La mattina del 23 febbraio 1993, Arnaldo Forlani aveva i nervi a fior di pelle. Si sentiva il mondo contro. l'ex segretario della Dc. Dopo aver messo al tappeto Bettino Craxi, il ciclone di Mani Pulite sembrava addensarsi su di lui. Un inquisito lo aveva tirato in ballo. E il suo addetto stampa, Enzo Carra, era stato arrestato per falsa testimonianza. Adesso, il povero Enzo stava rinchiuso a San Vittore in attesa del processo. Come poteva non alzarsi dal letto nervoso il pur compassato Coniglio Mannaro? Così, quando a Montecitorio s'imbatté in Augusto Minzolini, valente cronista parlamentare in forza alla Stampa diretta da Ezio Mauro, Forlani non ci pensò due volte a sfogarsi con lui. E, tra le tante cose, gli disse: Si è creata un'atmosfera irrespirabile in cui la giustizia non c'entra per niente. E come la calata dei barbari che non risparmia nessuno . Il 24 febbraio La Stampa presentò l'intervista di Forlani con il titolo: Sì, arrivano i barbari . L'occhiello spiegava di quali barbari si trattasse: Dopo l'arresto di Carra, l'ex segretario attacca i giudici . Lo stesso giorno, però, Forlani ripudiò le parole offerte a Minzolini negli ambulacri della Camera. L'annuncio del ripudio comparve sul quotidiano della Dc, Il Popolo, la mattina del 25 febbraio. Il titolo strillava: Tangentopoli barbara? Forlani smentisce l'intervista sulla Stampa . Ma quell'immagine forlaniana ( i barbari ) era troppo nuova e troppo forte per essere seppellita nella fossa comune del non detto. E anche per essere destinata a un utilizzo un po' misero, anzi, un po' miserando: quello di dipingere soltanto l'incalzare inquisitorio del dottor Antonio Di Pietro e degli altri magistrati della procura della repubblica di Milano. E difatti la sorte, nelle vesti di un giornalista intelligente, s'incaricò di salvarla. Accadde due giorni dopo, il 27 febbraio, quando, sempre sulla Stampa, comparve un bell'articolo di Pierluigi Battista, intitolato: Nuovi barbari, aiutateci voi . Qui entrava in scena un personaggio terribilmente diverso da Forlani e che aveva già fatto parlare di sé: il professor Gianfranco Miglio, senatore della Lega Nord, di solito definito da noi cronisti sbrigativi l'ideologo di Bossi . Colto e astuto, Miglio s'impossessò alla brava di quel barbari che Forlani aveva coniato per i magistrati di Mani Pulite. E ne rovesciò il senso e il segno: da immagine negativa, accusatoria, in immagine positiva, di vittoria. Miglio proclamò: i veri barbari siamo noi della Lega. Poi tracciò due arditi paralleli storici. La fine del regime tra le rovine di Tangentopoli venne paragonata al tramonto del mondo classico. E il ceto politico della Prima Repubblica a quell'immenso strato di parassiti che avevano tentato d'abbarbicarsi ai resti dell'impero romano, mentre i barbari civilizzatori si preparavano a spazzare via tutto senza pietà. Spiegò Miglio: Solo grazie ai barbari abbiamo conosciuto la civiltà industriale moderna. Fosse stato per i difensori della classicità, l'Europa non avrebbe saputo riprendersi da un declino inesorabile e devastante , infine, con un'acrobatica virata sull'Italia di oggi e sulla Lega, il senatore concluse: Prima l'Impero Romano. Poi il mondo comunista. Adesso è il nostro turno: non resta che sperare nei barbari! Insomma, viva i barbari della Lega! Fu questo che ci invitò a gridare Miglio, nel febbraio 1993. Da allora, molti italiani hanno accolto il suo invito. Tanti lo hanno fatto votando leghista. Tanti altri dicendo e scrivendo: viva i barbari di Bossi! E anche: grazie, barbari! Lo stesso Umberto Bossi si è invaghito di quest'immagine. E nel luglio 1993 ha detto a Roberto Di Caro, dell'Espresso: Io vengo dalla gavetta. Io sono un uomo della strada. Io viaggio a cavallo come i miei avi, con la carne cruda tra il sedere e il cavallo. Certo, mi sento un barbaro. Ma non ho nessuna intenzione di fare la fine di Paolo Diacono che cantava le gesta dei suoi avi longobardi per tacere della sconfitta subita da parte dei bizantini. Noi siamo barbari che devono diventare generali dell'esercito bizantino. Traduco così: siamo barbari che debbono vincere e conquistare Roma. Ma esistono anche molti italiani che non amano i barbari, né quelli vecchi né quelli nuovi. E che non hanno nessuna intenzione di gridare evviva o di dire grazie. Tra questi italiani ci sono anch'io. Penso che l'orrore per i vecchi barbari (ossia le mummie del partitismo morente, mummie che ancora ingombrano il campo e ne stanno facendo di ogni colore pur di conservare un po' di potere) non debba farci accettare alla cieca quello che ci propongono i nuovi barbari della Lega. Penso che la voglia sacrosanta di liberarci delle mummie partitiche non ci obblighi a buttarci nelle braccia di Bossi. Penso, infine, che quanto è accaduto in questo anno dei barbari debba consigliare una via d'uscita diversa per la crisi italiana: rifiutare il vecchio che ancora ci opprime senza arrendersi al nuovo Alberto da Giusano che si staglia sull'orizzonte E un Frankenstein moderno, questo fantasma ripescato dalla storia e riciclato nella parte ambigua e allarmante di Salvatore della Patria. Un guerriero che, chissà perché, mi ricorda troppo un altro combattente in corazza e spadone: il Ghino di Tacco che ci aveva ossessionato negli ultimi anni dell'impero craxiano. E chiaro, a questo punto, come la penso? Proprio così: non voglio cascare dalla padella nella brace. E soprattutto non voglio che la repulsione per la padella del partitismo, e la rabbia e lo schifo per quanto si va scoprendo raschiandone il fondo, faccia sembrare accettabile a troppi di noi la brace leghista. E un rischio grave. Si sta male sulla brace. La brace è la madre del fuoco. E i fuochi non mi piacciono. Specialmente quando ci vengono proposti come l'unico mezzo per far piazza pulita di qualcuno o di qualcosa. E poi i fuochi, spesso, sono difficili da controllare. Possono nascerne roghi che distruggono tutto. Per lasciare intatto, soltanto, il nuovo dominio dei nuovi barbari. Al fine di rendere esplicito questo rischio, ho provato a raccontare come vecchi e nuovi barbari si siano presentati sulla scena in quest'anno cruciale per l'Italia. Spesso intrecciandosi e con somiglianze inquietanti. Nel senso che qualcosa delle vecchie mummie sembra essersi trasferito nel barbarismo leghista. Mi sembra di intuirlo da certe arroganze senza motivo che gonfiano i muscoli della Lega. Dalla voglia dichiarata di prendersi tutto il potere politico. Da un'aggressività verbale che non conosce limiti né di circostanze né di luoghi. Da una sprezzante pulsione punitiva nei confronti degli avversari sconfitti E, soprattutto, dall'intenzione che più mi fa rabbrividire: quella di restare da soli sulla piazza politica. Ha detto, nel luglio 1993, Roberto Maroni, deputato di Varese e capo del gruppo leghista alla Camera: La Lega sarà un partito che sostituirà, via via, centro, destra e sinistra. Quando e dove l'abbiamo già sentito un programmino così totalitario, persino grottesco nella sua sfrontatezza? Io lo so. Ma lo sapete di certo anche voi. Questo racconto del barbarismo vecchio e nuovo ho voluto scriverlo seguendo la pista di un mio diario. L'ho definito un diario cattivo nel senso di schietto, candido, fuori dai denti. Devo aggiungere che è anche un diario allarmato, però non privo di speranza. Del resto, in questi tempi da bruciastomaco, zeppi di rospi difficili da ingoiare, scrivere un racconto politico dove i rospi, perlomeno, vengono indicati per nome e cognome e messi alla berlina, è già di per sé un gesto di grande, forte, allegra speranza.
Giampaolo Pansa. (L'anno dei barbari...)
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