Fatevi
un film. Due baroni litigano per la proprietà di un castello; lunga guerra
senza vincitori, soldati morti in quantità e soldi finiti; i due decidono di
rivolgersi al Re; e il Re dà ragione al barone X che è amico suo. Vi sembra una
cosa giusta? Certo che no. Eppure, per centinaia di anni, le cose hanno
funzionato così, anche se tutti sapevano che, in molti casi, questo “processo”
non era giusto per niente. Ma che alternativa c’era? Guerre infinite con spreco
di soldi e soldati? E poi i più deboli, quelli che non avevano soldi e soldati,
lo preferivano di gran lunga: con il “processo” avevano una possibilità; in uno
scontro violento avrebbero perso di sicuro.
Questo
film dovrebbe far capire una cosa importante: “processo” e “giustizia” non
sempre coincidono; però del “processo” non si può fare a meno, una soluzione ai
conflitti diversa dal confronto fisico va trovata altrimenti la società si
disgrega e muore. È per questo che è stato inventato il “processo”: i Tribunali
distribuiscono torti e ragioni e irrogano sanzioni. Certo, quando questo lo
faceva il Re, lo spazio per l’arbitrio e la sopraffazione era enorme; da quando
lo fanno i Tribunali dei paesi democratici questo spazio è grandemente
diminuito.
Ma
questa evoluzione non ha fatto venir meno il problema di fondo: tra la
“sentenza” e la “giustizia” non sempre c’è coincidenza. Una volta per via
dell’arbitrio, ai nostri tempi anche (in qualche caso) e (talvolta) per via
dell’errore di chi giudica. Però la necessità di risolvere i conflitti tra i
cittadini e di perseguire i delitti con sistemi diversi dalla forza bruta è
rimasta; e non è stata trovata una soluzione nuova. Abbiamo, oggi come ieri,
bisogno del “processo”.
Una
volta eliminato l’arbitrio, si è fatto il possibile per eliminare gli errori:
leggi chiare e precise (bè…), più gradi di giudizio, garanzie processuali
numerose (spesso efficaci solo per i cittadini ricchi che si possono permettere
difese tecniche molto costose). Certo, tutto ciò non può garantire che errori
non siano commessi. E quindi la diversità ontologica tra la “giustizia” e la
“sentenza”, che poi vuol dire tra la “verità sostanziale” e la “verità
processuale”, è rimasta. E però, più di questo non si può fare, un sistema
diverso non c’è, le “sentenze”, “giuste” o “sbagliate” che siano, sono l’unico
modo di regolamentare i rapporti tra i cittadini.
Naturalmente
ci sono errori ed errori. Alcuni sono evidenti e incontestabili (Tizio è
condannato per rapina perché, dice il giudice, il testimone X lo ha
riconosciuto; ma non è vero, negli atti processuali non c’è traccia di questo
testimone; oppure costui non ha mai detto di aver riconosciuto Tizio).
In
questi casi il sistema è strutturato in modo da permettere l’eliminazione
del-l’errore nei gradi successivi. Altre volte però l’errore è inevitabile: tre
testimoni dicono di aver riconosciuto Tizio mentre faceva la rapina; si
sbagliano tutti ma, in mancanza di altri elementi – un alibi, altri testimoni
che dicono il contrario – come si fa a saperlo? E altre volte è opinabile:
alcuni testimoni dicono una cosa e altri dicono il contrario, si tratta di
valutare chi è credibile; un giudice crede ai primi (e motiva perché) e un
altro crede ai secondi (e anche lui motiva perché); uno dei due sicuramente
sbaglia, ma quale? Ecco, questi sono proprio i casi in cui “processo” e
“giustizia” possono divergere; in cui la verità sostanziale e quella
processuale non coincidono. E si può arrivare a una sentenza sbagliata.
CHE
SI PUÒ FARE? Niente. Si seguono le regole, si va avanti in tutti i gradi di
giudizio e si accetta la sentenza definitiva. Che, attenzione, può essere
proprio quella sbagliata, magari l’errore lo commettono proprio gli ultimi
giudici: assolvono un colpevole o condannano un innocente, danno ragione a chi
non ce l’ha. Si sono sbagliati. Ma non c’è niente da fare, non ci sono
alternative. Non si può eliminare il processo per evitare gli errori, non si
può affidare la soluzione dei conflitti alla legge della forza.
NATURALMENTE
si possono punire i giudici che commettono errori, così la prossima volta
staranno più attenti. Anzi, se si tratta proprio di errori marchiani, li si
caccia. Ma come si fa a sapere quali sono gli errori? Alcune volte si può
(pensate al giudice che dice che il testimone X ha riconosciuto Caio e non è
vero) ma la maggior parte delle volte è impossibile saperlo. Pensate a sentenze
diverse sullo stesso caso: i giudici di primo grado hanno assolto, quelli di
secondo grado hanno condannato (o viceversa). Uno dei due ha sbagliato: quale?
Ecco
perché lo sdegno per Tortora arrestato, condannato in primo grado e assolto in
appello; o per Scaglia, arrestato durante le indagini e assolto in primo grado
(e non sappiamo che succederà nei gradi successivi), è irragionevole. Ognuno
può avere le sue opinioni sulla “verità sostanziale” e quindi attribuire la
responsabilità del-l’errore a quei giudici che l’hanno pensata diversamente da
lui. Ma bisognerebbe avere buon senso e obiettività: e se sono io a sbagliarmi?
Se avevano ragione i giudici di primo grado che condannarono Tortora? O i pm e
i gip che arrestarono Scaglia? E torto quegli altri?
Accontentiamoci
di escludere corruzione, inimicizie o amicizie con le parti del processo,
stupidità totale (casi nei quali il giudice è rimosso e si ricomincia da capo);
e, per il resto, accettiamo i limiti dell’uomo: la verità rivelata è per i
credenti.
Bruno Tinti (Jack's Blog - 12 novembre 2013)
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