Il Pil nulla ci dice di come effettivamente viva la gente. Per capirlo serve di più: un mix di economia, sondaggi e altri dati per misurare la gioia e il benessere.
Sei felice? Domanda impegnativa, a cui, probabilmente, verrebbe da rispondere "sì" solo un paio di volte nella vita, in momenti di particolare esaltazione. Eppure, è su domande come questa che la "scienza triste", come gli anglosassoni chiamano l'economia, lavora per uscire dalla prigione che lei stessa si è creata: la prigione del Pil. Dagli anni '30 del secolo scorso, i numeri del prodotto interno lordo sono diventati l'indicatore principe, a volte esclusivo, dello stato di un paese e del benessere dei suoi abitanti. Sommando la quantità e il valore dei beni e dei servizi prodotti in un paese (o, viceversa, i redditi dei suoi abitanti), il Pil è, in effetti, un efficiente termometro dello stato di un'economia. Un solo, magico, numero, che riassume milioni di numeri e che consente di fare paragoni e confronti fra diversi paesi e diversi periodi, di misurare ritmo e entità dello sviluppo. Il problema è che il prodotto interno lordo nulla ci dice di come effettivamente viva la gente, per non dire della sua felicità.
Non ci dice neanche - da solo - se è aumentato perché i ricchi sono diventati più ricchi o i poveri meno poveri. Il presidente francese, Sarkozy, ne ha fatto un motivo di campagna contro la "tirannia" del Pil, probabilmente nella convinzione (in larga misura, peraltro, errata) che indicatori diversi consentirebbero alla sua Francia di risalire nelle classifiche mondiali. Sarkozy, tuttavia, ha buone ragioni dalla sua parte: la Corea del Sud, dal 1960, ha aumentato di 200 volte il prodotto interno lordo, ma questo non ha impedito al tasso di suicidi di raddoppiare. Il Pil, insomma, fornisce un'immagine parziale e deformata di una società. Ce lo diceva già, quarant'anni fa, l'indimenticato Robert Kennedy: "Il Pil misura tutto, tranne le cose per cui vale la pena vivere". Il paradosso del Pil è nella sua natura, indifferente al contenuto: raddoppiate il numero di testate atomiche, di anidride carbonica sputata nell'atmosfera, di bare per un'epidemia e il prodotto interno lordo sale di conseguenza.
Siamo felici, dunque? In effetti, più di quanto si direbbe a prima vista. Nei sondaggi mondiali, in media una persona ogni 6-7 dichiara di essere al "massimo livello di felicità", concetto relativo, ma pur sempre significativo. Lavorando su questi dati, l'economista Ruut Veerhoven, dell'università di Rotterdam, aggiorna costantemente il suo "Database mondiale della felicità". Da buon economista, Veerhoven non si accontenta del dato grezzo, ma lo seziona e lo manipola per spremerne il massimo. Abbiamo, dunque, un primo indicatore, che ci dà la felicità media di una popolazione (su una scala da 0 a 10). Su 142 paesi, 'Italia è al posto 40, la Francia al 44, gli Usa al 20. Ma la felicità conta quando dura e Veerhoven ci fornisce anche la classifica degli "Anni di vita felice", ottenuta moltiplicando il livello di felicità per gli anni di aspettativa di vita. Negli Usa sono 58, in Italia 54, in Francia 52. La felicità media, naturalmente, non è uguale per tutti e Veerhoven registra le differenze all'interno delle singole popolazioni. Il paese in cui la felicità è distribuita più equamente è l'Olanda. Gli Usa sono al posto 26, l'Italia al 32, la Francia al 74, a metà classifica. L'ultimo indicatore non può dunque che essere la felicità, ponderata per l'ineguaglianza. I paesi che meglio combinano livello di felicità e sua distribuzione sono il Costarica e la Danimarca. Gli Usa fanno meglio dell'Italia, che fa meglio della Francia.
La felicità, peraltro, è un concetto sfuggente e ancor più lo è la percezione della propria felicità. Se quello che vogliamo misurare non è la potenza di fuoco di un'economia, ma il progresso umano e civile, oltre che economico, di una società, i sondaggi non bastano. Ha detto Enrico Giovannini, oggi presidente dell'Istat: "Reddito, ma anche lavoro, inflazione, eguaglianza economica e sociale, tempo per le relazioni umane. Molti parametri contribuiscono alla felicità, intesa non come uno stato, un fatto strettamente personale, ma una categoria più ampia di benessere, che vada oltre la mera misurazione del reddito".
E qui le cose si complicano. Negli ultimi anni, organizzazioni internazionali, come l'Ocse e la World Bank, sofisticati think tank hanno moltiplicato i convegni volti a individuare indicatori che misurino il progresso, anziché solo lo sviluppo. Si parla di "Felicità nazionale lorda", di "felicità economicamente sostenibile". C'è anche una nuova scienza apposita: la "sociestica" (o comunque vogliate tradurre il francese "sociestique"). Dietro questo spostamento di fuoco ci sono grandi trasformazioni mondiali, come la relativa diffusione dello sviluppo, che l'ha reso una necessità meno urgente e imperativa. E anche fenomeni sociali, come l'ubiqua ombra dei baby boomers. Dice Yoshizoe Yazuto, capo dell'Istat giapponese: "Con i baby boomers in pensione, le attività non economiche - come i divertimenti e il volontariato - diventeranno sempre più importanti". Festival e occasioni di impegno sociale diventeranno leve di benessere.
A questo punto, però, per orientarsi e individuare un indicatore di felicità che assorba il Pil, e cioè lo sviluppo economico, senza perderlo del tutto di vista, servirebbero Aristotele o Kant, o almeno Jeremy Bentham, piuttosto che Keynes o Malthus. Perché gli economisti ragionano sull´astratta razionalità umana, ma l'"homo oeconomicus" non è l'uomo felice. Due ricercatori del Mit, Abhijit Banerjee e Esther Duflo hanno dimostrato che, spesso, i poveri non compiono scelte economicamente razionali (tipo un nuovo fertilizzante) perché temono che possano cambiare il loro stile di vita. Ovvero, i soldi non fanno la felicità.
Non è il solo luogo comune, vecchio proverbio, finale di vecchio film americano, in cui ci si imbatte. Leonardo Bechetti, dell'Università di Roma, spiega che il divario di reddito fra Nord e Sud, in Italia, non si replica in un divario di felicità. Del resto, nei paesi ricchi, il 15,84 per cento di chi risponde ai sondaggi dichiara di avere "il massimo livello di felicità". Ma nei paesi meno ricchi la percentuale è poco distante: il 13,47 per cento. Ovvero, i soldi non sono tutto. Ancora, sempre secondo Bechetti, "le classi di reddito più alte dedicano molto meno tempo alle relazioni interpersonali, con effetti negativi sulla felicità individuale". Ovvero, i soldi non comprano gli amici. Questo, naturalmente, dimostra solo che i vecchi proverbi e i film di Frank Capra sono veri. Ma come uscirne con qualcosa che ci dica non solo che abbiamo più soldi, ma che viviamo meglio?
Il regno del Bhutan, sull'Himalaya, è l'unico paese in cui si calcola regolarmente l'Indice nazionale lordo di felicità. La Fnl, felicità nazionale lorda, è come il Pil, un numero unico. E' basato sul calcolo di indicatori sia oggettivi che soggettivi, dato che, in base ai principi buddisti, fra le due categorie non c'è differenza. In termini semplici, significa che, se si costruisce un ospedale, si misura anche la percezione psicologica che ne hanno gli utenti. Se non aumenta o non diminuisce il loro benessere, non conta. Finora, nessuno ha seguito l'esempio del Bhutan.
Ma un tentativo ambizioso e robusto di misurare non la felicità e neanche il progresso, ma lo "sviluppo umano" è stato concepito, senza scomodare il buddhismo, poco lontano. E' l'Indice di sviluppo umano dell'Onu e uno dei padri è l'indiano Amartya Sen. L'indice di sviluppo umano combina sostanzialmente tre fattori: l'aspettativa di vita, l'alfabetizzazione degli adulti e il tasso di scolarizzazione dei giovani, il Pil pro capite, a parità di potere d'acquisto. Sen non ne era troppo soddisfatto, lo trovava semplicistico. Ma è un numero che cattura molte cose. L'Onu lo pubblica ogni anno. Nell'ultimo, dell'ottobre 2009, ai primi due posti dello sviluppo umano ci sono Norvegia e Australia. La Francia è ottava. Gli Usa tredicesimi. L'Italia diciottesima.
MAURIZIO RICCI (La Repubblica 14 gennaio 2010)
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