Scrivere, in questi anni, mi ha dato la possibilità di esistere. Articoli e reportage. Racconti e editoriali. Un lavoro che per me non è stato semplicemente un lavoro. Ha coinciso con la mia vita stessa. Se qualcuno ha sperato che vivere in una situazione difficilissima potesse indurmi a nascondere le mie parole, ha sbagliato. Non le ho nascoste, non le ho perdute. Ma questo ha coinciso anche con una lotta, una lotta quotidiana, un corpo a corpo silenzioso, come un combattimento ombra. Scrivere, non fare a meno delle mie parole, ha significato non pendermi. Non darmi per vinto. Non disperare.
Ho scritto in una decina di case diverse, nessuna abitata per più di qualche mese. Tutte piccole o piccolissime, tutte, ma proprio tutte, dannatamente buie. Le avrei volute più spaziose, più luminose, volevo almeno un balcone, un terrazzo: lo desideravo come un tempo avrei desiderato viaggi, orizzonti lontani. Una possibilità di uscire, respirare, guardarmi intorno. Ma nessuno me le fittava. Non potevo scegliere, non potevo girare per cercarle, non potevo nemmeno decidere da solo dove abitare. E se diventava noto che io stavo in quella via, in quella casa, allora ero subito costretto a lasciarla. È la situazione di molti che vivono nelle mie condizioni. Ti presenti a vedere l’appartamento che con fatica i carabinieri hanno selezionato cominciando pure a mediare col proprietario, ma appena quello ti riconosce le risposte si assomigliano: «La stimo moltissimo, dottore, ma non posso proprio mettermi nei guai, ho già molti problemi»; oppure «fosse per me non ci sarebbero problemi: è che ho dei figli, una famiglia, sa, devo pensare alla loro sicurezza», e - terza e ultima - «io glielo darei subito e anche gratis, ma il condominio mi metterebbe in croce. Capisce, qui la gente ha paura». L’altra categoria è quella dei soliti sciacalli. Arrivano con la solidarietà - «gliela do io, la casa» - e poi ti impongono un fitto quattro volte maggiore di quello che avrebbero chiesto a chiunque altro: «Io mi prendo il rischio, come no, ma sa, purtroppo qui tutto quanto costa». Però accanto a questa paura, che spesso è solo una copertura vile per non voler essere ascritti a una parte - in questo caso alla mia -, ci sono stati anche i gesti di molte persone, tutte persone che non conoscevo, che mi hanno offerto un rifugio, una stanza, amicizia, calore. E anche se spesso non ho potuto accettare le loro proposte per motivi di sicurezza, ho scritto pure in questi luoghi ospitali e colmi di affetto.
Molte delle pagine riunite in questo libro non le ho nemmeno scritte in una casa, ma in una camera d’albergo. Gli alberghi tutti uguali da dove sono passato in questi anni e che ho sempre continuato a odiare. Anche le camere di quegli alberghi sono buie e non ci sono finestre da poter aprire. Non ci sono finestre, non c’è aria. Di notte sudi. Se accendi l’aria condizionata perché ti sembra di soffocare, il sudore ti si asciuga addosso e il giorno dopo ti gratta la gola. All’estero è capitato che in un luogo, magari uno di quelli che prima sognavo di visitare, non vedessi nient’altro che quelle camere d’albergo e il profilo della città dietro i vetri oscurati di una macchina blindata. Non si fidavano a lasciarmi uscire a fare due passi, neanche con la scorta che mi avevano assegnato. Spesso non si fidano nemmeno a lasciarmi nello stesso albergo per più di una notte. Più sono posti civili, tranquilli, dove la criminalità e le mafie sembrano lontane e dove io mi sento totalmente sicuro, più ti trattano come qualcuno o qualcosa che potrebbe esplodergli sotto gli occhi. Sono gentilissimi, organizzatissimi. Però ti trattano con dei guanti che non sai se sono da cerimonia o da artificieri. E tu non capisci se sei più un pacchetto regalo o un pacco-bomba.
Più spesso ancora ho vissuto nelle stanze di una caserma dei carabinieri. Dentro le narici l’odore del grasso degli anfibi dei miei vicini appuntati, nelle orecchie il sottofondo della televisione che trasmetteva partite di calcio e le loro bestemmie quando venivano richiamati in servizio o quando segnava la squadra avversaria. Sabato, domenica, giorni mortali. Nel ventre quasi vuoto e immobile di una grande, vecchia balena fatta per operare. Mentre fuori intuisci movimento, senti grida, c’è il sole, è già estate. E capita che sai pure dove sei, sai che se potessi uscire, in due minuti passeresti davanti alla tua vecchia casa, la prima dove ti dissero «mo’ finalmente te ne stai andando», e in altri cinque o dieci saresti al mare. Ma non puoi farlo.
Però puoi scrivere. Devi scrivere. Devi e vuoi continuare. Il cinismo che contraddistingue molta parte degli addetti ai lavori lascia intravedere sempre una sorta di diffidenza per tutto quello che non ha uno scopo preciso, un disegno chiaro. O il distacco di chi vuole solo fare un buon libro, costruire una storia, limare le parole sino a ottenere uno stile bello e riconoscibile. È questo ciò che deve fare uno scrittore? Questo e nient’altro è letteratura? Allora, per quanto mi riguarda, preferirei non scrivere né assomigliare a queste persone.
Bisogno di distruggere tutto ciò che può essere desiderio e voglia: questo è il cinismo. Il cinismo è l’armatura dei disperati che non sanno di esserlo. Vedono tutto come una manovra furba per arricchirsi, la pretesa di cambiare come un’ingenuità da apprendisti stregoni e la scrittura che vuole arrivare a molti come una forma di impostura da piazzisti. A questi signori diffidenti e perennemente armati del ghigno di chi sa già che tutto finirà male nulla può essere tolto, perché non hanno più nulla per cui valga la pena di lottare. Però non possono essere cacciati dalle loro case che sono spesso allestite con gusto, curate. La loro arte, la loro idea della parola, somiglia a quelle case belle e non vuole abbandonare il loro perimetro ben arredato. Ma nel privilegio delle loro vite disilluse e protette, non hanno idea di che cosa possa veramente voler dire scrivere.
Scrivere, adesso, diventa anche un mezzo per dare voce al dolore che ho provato nei primi mesi, quando il venticello delle accuse e delle calunnie montava in
proporzione alle vendite del mio libro. Nei primi tempi, quando i soliti zelanti personaggi me le riportavano, mi sentivo piagare lo stomaco di rabbia.
“Gliel’ha scritto un altro.” “Io gli riscrivo gli articoli che manda al giornale.” “Ho le prove, è un cialtrone.” “A ventisei anni si gioca a pallone, questo non può già scrivere così.” “È un latin lover da strapazzo.” “È un tossico che si veste come uno zingaro.” “È controllato da qualche politico.” “L’ho costruito io. Credetemi, io conosco tutte le sue debolezze.” “Quello vuole solo fama e danaro.” Oggi tutte queste idiozie da rancorosi o semplicemente da chi avrebbe tanto voluto avere una qualche visibilità mi fanno quasi ridere, e anzi le conservo in una sorta di stupidario che consiglio di raccogliere a chiunque incorra in un destino simile al mio: emergere, soprattutto al Sud, in un contesto dove il solo diritto di respirare lo devi spesso barattare con la compromissione dell’anima e la castrazione di ogni sogno.
In questo stupidario trovano posto per esempio le lettere ricevute dai molti avvocati di sedicenti amici o parenti di qualcuno di cui mi sono occupato scrivendo, lettere che mi chiedevano con eufemismi qualcosa il cui senso era: o paghi o diciamo che hai mentito, copiato, oppure cerchiamo contatti con la stampa per insinuare il dubbio, per “fare stillicidio mediatico”. Frasi come questa mi hanno mostrato in maniera chiara quanto per tutti costoro io sia diventato un incubo: perché le mie parole, nelle mani di tanti lettori, hanno saputo dimostrare come le storie che quelli credevano controllabili, ascoltabili solo da pochi, potessero invece divenire uno strumento per cambiare. Sono divenute storie di tutti.
Subire tutto questo mi sembrava incredibile. Poi un giorno, all’Accademia di Stoccolma, Salman Rushdie mi disse: «La vita non piace ai morti. A tutti coloro che per lavorare devono vendersi, tutti coloro che per scrivere devono fare compromessi. Tutti quelli per i quali se tu esisti significa che si può agire in un modo diverso dal loro. Ti rendi conto di quanto fastidioso sei?».Col tempo ho capito che potevo essere davvero fastidioso e odioso per coloro che detestano il mio modo di scrivere, di essere e apparire. Coloro che vorrebbero che mi nascondessi, che fossi più discreto, che non mi presentassi nelle università o in prima serata in tv. Coloro che preferiscono che ci sia solo e soltanto evasione e spettacolo perché questo garantisce proprio a loro una sorta di monopolio della serietà. E col tempo ho imparato a misurare il valore delle parole anche dai nemici che di volta in volta mi trovo di fronte. Quando qualcuno mi riferisce che ricevo attacchi da alcuni giornali, da certi personaggi o programmi televisivi, so di aver agito bene. So che più si cerca di delegittimarmi, più le mie parole fanno paura. Più forte è il cachinno di molti intellettuali infastiditi, più significa che le mie parole sono per loro assordanti.
Tutto questo mi ha veramente fatto apprezzare chi mi critica senza infangarmi e insultarmi, senza inventare gogne e frottole. Solo un confronto critico leale permette di crescere e migliorarsi, mentre il pensiero totalitario che si nasconde dietro il cinismo di certo mondo mediatico è il mio peggior nemico. Lo ritengo un alleato, a volte inconsapevole, del potere criminale. Se si ha bisogno di mostrare che tutti sono sporchi, che tutto è marcio, che dietro ogni tentativo di cambiamento si cela un pretesto o una menzogna, allora qualsiasi cosa vale un’altra, tutto è lecito e possibile. Questo atteggiamento è l’anestetico che spinge a promuovere chi “onestamente” si fa corrompere, chi accetta il compromesso, chi sceglie solo il
saccheggio, la sopravvivenza, la pornografia di stare a guardare e godere del peggio che ogni giorno ti arriva a casa. Ogni cosa è giustificata perché si è sempre agito così, perché tutti fanno così o, peggio, perché non si può che agire in questo modo.
Per me scrivere è sempre il contrario di tutto questo. Uscire. Riuscire a iscrivere una parola nel mondo, passarla a qualcuno come un biglietto con un’informazione clandestina, uno di quelli che devi leggere, mandare a memoria e poi distruggere: appallottolandolo, mischiandolo con la tua saliva, facendolo macerare nel tuo stomaco. Scrivere è resistere, è fare resistenza. La puntata in cui andava in onda la mia intervista con Enzo Biagi portava proprio questo nel titolo. Si chiamava “Resistenza e resistenze”. La mia vicenda di questi anni mi ha permesso anche di incontrare molte persone che non potrò mai dimenticare. Mi ha dato la possibilità di trovarmi proprio con Enzo Biagi, di ricevere la sua attenzione, vedere che quell’uomo anziano aveva ancora tanta voglia di interrogarsi attraverso le domande fatte ad altri, di capire il nostro tempo e il nostro Paese. Non basta avergli detto addio ai suoi funerali, aver scritto una pagina o due dopo la sua morte. Bisogna ricambiare l’attenzione anche dopo, bisogna farlo restare con noi, ancora un poco. A questo servono le parole quando si riuniscono in un libro, in qualcosa che è destinato a durare.
E poi Miriam Makeba, la grande “Mama Africa”, la voce che cantava la libertà di un continente e invece è morta a Castel Volturno, dopo un concerto per ricordare sei fratelli uccisi dalla camorra e per esprimere la sua vicinanza a me che non aveva mai incontrato, bersaglio di un nemico di cui lei non conosceva nemmeno il nome. Eppure l’ha fatto. Non stava bene, ma è venuta ugualmente. Ha cantato davanti a poche persone, lei che aveva riempito interi stadi. Ed è morta nella mia terra che è divenuta anche la sua. D’ora in avanti la lotta per quella terra, la lotta mia e di chiunque abbia desiderio di continuarla, porterà iscritto nella sua bandiera invisibile anche il nome di Miriam Makeba.
Nello stadio del Barcellona ero scortato dai Mossos, i corpi speciali della polizia catalana che volevano portarmi a vedere la partita circondato da un cubo di vetro antiproiettile e che poi, mossi a compassione, mi hanno risparmiato quel nuovo grottesco tipo di prigione. Ho incontrato Lionel Messi, l’attaccante argentino del Barga, il ragazzo che è riuscito a rifare, identico, il gol più bello di Diego Armando Maradona. Ha una faccia da bimbo che non dice nulla delle sofferenze che ha patito per anni e anni, delle iniezioni quotidiane di ormoni che gli hanno permesso di crescere e divenire un campione, il più grande giocatore dei nostri giorni. Lo chiamano “la Pulce” ancora oggi. Sembrava impossibile che pur con tutto il suo talento potesse farsi valere in partite fatte di giocate aeree, di scontri fisici fra titani. Ma anche il calcio può divenire resistenza, un’arte che ti si incarna in ogni centimetro di ossa allungate, in ogni lembo di carne che vi cresce intorno. E se dovessi proprio esprimere un desiderio, uno di quelli impossibili, vorrei che le mie pagine somigliassero a una delle corse di Lionel Messi verso la porta avversaria, veloce, velocissimo, palla incollata al piede, non importa se poi riesce a mandarla in rete o se la passa a un compagno più smarcato. La cosa più importante non è il gol, ma venire in avanti, dribblare, fintare, non perdere la palla.
A volte però mi trovo a guardare indietro. E allora so a chi questo libro non è destinato. So che non va a tutte quelle persone con cui sono cresciuto, che si sono accontentate di galleggiare, bestemmiare al tavolo del bar, tirare a campare in giorni tutti uguali. Non va ai rassegnati, ai cinici pigri. Appagati da una sagra o da una serata in pizzeria. Rimasti fermi a scambiarsi le fidanzate, scegliendo tra chi è rimasto spaiato come le scarpe dentro scatole impolverate, dimenticate infondo a un armadio. A chi crede che per diventare adulti bisogna caricarsi in groppa i fallimenti di un altro, piuttosto che rilanciarsi insieme in una sfida. A queste persone non va. Certamente si sa per chi si scrive, ma si sa anche per chi non si scrive. Io non scrivo per loro. Non scrivo per persone nelle quali non mi riconosco, non scrivo mandando lettere verso un passato che non posso né voglio più raggiungere. Perché se guardo indietro so che rischio di finire come la moglie di Lot, trasformata in statua di sale mentre guardava la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra. È questo quel che fa il dolore quando non ha nessuno sbocco e nessun senso: ti pietrifica. Come se i tuoi pianti o quelli che non riesci a versare, a contatto col tuo rancore e col tuo odio si rapprendessero in tanti cristalli, divenendo una trappola mortale. Allora, quando mi guardo indietro, l’unica cosa che mi resta, in cui mi riconosco, che riesce a circoscrivere un perimetro e un percorso come il contorno di un corpo che vive e respira, sono le mie parole. Per questo ho voluto includere tra queste pagine anche alcuni scritti nati prima che uscisse Gomorra, offrirli a coloro ai quali questo libro è destinato.
Questo libro va ai miei lettori. A chi ha reso possibile che Gomorra divenisse un testo pericoloso per certi poteri che hanno bisogno di silenzio e ombra, a chi ha assimilato le sue parole, a chi lo ha passato agli amici, ai familiari, a chi lo ha fatto adottare nelle scuole. A chi si è ritrovato nelle piazze per leggerne delle pagine, testimoniando che la mia vicenda era divenuta la vicenda di tutti, perché lo erano divenute le mie parole. A tutti loro va questo libro, perché senza di loro non so se ce l’avrei fatta ad andare avanti. Non so se ce l’avrei fatta a continuare a scrivere e quindi a resistere e quindi a esistere pensando a un futuro. Sapendo che la mia vita blindata era comunque una vita. E sapendo soprattutto che senza i miei lettori non avrei mai trovato lo spazio che ho avuto, le prime pagine dei giornali, le telecamere in prima serata. Se non avessi avuto tanti lettori, lettori che del mio libro hanno fatto qualcosa di più di un oggetto che, una volta finito, infili nel posto che gli è destinato accanto agli altri nella tua libreria, nulla di tutto questo mi sarebbe mai stato concesso. E se sono diventato un “fenomeno mediatico”, questo lo devo in fondo ai miei lettori.
In questi anni io ho compreso l’importanza del confronto mediatico. Quando dietro non ci sono il vuoto, il gossip, la trama di finzioni che non fanno altro che distrarre e consolare, ma ci sono la voglia e il desiderio di tanti di sapere e di cambiare, perché non possono essere usati tutti i mezzi, i media, possibili per unire le forze? Perché averne tanto sospetto o paura?
Ma infondo la capisco, quella paura. E mi viene in mente una cosa strana, difficile da spiegare. In tutte le interviste, in tutti i Paesi dove il mio libro è stato pubblicato, mi chiedono sempre: «Ma lei non ha paura?». Domanda che chiaramente si riferisce alla paura che mi possano ammazzare. «No» rispondo subito, e lì mi fermo. Poi mi
capita di pensare che chissà quanti non mi crederanno. Invece è così. Davvero. Ho avuto e ho tante paure, ma quella di morire non la avverto quasi mai. La peggiore delle mie paure, quella che mi assilla di continuo, è che riescano a diffamarmi, a distruggere la mia credibilità, a infangare ciò per cui mi sono speso e ho pagato. Lo hanno fatto con tutti coloro che hanno deciso di raccontare e denunciare. Lo hanno fatto con don Peppino Diana, prete ammazzato e infamato dal giorno dopo la sua morte. Con Federico Del Prete, sindacalista massacrato a Casal di Principe nel 2002 e schiacciato dalla calunnia il giorno stesso del suo funerale. Con Salvatore Nuvoletta, un carabiniere di appena vent’anni ucciso nel 1982 a Marano e subito sepolto dal sospetto di essere imparentato con l’omonima potentissima famiglia camorrista.
Ho avuto anche un altro tipo di paura, più complicata. Paura della mia immagine. Paura che se mi fossi esposto troppo, se fossi diventato troppo “personaggio”, non sarei più stato ciò che ho voluto essere. C’è una frase di Truman Capote che spesso mi è girata nella testa in questi anni, vera e terribile: “Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte”. Se ho avuto un sogno, è stato quello di incidere con le mie parole, di dimostrare che la parola letteraria può ancora avere un peso e il potere di cambiare la realtà. Pur con tutto quello che mi è successo, la mia “preghiera”, grazie ai miei lettori, è stata esaudita. Ma sono anche divenuto altro da quel che avevo sempre immaginato. Ed è stato doloroso, difficile da accettare, finché non ho capito che nessuno sceglie il suo destino. Però può sempre scegliere la maniera in cui starci dentro. Per quanto mi riesce, voglio provare a farlo nel migliore dei modi, perché è questo ciò che sento di dovere a tutti coloro che mi hanno sostenuto.
Per questo, se mi invitano a parlare in televisione e so che mi ascolteranno in molti, cerco solamente di farlo bene, senza sconti, addolcimenti, semplificazioni. Per questo, quel che ho scelto di mettere in questo libro non è né vuole essere omogeneo. Ciò che ho scritto in questi anni ha tante voci diverse che nascono sia dalla voglia di inseguire liberamente ciò che mi appassiona, sia da un senso del dovere. Andare a vedere quel che succede in Abruzzo dopo il terremoto, per esempio. O continuare a seguire le vicende degli affari criminali, soprattutto dove questi generano ricchezza per pochi e seminano morte per molte, moltissime generazioni, come è accaduto per la questione dei rifiuti tossici intombati in ogni lembo della mia terra. Ormai non temo più di servirmi di ogni mezzo - tv, web, radio, musica, cinema, teatro -, perché credo che i media, se usati senza cinismo e senza facile furbizia, siano esattamente quel che significa il loro nome. Mezzi che consentono di rompere una coltre di indifferenza, di amplificare quel che spesso già da solo dovrebbe urlare al cielo.
Il titolo di questo libro vuole dire una cosa semplice. Vuole ricordare che da un lato esistono la libertà e la bellezza necessarie per chi scrive e per chi vive, dall’altro esiste il loro contrario, la loro negazione: l’inferno che sembra continuamente prevalere. In uno dei suoi libri più importanti, L’uomo in rivolta, Albert Camus, che è uno scrittore che amo molto, racconta la seguente storia. Parla di un sottotenente tedesco finito in Siberia, in un campo dove “regnavano il freddo e la fame”, che “si era costruito, con tasti di legno, un pianoforte silenzioso. Là, nell’infoltirsi della miseria, in mezzo a una turba cenciosa, componeva una strana musica che era il solo
a udire”. “Così” continua Camus, “gettate nell’inferno, misteriose melodie e immagini crudeli della bellezza fuggita ci arrecheranno sempre, in mezzo al delitto e alla pazzia, l’eco di quell’insurrezione armoniosa che attesta lungo i secoli la grandezza umana.” E subito dopo aggiunge una piccola frase a cui non sembra dare un peso particolare. Per me, invece, l’ha acquisito. Anche perché mi fa risuonare le parole indimenticabili di un uomo - Giovanni Falcone - che una volta disse che la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un inizio e avrà quindi anche una fine. Ecco allora quel che scrive Camus: “Ma l’inferno ha un tempo solo, la vita un giorno ricomincia”.
È quello che credo, spero, voglio e desidero anch’io.
Roberto Saviano (La bellezza e l'inferno - scritti 2004/2009 - Mondadori)
Ho scritto in una decina di case diverse, nessuna abitata per più di qualche mese. Tutte piccole o piccolissime, tutte, ma proprio tutte, dannatamente buie. Le avrei volute più spaziose, più luminose, volevo almeno un balcone, un terrazzo: lo desideravo come un tempo avrei desiderato viaggi, orizzonti lontani. Una possibilità di uscire, respirare, guardarmi intorno. Ma nessuno me le fittava. Non potevo scegliere, non potevo girare per cercarle, non potevo nemmeno decidere da solo dove abitare. E se diventava noto che io stavo in quella via, in quella casa, allora ero subito costretto a lasciarla. È la situazione di molti che vivono nelle mie condizioni. Ti presenti a vedere l’appartamento che con fatica i carabinieri hanno selezionato cominciando pure a mediare col proprietario, ma appena quello ti riconosce le risposte si assomigliano: «La stimo moltissimo, dottore, ma non posso proprio mettermi nei guai, ho già molti problemi»; oppure «fosse per me non ci sarebbero problemi: è che ho dei figli, una famiglia, sa, devo pensare alla loro sicurezza», e - terza e ultima - «io glielo darei subito e anche gratis, ma il condominio mi metterebbe in croce. Capisce, qui la gente ha paura». L’altra categoria è quella dei soliti sciacalli. Arrivano con la solidarietà - «gliela do io, la casa» - e poi ti impongono un fitto quattro volte maggiore di quello che avrebbero chiesto a chiunque altro: «Io mi prendo il rischio, come no, ma sa, purtroppo qui tutto quanto costa». Però accanto a questa paura, che spesso è solo una copertura vile per non voler essere ascritti a una parte - in questo caso alla mia -, ci sono stati anche i gesti di molte persone, tutte persone che non conoscevo, che mi hanno offerto un rifugio, una stanza, amicizia, calore. E anche se spesso non ho potuto accettare le loro proposte per motivi di sicurezza, ho scritto pure in questi luoghi ospitali e colmi di affetto.
Molte delle pagine riunite in questo libro non le ho nemmeno scritte in una casa, ma in una camera d’albergo. Gli alberghi tutti uguali da dove sono passato in questi anni e che ho sempre continuato a odiare. Anche le camere di quegli alberghi sono buie e non ci sono finestre da poter aprire. Non ci sono finestre, non c’è aria. Di notte sudi. Se accendi l’aria condizionata perché ti sembra di soffocare, il sudore ti si asciuga addosso e il giorno dopo ti gratta la gola. All’estero è capitato che in un luogo, magari uno di quelli che prima sognavo di visitare, non vedessi nient’altro che quelle camere d’albergo e il profilo della città dietro i vetri oscurati di una macchina blindata. Non si fidavano a lasciarmi uscire a fare due passi, neanche con la scorta che mi avevano assegnato. Spesso non si fidano nemmeno a lasciarmi nello stesso albergo per più di una notte. Più sono posti civili, tranquilli, dove la criminalità e le mafie sembrano lontane e dove io mi sento totalmente sicuro, più ti trattano come qualcuno o qualcosa che potrebbe esplodergli sotto gli occhi. Sono gentilissimi, organizzatissimi. Però ti trattano con dei guanti che non sai se sono da cerimonia o da artificieri. E tu non capisci se sei più un pacchetto regalo o un pacco-bomba.
Più spesso ancora ho vissuto nelle stanze di una caserma dei carabinieri. Dentro le narici l’odore del grasso degli anfibi dei miei vicini appuntati, nelle orecchie il sottofondo della televisione che trasmetteva partite di calcio e le loro bestemmie quando venivano richiamati in servizio o quando segnava la squadra avversaria. Sabato, domenica, giorni mortali. Nel ventre quasi vuoto e immobile di una grande, vecchia balena fatta per operare. Mentre fuori intuisci movimento, senti grida, c’è il sole, è già estate. E capita che sai pure dove sei, sai che se potessi uscire, in due minuti passeresti davanti alla tua vecchia casa, la prima dove ti dissero «mo’ finalmente te ne stai andando», e in altri cinque o dieci saresti al mare. Ma non puoi farlo.
Però puoi scrivere. Devi scrivere. Devi e vuoi continuare. Il cinismo che contraddistingue molta parte degli addetti ai lavori lascia intravedere sempre una sorta di diffidenza per tutto quello che non ha uno scopo preciso, un disegno chiaro. O il distacco di chi vuole solo fare un buon libro, costruire una storia, limare le parole sino a ottenere uno stile bello e riconoscibile. È questo ciò che deve fare uno scrittore? Questo e nient’altro è letteratura? Allora, per quanto mi riguarda, preferirei non scrivere né assomigliare a queste persone.
Bisogno di distruggere tutto ciò che può essere desiderio e voglia: questo è il cinismo. Il cinismo è l’armatura dei disperati che non sanno di esserlo. Vedono tutto come una manovra furba per arricchirsi, la pretesa di cambiare come un’ingenuità da apprendisti stregoni e la scrittura che vuole arrivare a molti come una forma di impostura da piazzisti. A questi signori diffidenti e perennemente armati del ghigno di chi sa già che tutto finirà male nulla può essere tolto, perché non hanno più nulla per cui valga la pena di lottare. Però non possono essere cacciati dalle loro case che sono spesso allestite con gusto, curate. La loro arte, la loro idea della parola, somiglia a quelle case belle e non vuole abbandonare il loro perimetro ben arredato. Ma nel privilegio delle loro vite disilluse e protette, non hanno idea di che cosa possa veramente voler dire scrivere.
Scrivere, adesso, diventa anche un mezzo per dare voce al dolore che ho provato nei primi mesi, quando il venticello delle accuse e delle calunnie montava in
proporzione alle vendite del mio libro. Nei primi tempi, quando i soliti zelanti personaggi me le riportavano, mi sentivo piagare lo stomaco di rabbia.
“Gliel’ha scritto un altro.” “Io gli riscrivo gli articoli che manda al giornale.” “Ho le prove, è un cialtrone.” “A ventisei anni si gioca a pallone, questo non può già scrivere così.” “È un latin lover da strapazzo.” “È un tossico che si veste come uno zingaro.” “È controllato da qualche politico.” “L’ho costruito io. Credetemi, io conosco tutte le sue debolezze.” “Quello vuole solo fama e danaro.” Oggi tutte queste idiozie da rancorosi o semplicemente da chi avrebbe tanto voluto avere una qualche visibilità mi fanno quasi ridere, e anzi le conservo in una sorta di stupidario che consiglio di raccogliere a chiunque incorra in un destino simile al mio: emergere, soprattutto al Sud, in un contesto dove il solo diritto di respirare lo devi spesso barattare con la compromissione dell’anima e la castrazione di ogni sogno.
In questo stupidario trovano posto per esempio le lettere ricevute dai molti avvocati di sedicenti amici o parenti di qualcuno di cui mi sono occupato scrivendo, lettere che mi chiedevano con eufemismi qualcosa il cui senso era: o paghi o diciamo che hai mentito, copiato, oppure cerchiamo contatti con la stampa per insinuare il dubbio, per “fare stillicidio mediatico”. Frasi come questa mi hanno mostrato in maniera chiara quanto per tutti costoro io sia diventato un incubo: perché le mie parole, nelle mani di tanti lettori, hanno saputo dimostrare come le storie che quelli credevano controllabili, ascoltabili solo da pochi, potessero invece divenire uno strumento per cambiare. Sono divenute storie di tutti.
Subire tutto questo mi sembrava incredibile. Poi un giorno, all’Accademia di Stoccolma, Salman Rushdie mi disse: «La vita non piace ai morti. A tutti coloro che per lavorare devono vendersi, tutti coloro che per scrivere devono fare compromessi. Tutti quelli per i quali se tu esisti significa che si può agire in un modo diverso dal loro. Ti rendi conto di quanto fastidioso sei?».Col tempo ho capito che potevo essere davvero fastidioso e odioso per coloro che detestano il mio modo di scrivere, di essere e apparire. Coloro che vorrebbero che mi nascondessi, che fossi più discreto, che non mi presentassi nelle università o in prima serata in tv. Coloro che preferiscono che ci sia solo e soltanto evasione e spettacolo perché questo garantisce proprio a loro una sorta di monopolio della serietà. E col tempo ho imparato a misurare il valore delle parole anche dai nemici che di volta in volta mi trovo di fronte. Quando qualcuno mi riferisce che ricevo attacchi da alcuni giornali, da certi personaggi o programmi televisivi, so di aver agito bene. So che più si cerca di delegittimarmi, più le mie parole fanno paura. Più forte è il cachinno di molti intellettuali infastiditi, più significa che le mie parole sono per loro assordanti.
Tutto questo mi ha veramente fatto apprezzare chi mi critica senza infangarmi e insultarmi, senza inventare gogne e frottole. Solo un confronto critico leale permette di crescere e migliorarsi, mentre il pensiero totalitario che si nasconde dietro il cinismo di certo mondo mediatico è il mio peggior nemico. Lo ritengo un alleato, a volte inconsapevole, del potere criminale. Se si ha bisogno di mostrare che tutti sono sporchi, che tutto è marcio, che dietro ogni tentativo di cambiamento si cela un pretesto o una menzogna, allora qualsiasi cosa vale un’altra, tutto è lecito e possibile. Questo atteggiamento è l’anestetico che spinge a promuovere chi “onestamente” si fa corrompere, chi accetta il compromesso, chi sceglie solo il
saccheggio, la sopravvivenza, la pornografia di stare a guardare e godere del peggio che ogni giorno ti arriva a casa. Ogni cosa è giustificata perché si è sempre agito così, perché tutti fanno così o, peggio, perché non si può che agire in questo modo.
Per me scrivere è sempre il contrario di tutto questo. Uscire. Riuscire a iscrivere una parola nel mondo, passarla a qualcuno come un biglietto con un’informazione clandestina, uno di quelli che devi leggere, mandare a memoria e poi distruggere: appallottolandolo, mischiandolo con la tua saliva, facendolo macerare nel tuo stomaco. Scrivere è resistere, è fare resistenza. La puntata in cui andava in onda la mia intervista con Enzo Biagi portava proprio questo nel titolo. Si chiamava “Resistenza e resistenze”. La mia vicenda di questi anni mi ha permesso anche di incontrare molte persone che non potrò mai dimenticare. Mi ha dato la possibilità di trovarmi proprio con Enzo Biagi, di ricevere la sua attenzione, vedere che quell’uomo anziano aveva ancora tanta voglia di interrogarsi attraverso le domande fatte ad altri, di capire il nostro tempo e il nostro Paese. Non basta avergli detto addio ai suoi funerali, aver scritto una pagina o due dopo la sua morte. Bisogna ricambiare l’attenzione anche dopo, bisogna farlo restare con noi, ancora un poco. A questo servono le parole quando si riuniscono in un libro, in qualcosa che è destinato a durare.
E poi Miriam Makeba, la grande “Mama Africa”, la voce che cantava la libertà di un continente e invece è morta a Castel Volturno, dopo un concerto per ricordare sei fratelli uccisi dalla camorra e per esprimere la sua vicinanza a me che non aveva mai incontrato, bersaglio di un nemico di cui lei non conosceva nemmeno il nome. Eppure l’ha fatto. Non stava bene, ma è venuta ugualmente. Ha cantato davanti a poche persone, lei che aveva riempito interi stadi. Ed è morta nella mia terra che è divenuta anche la sua. D’ora in avanti la lotta per quella terra, la lotta mia e di chiunque abbia desiderio di continuarla, porterà iscritto nella sua bandiera invisibile anche il nome di Miriam Makeba.
Nello stadio del Barcellona ero scortato dai Mossos, i corpi speciali della polizia catalana che volevano portarmi a vedere la partita circondato da un cubo di vetro antiproiettile e che poi, mossi a compassione, mi hanno risparmiato quel nuovo grottesco tipo di prigione. Ho incontrato Lionel Messi, l’attaccante argentino del Barga, il ragazzo che è riuscito a rifare, identico, il gol più bello di Diego Armando Maradona. Ha una faccia da bimbo che non dice nulla delle sofferenze che ha patito per anni e anni, delle iniezioni quotidiane di ormoni che gli hanno permesso di crescere e divenire un campione, il più grande giocatore dei nostri giorni. Lo chiamano “la Pulce” ancora oggi. Sembrava impossibile che pur con tutto il suo talento potesse farsi valere in partite fatte di giocate aeree, di scontri fisici fra titani. Ma anche il calcio può divenire resistenza, un’arte che ti si incarna in ogni centimetro di ossa allungate, in ogni lembo di carne che vi cresce intorno. E se dovessi proprio esprimere un desiderio, uno di quelli impossibili, vorrei che le mie pagine somigliassero a una delle corse di Lionel Messi verso la porta avversaria, veloce, velocissimo, palla incollata al piede, non importa se poi riesce a mandarla in rete o se la passa a un compagno più smarcato. La cosa più importante non è il gol, ma venire in avanti, dribblare, fintare, non perdere la palla.
A volte però mi trovo a guardare indietro. E allora so a chi questo libro non è destinato. So che non va a tutte quelle persone con cui sono cresciuto, che si sono accontentate di galleggiare, bestemmiare al tavolo del bar, tirare a campare in giorni tutti uguali. Non va ai rassegnati, ai cinici pigri. Appagati da una sagra o da una serata in pizzeria. Rimasti fermi a scambiarsi le fidanzate, scegliendo tra chi è rimasto spaiato come le scarpe dentro scatole impolverate, dimenticate infondo a un armadio. A chi crede che per diventare adulti bisogna caricarsi in groppa i fallimenti di un altro, piuttosto che rilanciarsi insieme in una sfida. A queste persone non va. Certamente si sa per chi si scrive, ma si sa anche per chi non si scrive. Io non scrivo per loro. Non scrivo per persone nelle quali non mi riconosco, non scrivo mandando lettere verso un passato che non posso né voglio più raggiungere. Perché se guardo indietro so che rischio di finire come la moglie di Lot, trasformata in statua di sale mentre guardava la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra. È questo quel che fa il dolore quando non ha nessuno sbocco e nessun senso: ti pietrifica. Come se i tuoi pianti o quelli che non riesci a versare, a contatto col tuo rancore e col tuo odio si rapprendessero in tanti cristalli, divenendo una trappola mortale. Allora, quando mi guardo indietro, l’unica cosa che mi resta, in cui mi riconosco, che riesce a circoscrivere un perimetro e un percorso come il contorno di un corpo che vive e respira, sono le mie parole. Per questo ho voluto includere tra queste pagine anche alcuni scritti nati prima che uscisse Gomorra, offrirli a coloro ai quali questo libro è destinato.
Questo libro va ai miei lettori. A chi ha reso possibile che Gomorra divenisse un testo pericoloso per certi poteri che hanno bisogno di silenzio e ombra, a chi ha assimilato le sue parole, a chi lo ha passato agli amici, ai familiari, a chi lo ha fatto adottare nelle scuole. A chi si è ritrovato nelle piazze per leggerne delle pagine, testimoniando che la mia vicenda era divenuta la vicenda di tutti, perché lo erano divenute le mie parole. A tutti loro va questo libro, perché senza di loro non so se ce l’avrei fatta ad andare avanti. Non so se ce l’avrei fatta a continuare a scrivere e quindi a resistere e quindi a esistere pensando a un futuro. Sapendo che la mia vita blindata era comunque una vita. E sapendo soprattutto che senza i miei lettori non avrei mai trovato lo spazio che ho avuto, le prime pagine dei giornali, le telecamere in prima serata. Se non avessi avuto tanti lettori, lettori che del mio libro hanno fatto qualcosa di più di un oggetto che, una volta finito, infili nel posto che gli è destinato accanto agli altri nella tua libreria, nulla di tutto questo mi sarebbe mai stato concesso. E se sono diventato un “fenomeno mediatico”, questo lo devo in fondo ai miei lettori.
In questi anni io ho compreso l’importanza del confronto mediatico. Quando dietro non ci sono il vuoto, il gossip, la trama di finzioni che non fanno altro che distrarre e consolare, ma ci sono la voglia e il desiderio di tanti di sapere e di cambiare, perché non possono essere usati tutti i mezzi, i media, possibili per unire le forze? Perché averne tanto sospetto o paura?
Ma infondo la capisco, quella paura. E mi viene in mente una cosa strana, difficile da spiegare. In tutte le interviste, in tutti i Paesi dove il mio libro è stato pubblicato, mi chiedono sempre: «Ma lei non ha paura?». Domanda che chiaramente si riferisce alla paura che mi possano ammazzare. «No» rispondo subito, e lì mi fermo. Poi mi
capita di pensare che chissà quanti non mi crederanno. Invece è così. Davvero. Ho avuto e ho tante paure, ma quella di morire non la avverto quasi mai. La peggiore delle mie paure, quella che mi assilla di continuo, è che riescano a diffamarmi, a distruggere la mia credibilità, a infangare ciò per cui mi sono speso e ho pagato. Lo hanno fatto con tutti coloro che hanno deciso di raccontare e denunciare. Lo hanno fatto con don Peppino Diana, prete ammazzato e infamato dal giorno dopo la sua morte. Con Federico Del Prete, sindacalista massacrato a Casal di Principe nel 2002 e schiacciato dalla calunnia il giorno stesso del suo funerale. Con Salvatore Nuvoletta, un carabiniere di appena vent’anni ucciso nel 1982 a Marano e subito sepolto dal sospetto di essere imparentato con l’omonima potentissima famiglia camorrista.
Ho avuto anche un altro tipo di paura, più complicata. Paura della mia immagine. Paura che se mi fossi esposto troppo, se fossi diventato troppo “personaggio”, non sarei più stato ciò che ho voluto essere. C’è una frase di Truman Capote che spesso mi è girata nella testa in questi anni, vera e terribile: “Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte”. Se ho avuto un sogno, è stato quello di incidere con le mie parole, di dimostrare che la parola letteraria può ancora avere un peso e il potere di cambiare la realtà. Pur con tutto quello che mi è successo, la mia “preghiera”, grazie ai miei lettori, è stata esaudita. Ma sono anche divenuto altro da quel che avevo sempre immaginato. Ed è stato doloroso, difficile da accettare, finché non ho capito che nessuno sceglie il suo destino. Però può sempre scegliere la maniera in cui starci dentro. Per quanto mi riesce, voglio provare a farlo nel migliore dei modi, perché è questo ciò che sento di dovere a tutti coloro che mi hanno sostenuto.
Per questo, se mi invitano a parlare in televisione e so che mi ascolteranno in molti, cerco solamente di farlo bene, senza sconti, addolcimenti, semplificazioni. Per questo, quel che ho scelto di mettere in questo libro non è né vuole essere omogeneo. Ciò che ho scritto in questi anni ha tante voci diverse che nascono sia dalla voglia di inseguire liberamente ciò che mi appassiona, sia da un senso del dovere. Andare a vedere quel che succede in Abruzzo dopo il terremoto, per esempio. O continuare a seguire le vicende degli affari criminali, soprattutto dove questi generano ricchezza per pochi e seminano morte per molte, moltissime generazioni, come è accaduto per la questione dei rifiuti tossici intombati in ogni lembo della mia terra. Ormai non temo più di servirmi di ogni mezzo - tv, web, radio, musica, cinema, teatro -, perché credo che i media, se usati senza cinismo e senza facile furbizia, siano esattamente quel che significa il loro nome. Mezzi che consentono di rompere una coltre di indifferenza, di amplificare quel che spesso già da solo dovrebbe urlare al cielo.
Il titolo di questo libro vuole dire una cosa semplice. Vuole ricordare che da un lato esistono la libertà e la bellezza necessarie per chi scrive e per chi vive, dall’altro esiste il loro contrario, la loro negazione: l’inferno che sembra continuamente prevalere. In uno dei suoi libri più importanti, L’uomo in rivolta, Albert Camus, che è uno scrittore che amo molto, racconta la seguente storia. Parla di un sottotenente tedesco finito in Siberia, in un campo dove “regnavano il freddo e la fame”, che “si era costruito, con tasti di legno, un pianoforte silenzioso. Là, nell’infoltirsi della miseria, in mezzo a una turba cenciosa, componeva una strana musica che era il solo
a udire”. “Così” continua Camus, “gettate nell’inferno, misteriose melodie e immagini crudeli della bellezza fuggita ci arrecheranno sempre, in mezzo al delitto e alla pazzia, l’eco di quell’insurrezione armoniosa che attesta lungo i secoli la grandezza umana.” E subito dopo aggiunge una piccola frase a cui non sembra dare un peso particolare. Per me, invece, l’ha acquisito. Anche perché mi fa risuonare le parole indimenticabili di un uomo - Giovanni Falcone - che una volta disse che la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un inizio e avrà quindi anche una fine. Ecco allora quel che scrive Camus: “Ma l’inferno ha un tempo solo, la vita un giorno ricomincia”.
È quello che credo, spero, voglio e desidero anch’io.
Roberto Saviano (La bellezza e l'inferno - scritti 2004/2009 - Mondadori)
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