(Copertina dell'ultima opera letteraria di Massimo Fini edita da Marsilio nel febbraio 2015)
"Questo suo libro avrebbe potuto intitolarlo “Confesso che ho vissuto”,
se Pablo Neruda non l’avesse preceduto di una quarantina d’anni. C’è chi
rimprovera a Massimo di aver dissipato il suo enorme talento, come se
del talento si potesse fare un uso diverso che sperperarlo. Lui lo ha
fatto nel solo modo consentito a un vero giornalista: con le letture
giuste, con la scrittura, con l’integrità delle proprie idee. Ma
soprattutto contando sull’incommensurabile ignoranza dei suoi colleghi"
Mi ha sorpreso non trovare nell’ultimo libro di Massimo Fini, Una vita, il nome del centravanti Ruud van Nistelrooij,
“ il grande Ruuud”, come lui lo invocava nelle nostre innocenti
evasioni telefoniche, che originate da qualche intemperanza verbale
nella sua rubrica settimanale sul Fatto scivolavano felicemente verso
una privatissima fumeria d’oppio, il calcio. Ho sempre sospettato che a
lardellare di sanguinose ingiurie la coda dei suoi scritti Massimo lo
facesse apposta per poi attaccar briga e quindi addivenire a un onorevole compromesso
(onorevole più per lui che per me che ero il direttore). Esaurito il
negoziato si poteva finalmente dare fondo all’erudizione pallonara e al
duello a colpi di dotte citazioni. Su “Ruuud” gli
lasciavo volentieri campo libero: avendo il mio rivale scommesso intere
fortune sulle prodezze dell’attaccante di Manchester United e Real Madrid,
gli attribuivo una sorta di libera docenza in materia al cui cospetto
tacevo deferente. Non sempre era così. Poco tempo fa con Massimo demmo
vita a un ignobile scazzo in quel di San Pellegrino Terme invitati
entrambi a parlare dell’universo mondo.
Sul palco ci eravamo mandati a quel paese a proposito del profilo morale del Mullah Omar:
secondo lui un eroe di cristallina purezza nella lotta contro
l’imperialismo yankee; secondo me un furfante talebano datosi a
ignominiosa fuga inforcando una moto. Più tardi, a tavola, tutto
sembrava ricomposto quando mi venne la pessima idea di contraddirlo
sull’Olanda del calcio totale anno 1974. Come due vecchi rimbambiti ci
scannammo su chi fosse stato lo stopper degli Orange, forse per qualche
bicchiere di troppo, forse per fare colpo su alcune signore che per la
verità ci osservavano schifate. Mi sarebbe piaciuto essere amico di
Massimo Fini negli anni 70 e respirare l’ebbrezza di quel giornalismo
felice e sconosciuto che non è un lavoro ma un dono degli dei
accompagnato dallo stupore che alla fine del mese ti paghino pure.
Saremmo andati in giro nella Milano da bere a esibire la nostra giovinezza oltraggiosa, e sempre bastian contrari, a contestare Craxi
nei salotti craxiani e a parlare male dei comunisti quando parlarne
male era come bestemmiare in chiesa: èpater le bourgeois. Poi, la sera a
caccia di ragazze e con il bicchiere della staffa ci sarebbe scappata,
chissà, anche una bella scazzottata. Lo so, ho usato tutti i peggiori
stereotipi del genere, ma Fini quella vita fatta così se l’è bevuta fino
all’ultimo goccio e questo suo libro avrebbe potuto intitolarlo
“Confesso che ho vissuto”, se Pablo Neruda non l’avesse
preceduto di una quarantina d’anni. C’è chi rimprovera a Massimo di
aver dissipato il suo enorme talento, come se del talento si potesse
fare un uso diverso che sperperarlo. Lui lo ha fatto nel solo modo
consentito a un vero giornalista: con le letture giuste, con la
scrittura, con l’integrità delle proprie idee. Ma soprattutto contando
sull’incommensurabile ignoranza dei suoi colleghi.
Tutto il resto non è giornalismo ma carrierismo, rispettabile attività molto praticata nelle redazioni e ben inquadrata nell’aforisma di un perfido editore:
nei giornali i più dotati scrivono, i meno dotati fanno i direttori. A
leggere Una vita, Fini qualche direzione l’ha pure sfiorata, ma al
momento di pronunciare il fatale sì l’angelo del libertinaggio deve
avergli messo una protettiva mano sulla testa. Così si è risparmiato
un’esistenza grama, quella di chi dirige i giornalisti, un masochista
inseguito dalle lamentazioni dei propri sottoposti e dalle carte bollate
degli altrui avvocati. Più che un lavoro difficile, inutile.
Questo è il meglio che posso dire di Massimo Fini.
Tutto il peggio, invece, se lo è scritto da solo in 242 pagine che i
suoi nemici (ma soprattutto le donne con cui ha ingaggiato una
spettacolare guerra dei sessi) apprezzeranno. A cominciare dalla copertina dove spiccano non uno, ma ben cinque ritratti del super-narciso:
dall’infante con i boccoli biondi al tombeur de femmes, con Gauloises
tra le labbra e sguardo assassino. Comunque gli sono debitore di una
bellissima lettera e di una scommessa perduta. Nella missiva mi ha
spiegato ciò che non ero mai riuscito a spiegarmi così bene a proposito
della distinzione fra gli uomini che amano il calcio e gli altri.
Sentite qua: “Perché è una passione gratuita. Che cosa viene al tifoso
se la sua squadra vince o perde? Quante volte uscendo da San Siro col morale a terra perché il Toro le aveva regolarmente buscate dal Milan o dall’Inter
di allora mi sono chiesto il perché: a casa mi aspettava una sposa
innamorata e un figlio piccolo, adorato. Nel tifo c’è il ‘fanciullo che è
ancora in noi’ e che, disperatamente non vuole morire”. Perfetto. La
scommessa riguarda la formazione dell’Olanda 1974. Lo stopper non era
Krol ma Rijsbergen. Avevi ragione tu, vecchio mio.
Antonio Padellaro (Il Fatto Quotidiano - 27 febbraio 2015)
L'autore ha di recente pubblicato sulla sua pagina Facebook un messaggio di saluto
per i lettori: "Nella vita arriva sempre un momento in cui, per una
ragione o per l'altra, si deve uscire di scena". Classe 1943, di padre
toscano e madre russa, dopo aver lavorato come impiegato alla Pirelli,
copywriter, pubblicitario e bookmaker approda al giornalismo nel 1970 (https://www.facebook.com/pages/Massimo-Fini/23434257565?fref=ts).
“Sono diventato cieco. La mia storia di scrittore e giornalista
finisce qui”. Con queste parole, pubblicate domenica 8 marzo sulla sua
pagina Facebook, Massimo Fini ha salutato i suoi lettori. “Sono diventato cieco.
O, per essere più precisi, semicieco o ‘ipovedente’ per usare il
linguaggio da collitorti dei medici. In sostanza non posso più leggere e
quindi nemmeno scrivere. Per uno scrittore una fine, se si vuole, oltre
che emblematica, a suo modo romantica, ma che mi sarei volentieri risparmiato”.
Nel suo congedo il giornalista fa riferimento al suo ultimo lavoro autobiografico: “Una Vita è quindi il mio ultimo libro. E la mia storia, di scrittore e giornalista, finisce qui. Del resto nella vita arriva sempre un momento in cui, per una ragione o per l’altra, si deve uscire di scena. Il sito rimane aperto per chi voglia sottoscrivere il Manifesto,
per le mail (ho qualcuno che mi dà una mano), per inviti, conferenze,
interviste perché se ho perso l’uso della vista non ho perso quello
della parola e, spero, nemmeno il ben dell’intelletto. Un grazie a tutti
quelli che mi hanno seguito in questi ultimi, e per me molto faticosi,
anni.”
Classe 1943, di padre toscano e madre russa, dopo aver lavorato come
impiegato alla Pirelli, copywriter, pubblicitario e bookmaker Massimo Fini approda al giornalismo nel 1970, lavorando nell’arco di una vita come cronista ed editorialista per quasi 100 testate tra cui l’Avanti, l’Europeo, Il Giorno, L’Indipendente, fino a collaborare con il Fatto Quotidiano ed Il Gazzettino.
Nessun commento:
Posta un commento
Tutto quanto pubblicato in questo blog è coperto da copyright. E' quindi proibito riprodurre, copiare, utilizzare le fotografie e i testi senza il consenso dell'autore.