avviare una campagna televisiva di delegittimazione dei magistrati, sostenuta da Vittorio Sgarbi.
Quante storie di ordinaria politica in terra di mafia. Quanti personaggi, per lo piu provenienti da Dc e Psi, pervengono a nuova vita sotto le bandiere di Forza Italia e si muovono disinvoltamente sul crinale tra istituzioni e criminalità. Giuseppe Cilluffo, per esempio, era presidente del consiglio circoscrizionale del quartiere Brancaccio, a Palermo. Alla nascita di Forza Italia, aveva promosso la fondazione di un club del movimento. Nel 1994 fu arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa, con l’accusa di essere uomo a disposizione dei fratelli Graviano (imputati per le stragi del 1993 e per l’omicidio di padre Puglisi). Al processo di primo grado fu condannato per favoreggiamento. Anche Franco Tusa, imprenditore palermitano nel settore dell’abbigliamento ed ex vicesindaco socialdemocratico di Monreale, nel 1994 si era scoperto una incontenibile passione politica per Forza Italia, tanto da fondare un club a Monreale. I suoi rapporti - con personaggi del calibro di Giuseppe Mandalari, il commercialista di Riina - avevano spinto Miccichè a chiudere il club e troncare ogni collaborazione. Con un arresto (nel luglio 1994) e una condanna per concorso esterno all’associazione mafiosa denominata Cosa nostra, era finita la brevissima avventura politica di Gianni Ienna, noto costruttore palermitano. Il suo hotel San Paolo Palace domina il quartiere di Brancaccio, regno dei fratelli Graviano. Proprio San Paolo era stato chiamato il club di Forza Italia fondato da Ienna e ospitato nei saloni dell’hotel. Mai riconosciuto dal movimento, dichiarerà poi Miccichè. Certo e che, in quei saloni, il 5 febbraio 1994 Forza Italia organizzo la presentazione ufficiale dei candidati siciliani alle elezioni. A Ienna, considerato un manager di Cosa nostra, un grande riciclatore del tesoro mafioso, dopo l’arresto sono stati confiscati beni per 400 miliardi. Il costruttore aveva iniziato a raccontare qualcosa dei segreti di cui e depositario, degli affari delle cosche in Sicilia ma anche al Nord; poi pero ha ritrattato e si e chiuso di nuovo nel suo pesante silenzio.
Più complessa la storia di Ilario Floresta, imprenditore siciliano nel settore della telefonia, anch’egli sceso in campo nel 1994, sotto le bandiere di Forza Italia. Le aziende di sua proprietà o del suo giro (la Fintel di Palermo, la Itel di San Gregorio di Catania, la Siet di Bari, la Giesse di Mirandola in provincia di Modena...) hanno anche ottenuto nel corso degli anni ricchi subappalti dalle imprese telefoniche di Stato. Quando Floresta si butto nell’avventura politica, Forza Italia lo candido alla Camera nel collegio di Giarre, dove fu eletto con oltre 33 mila preferenze. Una dote di voti che gli servi ad arrivare fino alla poltrona di sottosegretario al Bilancio nel governo Berlusconi. Ma gli investigatori della Dia (la Direzione investigativa antimafia), analizzando i tabulati telefonici dei cellulari usati dagli uomini d’onore entrati in azione per uccidere Giovanni Falcone, avevano scoperto che Gioacchino La Barbera, uno dei componenti il commando che esegui strage di Capaci, nei giorni precedenti e seguenti la strage aveva comunicato anche con cellulari intestati alla Fintel. Su Floresta erano scattate le indagini. Con chi parlava La Barbera? E soprattutto, quali erano i contenuti delle conversazioni? Una risposta fu fornita da La Barbera stesso, che dopo essere stato arrestato aveva scelto di diventare collaboratore processuale: erano telefonate di lavoro, spiego La Barbera ai magistrati palermitani, perche la sua azienda di movimento terra e trasporti (la Impedil Scavi) lavorava per la Fintel di Palermo. Ma dunque un’azienda di Floresta, o comunque considerata dagli investigatori nel suo giro d’affari, dava subappalti all’impresa di un uomo d’onore di alta caratura come Gioacchino La Barbera. Nessun rilievo penale, naturalmente. Floresta, del resto, ha sempre sostenuto non solo di non conoscere La Barbera, ma anche di non avere piu il controllo diretto della Fintel dal 1987. Chiusa questa partita palermitana, per Floresta si apri un nuovo capitolo: la procura distrettuale antimafia di Catania avvio un’indagine su di lui in seguito alle dichiarazioni di un mafioso diventato collaboratore processuale, Giuseppe Scavo, il quale ha affermato di aver visto Floresta negli uffici dell’autoparco di Sebastiano Sciuto, uomo d’onore calabrese del clan Ercolano, poi arrestato in seguito all’operazione Orsa Maggiore. Le affermazioni di Scavo sono rimaste pero senza conferme e riscontri, cosi la procura ha chiesto l’archiviazione del caso.
Non ha ancora una lettura univoca neppure la vicenda che ha per protagonista Antonio D’Ali, 46 anni, senatore eletto a Trapani nelle liste di Forza Italia. Nel 1994 raccolse 52 mila voti. Alle ultime elezioni, ripresentato da Forza Italia, ha superato se stesso, aggiudicandosi 5 mila voti in più e con cio conquistando la maggioranza assoluta dei suffragi nel suo collegio: 51,4 per cento. Ha ottenuto un incarico parlamentare di un certo rilievo, vicepresidente della commissione Finanze, e per un breve periodo e stato il responsabile economico di Forza Italia. La famiglia D’Ali Stati e una delle più potenti, facoltose e riverite del Trapanese. Le immense tenute agricole, le saline tra Trapani e Marsala, le molte proprietà e (fino al 1991) la quota di controllo della Banca Sicula costituivano l’impero governato con autorità da Antonio D’Ali senior, classe 1919, che fu direttamente amministratore delegato della banca di famiglia fino al 1983, anno in cui fu coinvolto nello scandalo P2 (il suo nome era nelle liste di Gelli) e preferì passare la mano al nipote Antonio junior, quello che dal ‘94 siede in Senato. La Banca Sicula era uno dei più importanti istituti di credito siciliani per numero di sportelli e per mezzi amministrati. All’inizio degli anni Novanta la banca trapanese, già corteggiata anche dall’Ambroveneto di Giovanni Bazoli, fu acquistata e incorporata dalla Banca Commerciale Italiana, alla ricerca di un partner per superare la sua storica debolezza in Sicilia. In seguito all’operazione, Giacomo D’Ali, professore associato di Fisica, figlio di Antonio senior e cugino di Antonio junior il senatore, e entrato a far parte del consiglio d’amministrazione della Banca Commerciale.
Dava lavoro a tanti, la famiglia D’Ali. Come campieri ha avuto membri delle famiglie mafiose dei Minore e dei Messina Denaro. Francesco Messina Denaro, il vecchio capomafia di Trapani, fu per una vita fattore dei D’Ali, prima di passare la mano - come boss e come fattore - al figlio Matteo Messina Denaro, classe 1962, oggi considerato il più fedele alleato dei Corleonesi, uno dei capi più potenti (e ricercati) della nuova mafia siciliana, protagonista della strategia corleonese delle stragi. A riprova dei rapporti tra la famiglia D’Ali e il boss, il vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia Nichi Vendola nel 1998 esibì i documenti che provano il pagamento a Matteo Messina Denaro, ufficialmente agricoltore, di 4 milioni ricevuti nel 1991 dall’Inps come indennità di disoccupazione. A pagargli i contributi era Pietro D’Ali, fratello di Antonio il senatore e di un Giacomo D’Ali che, negli anni Settanta, era stato attivista di un gruppo neofascista siciliano (A proposito: ancora tutti da approfondire sono i rapporti intercorsi in Italia tra mafia, eversione nera e apparati dello Stato).
Francesco Geraci, gioielliere di Castelvetrano, gran fornitore di preziosi alla famiglia di Toto Riina, ha raccontato di compravendite di terreni in cui i D’Ali e i Messina Denaro avevano ruoli non facilmente distinguibili. Fatto sta che l’immensa tenuta di Contrada Zangara, a Castelvetrano, un tempo dei D’Ali, e passata ai Messina Denaro (ma non risulta che sia stato pagato un prezzo) e oggi e stata confiscata come proprietà di Toto Riina, di cui Matteo Messina Denaro e risultato prestanome. Complicati e poco trasparenti, questi passaggi di proprietà: i D’Ali sono vittime di estorsione o complici dei Messina Denaro? E se sono vittime, perche non hanno mai denunciato l’estorsione? Anche la Banca Sicula, prima di rigenerarsi dietro le rispettabilissime insegne della Banca Commerciale Italiana, era stata oggetto di un allarmato rapporto di un commissario di polizia, Calogero Germana, che poi, trasferito a Mazara, aveva subito un attentato da parte di Leoluca Bagarella in persona. Il rapporto ipotizzava che l’istituto di credito fosse uno strumento di riciclaggio di Cosa nostra. E sottolineava il fatto che come presidente del collegio dei sindaci della banca fosse stato chiamato Giuseppe Provenzano, il futuro deputato di Forza Italia e presidente della Regione Sicilia, già commercialista della famiglia Provenzano (l’altra, quella dell’attuale numero uno di Cosa nostra).
L’acquisto della Banca Sicula da parte della Commerciale, come altre operazioni simili realizzate con altri piccoli istituti di credito del Sud, fu seguito con favore dalla Banca d’Italia, che voleva favorire, piu in generale, un’uscita indolore da situazioni a rischio, oltre che d’infiltrazioni mafiose, anche di bancarotta (per gestioni discutibili del credito, molto probabilmente dovute anche alle pressioni criminali). Prima dell’incorporazione, la Banca Sicula aveva realizzato un aumento di capitale di 30 miliardi. Da dove erano arrivati? Chi aveva finanziato la ricapitalizzazione? Le domande, riproposte nel 1998 da Vendola in un rapporto inviato alla Vigilanza della Banca d’Italia, sembrano destinate a rimanere senza risposta, mentre i fantasmi del passato sono sepolti per sempre sotto le autorevoli insegne della Banca Commerciale.
Giuseppe Provenzano, intanto, si e prudentemente dimesso da presidente della Regione. Per lotte interne a Forza Italia, più che per le interminabili polemiche sui suoi rapporti con Provenzano (quell’altro). Docente di tecnica bancaria all’università di Palermo, Giuseppe Provenzano e un professore stimato e un professionista di successo, tanto da aver ricevuto dalla Banca d’Italia l’incarico di commissario straordinario della Banca Don Bosco di San Cataldo, un piccolo istituto di credito siciliano usato da Cosa nostra per riciclare denaro: l’intero consiglio d’amministrazione era finito in carcere. Ma nel 1984 le parti si invertirono, fu Provenzano a essere accusato di contiguità con la mafia: Giovanni Falcone lo fece incarcerare come consulente finanziario della famiglia Provenzano. Ma non si trovarono le prove che la sua fosse una complicità cosciente. Le accuse caddero e col tempo fu dimenticata anche la macchia di aver avuto tra i suoi clienti una presenza imbarazzante: la moglie di Bernardo Provenzano.
Di rapporti con uomini della criminalità organizzata si e parlato anche a proposito di due collaboratori di Berlusconi, Romano Comincioli e Massimo Maria Berruti. Il primo, compagno di scuola e poi manager e prestanome di Berlusconi, era in contatto con Gaspare Gambino, imprenditore siciliano vicino a Pippo Calò, il cosiddetto cassiere romano di Cosa nostra. Attraverso Comincioli, la Fininvest realizzo affari con il faccendiere sardo Flavio Carboni. Cambiali con girata di Comincioli passarono a uomini della Banda della Magliana per poi finire nelle mani di Pippo Calò. Berruti, ex ufficiale della Guardia di finanza già processato per corruzione ancora prima di Mani pulite e poi prontamente arruolato nella squadra Fininvest, e diventato avvocato del gruppo, per il quale ha trattato, fra l’altro, l’acquisto del calciatore Gigi Lentini (poi oggetto di un processo). Nel gennaio 19i94 Berlusconi gli affido l’organizzazione della campagna elettorale di Forza Italia a Sciacca e nella provincia d’Agrigento. Con buoni risultati, tra i quali il coinvolgimento di Salvatore Bono (cognato del boss dell’Agrigentino Salvatore Di Gangi) e di Salvatore Monteleone, arrestato nel 1993 per concorso in associazione a delinquere di stampo mafioso e appena uscito dal carcere diventato referente di Forza Italia a Montevago. Per i suoi servizi, Berruti e stato premiato con un posto in Parlamento. Con il Berruti avvocato e poi politico, convive il Berruti uomo d’affari: in Sicilia possedeva una società, la Xacplast, che un rapporto dei carabinieri indicava come partecipata da uomini d’onore delle famiglie mafiose di Sciacca.
Che conclusioni (provvisorie) trarre, dalle storie di ordinaria compromissione fin qui ricordate? L’interpretazione corrente dentro Forza Italia e che le innumerevoli indagini contro esponenti di quel partito siano, semplicemente, frutto di una persecuzione: lotta politica per via giudiziaria; procuratori della Repubblica e loro sostituti braccio armato della sinistra. Le molte inchieste che prendono di mira personaggi interni o vicini a Forza Italia sono spiegate con una pervicace volontà di indebolire, fino a liquidare, una forza politica vissuta come avversaria. Le motivazioni di tale avversità? La diversa collocazione politica (a sinistra) di tanti magistrati, specialmente d’accusa (apostrofati dunque toghe rosse o, con un salto di livello, appartenenti a un circuito di Procure rosse); ma i meno rozzi tra i sostenitori di Forza Italia tentano spiegazioni che vorrebbero essere più sofisticate, sostenendo che molti magistrati si sentirebbero investiti di una sorta di missione morale che li obbliga a scendere in guerra - una guerra mortale - come esponenti del Bene contro il Male. Nello scontro, psicologico prima che giudiziario, tra la Legge e il Crimine, il sacro fuoco manicheo che li anima li induce a individuare un Nemico da sconfiggere (Cosa nostra, ma anche Forza Italia, per teorema nuovo referente della criminalità organizzata).
Questa interpretazione e, a sua volta, un teorema. Assume che i magistrati non badino tanto, laicamente, ai fatti, alle prove, alle evidenze processuali, quanto alla spinta religiosa (non a caso sono spesso apostrofati come cattocomunisti) che li indurrebbe a condannare prima dei fatti, ad avere certezze prima delle prove. I più spregiudicati tra i nemici delle Procure, comunque, si sono già spinti oltre quest’orizzonte: elevando un vero e proprio elogio dei mascalzoni. Da Giuliano Ferrara (Mi sono simpatiche le carogne, sono più umane dei feroci moralisti) a Ruggero Guarini (Adoro quel furfante dell’avvocato Previti). Fino a Sergio Romano, citato dal Foglio, che riprende la settecentesca Favola delle api di Bernard de Mandeville, in cui una citta sregolata, corrotta e criminale produce, alla faccia dei moralisti, ricchezza e sviluppo. Sulle singole vicende, le risposte sono più puntuali. I più compromessi tra i personaggi qui ricordati (Mandarà, Campesi, Cilluffo, Tusa fra i minori; Mandalari, Ienna, tra i maggiori) non sono difesi, anzi esponenti di rilievo del movimento berlusconiano in Sicilia tendono da una parte a minimizzare il loro ruolo in Forza Italia, dall’altra a sottolineare che il partito ha subito la loro presenza, addirittura emerginandoli (Micciche non volle riconoscere i club fondati da Ienna e da Tusa; e impedi a Mandalari di prendere la parola, il 16 marzo 1994, alla festa per il successo elettorale di Forza Italia).
La difesa, stretta e totale, scatta invece a proposito di personaggi come Musotto, Floresta, D’Ali, Provenzano. Non vi sono evidenze penali nei loro confronti (o almeno non sono ancora state accettate da un tribunale): dunque sono da considerare - con un criterio pan-penale, giustizialista - vittime di un attacco, di una persecuzione. La sconvenienza politica di determinati comportamenti non e rilevata, non e sentita l’inopportunità di fare politica avendo avuto (o mantenendo) determinate relazioni o contiguità o compromessi. Cosi si perpetua un costume della politica italiana che e uno dei punti di forza della criminalita organizzata: la tolleranza nei confronti di un’area grigia che nella politica e negli affari può diventare, via via, inerte, contigua, complice. Senza punti di riferimento fuori dalle organizzazioni criminali, nella politica, negli affari, nella societa civile - dunque senza concorso esterno - le organizzazioni criminali sono semplici bande di fuorilegge. Con quei punti di riferimento diventano organizzazioni mafiose.
Anomale e isolate, invece, apparivano le valutazioni di Cristina Matranga, che continuava a difendere l’operato di Caselli e dei magistrati siciliani. Matranga - fiera di essere stata eletta, con le sue dichiarazioni pro-magistrati, in un collegio palermitano che comprende quartieri a forte presenza mafiosa come l’Uditore, la Noce, la Zisa - confermava di aver chiesto al suo partito un’operazione di igiene politica: «Dobbiamo aprire un approfondito dibattito interno, non pubblico, sulla nostra organizzazione. Non possiamo permetterci di attaccare in maniera cosi violenta i magistrati che sono in trincea contro la mafia. Sicuramente abbiamo commesso degli errori: vi sono infiltrazioni dentro Forza Italia (come anche dentro gli altri partiti: ma io sono di Forza Italia, e devo considerare il mio partito)». Matranga dichiarò, nel 1998: «Ora non mi sento più isolata: prima dell’estate ho incontrato Berlusconi e gli ho detto che mi pareva di essere un pesce fuor d’acqua per gli argomenti che sostenevo. Berlusconi mi ha risposto: “Li condivido e ti sono accanto”». Ma evidentemente la sua lotta antimafia, alla fine, non è piaciuta al partito: Silvio Berlusconi l'ha estromessa dalle liste elettorali per le politiche del 2001, quelle liste in cui avevano trovato posto invece Marcello Dell'Utri e Cesare Previti...
Anche a Catania due esponenti di Forza Italia, l’avvocato Antonio Fiumefreddo e l’eurodeputato Umberto Scapagnini, hanno lanciato pressanti appelli alla pulizia interna al partito. Fiumefreddo, avvocato ed ex responsabile provinciale di Forza Italia per gli enti locali, invio anche alcune lettere a Miccichè, denunciando nomi, situazioni e fatti specifici, e chiedendogli un intervento urgente contro le infiltrazioni mafiose nel partito2. Le lettere a Miccichè e tutto il materiale raccolto da Fiumefreddo sono finiti anche a Palermo, sul tavolo di un magistrato della procura. Isolato nel partito e rimasto senza alcuna risposta da Miccichè, Fiumefreddo nel maggio 1996 decise di dare e dimissioni da Forza Italia.
Nella geografia politico-criminale italiana, comunque, non c’e solo la Sicilia. Al di la dello stretto, Amedeo Matacena junior, figlio del patriarca di Reggio Calabria, il padrone dei traghetti Caronte che fanno la spola tra Calabria e Sicilia, parlamentare di Forza Italia e condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa: riconosciuto colpevole, in buona sostanza, per essere diventato negli ultimi anni il nuovo politico di riferimento della ‘Ndrangheta calabrese.
Dal suo seggio alla Camera, Matacena non aveva perso occasione per scagliarsi contro il colonialismo giudiziario dei magistrati di Reggio (in testa a tutti, il procuratore aggiunto Salvatore Boemi) che per fare carriera hanno preso a perseguitare una schiera di calabresi per bene.
Sul campo, Matacena e stato sostenuto da Giuseppe Aquila, ex barista sui traghetti di famiglia, poi fulminato dalla passione politica, sceso in campo con Forza Italia e dal 1997 vicepresidente della Provincia di Reggio Calabria. Il 1 settembre 1998 Aquila e stato arrestato, con l’accusa di concorso in omicidio: nel 1991, nel corso della guerra di mafia a Reggio, avrebbe sostenuto le famiglie di uno dei due fronti in lotta a colpi di kalashnikov. Escluso dalle liste elettorali delle politiche 2001, Matacena non ha mancato di far arrivare a Berlusconi e Dell'Utri pesanti avvertimenti. Chissà come andrà a finire...
Più d’una amministrazione locale gestita da Forza Italia e dai suoi alleati e risultata a rischio d’inquinamento mafioso. A Castel Volturno, per esempio, in provincia di Caserta, terra di conquista del clan dei Casalesi di Sandokan Schiavone, il 1 agosto 1998 piombo sul municipio il fulmine di un decreto prefettizio che sospese sindaco e Consiglio comunale per sospette infiltrazioni camorristiche. Primo cittadino di Castel Volturno era Antonio Scalzone, di Forza Italia. Un paio di settimane prima del decreto, una bomba incendiaria era piovuta come un minaccioso avvertimento sulla saracinesca del negozio di alimentari gestito dalla sorella del sindaco. A inizio 1999 sono 18 i Comuni commissariati per inquinamento mafioso (dieci in Campania, tre in Sicilia, cinque in Calabria). Nella maggioranza dei casi, al momento dello scioglimento erano retti da liste di destra o da liste civiche locali.
Ma le relazioni pericolose degli uomini di Forza Italia non sono un’esclusiva della Sicilia o del Sud. A Milano, il coordinatore provinciale dei club di Forza Italia ha dovuto ammettere di essere amico di uno dei più temibili boss della ‘Ndrangheta calabrese al Nord. Donato Giordano, politico di lungo corso, e stato per anni il socialista più votato alle elezioni amministrative di Bresso, paesone al confine nord di Milano. Più volte assessore, vicesindaco di Bresso dal 1991 al 1994, dopo l’implosione del partito di Craxi si era trasferito armi e bagagli nelle schiere di Berlusconi, che gli aveva affidato l’incarico di responsabile della segreteria regionale di Forza Italia e poi del cinamento provinciale. Eletto consigliere regionale nell’aprile 1995, il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni lo aveva chiamato a diventare assessore agli Affari generali nella sua giunta. Giordano nei primi anni Novanta ha dovuto spiegare al magistrato antimafia Armando Spataro come mai fosse socio di un’azienda, la Pie, di cui era socio anche Michele Lombardi, braccio destro del boss della ‘Ndrangheta Pepe Flachi, anch’egli amico del futuro assessore regionale. Ma si, si e difeso Giordano, Flachi io l’ho conosciuto vent’anni fa in un bar di Affori e non sapevo che fosse un delinquente. La mafia intacca la macchina amministrativa? Ma via, non scherziamo...
Gianni Barbacetto ("La memoria della storia" - http://www.societacivile.it)
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