Ho partecipato sabato al convegno Capire il futuro
organizzato da Davide Casaleggio per onorare, a un anno dalla morte, la
figura di suo padre. Gianroberto Casaleggio era uno strano animale, un
uomo molto pragmatico (alla sua intuizione della piattaforma sul web si
deve in buona parte, com’è noto, la fortuna dei Cinque Stelle) e insieme
un idealista, un ottimista che credeva nel futuro dell’uomo,
soprattutto attraverso lo sviluppo delle tecnologie, come ci dicono
certe sue teorie che si spingevano verso un orizzonte molto lontano.
Il
Convegno, vista l’importanza dei temi che ha cercato di mettere a
fuoco, aveva secondo me innanzitutto lo scopo di dimostrare che i Cinque
Stelle non sono affatto quei ‘baluba’, ignoranti e impreparati, che
tutti, o quasi tutti, vogliono far apparire.
A
me è toccato in sorte di trattare, nell’ultimo degli interventi degli
ospiti, di un tema che, in un certo senso, ricomprendeva tutti gli
altri: “Il futuro dell’uomo”.
Innanzitutto
ci sarebbe da capire se la specie umana avrà un futuro. Il problema più
importante, tra l’altro molto sentito da quasi tutti, non è
l’inquinamento globale. Non perché, come pensa Grillo, e molti altri con
lui, attraverso nuove tecnologie troveremo, come in parte abbiamo già
trovato, nuove e più pulite fonti di energia. Grillo non sa ciò che mi
disse un tempo Paolo Rossi, che non è l’ex centravanti della Nazionale e
nemmeno il comico, ma un importante filosofo della Scienza, e cioè che
“la tecnologia, in qualunque campo applicata, come risolve un problema
ne apre altri dieci ancora più complicati”. Ed è quindi un
moltiplicatore di complessità e perciò di difficoltà che usurano la
nostra vita. Noi ci salveremo dall’inquinamento semplicemente perché
l’uomo, nel corso della sua storia, ha dimostrato di essere un animale
estremamente adattabile, superato in questo solo dai topi. In Cina, a
Pechino, gli abitanti vivono praticamente in una nube tossica e pur
vivono.
Il
vero pericolo ci viene proprio da quella Tecnologia di cui oggi tutti,
non solo i grillini, sembrano entusiasti e alla quale affidiamo il
nostro futuro. Un articolo da me scritto per il Gazzettino
(10/10/2014) era così titolato: “Il più grande pericolo per la civiltà
non è l’Isis ma la Scienza”. Naturalmente non intendevo, e non intendo
qui, affermare che la Scienza in sé è il pericolo, la Scienza in sé è la
conoscenza e quindi come tale consustanziale all’uomo ciò che lo
distingue dagli altri esseri del Creato, ma appunto la scienza
tecnologicamente applicata che è cosa diversa. I nuovi e inesausti
Frankenstein stanno già lavorando a un programma, quello della società
Neuralink di Elon Musk, per impiantare nel cervello umano un chip che ne
sviluppi le capacità intellettive, ma questo non è che l’ultimo degli
orrori, molti già applicati o in fase di applicazione e dei quali si è
abbondantemente sentito parlare al Convegno.
Il
fatto è che abbiamo perso il senso del limite. Ha prevalso la tanto
strombazzata linea ideologica giudaico-cristiana che attraverso gli
innesti della tecnologia e dell’economia ci ha alla fine portato alla
società che oggi stiamo vivendo in cui si ritiene che tutto ciò che
conosciamo, che tutto ciò che possiamo fare dobbiamo, prima o poi, più
prima che poi, farlo.
Ma
alle spalle della nostra civiltà c’è un’altra cultura molto più
profonda di quella giudaico-cristiana. Ed è quella Greca. I Greci,
attraverso Pitagora, Filolao e gli altri grandi matematici e pensatori,
avrebbero potuto creare macchine molto simili alle nostre. Ma non lo
fecero perché intuivano o piuttosto capivano che andare a manipolare e
replicare la natura è pericoloso. Avevano il senso del limite. Sul
frontespizio del Tempio di Delfi era scritto: “Mai niente di troppo”. E
molti dei loro miti fondativi ruotano intorno a questo concetto.
Parlando nei loro termini, l’ubris, vale a dire il delirio di onnipotenza dell’uomo (che è proprio ciò di cui oggi siamo preda) provoca la fzonos zeon,
l’invidia dei Dei, e quindi l’inevitabile punizione (Prometeo). Nel
nostro caso la punizione verrà repentina, improvvisa, “senza darci
avvisaglia” come canta De André in un suo brano significativamente
intitolato La Morte. Perché il nostro sistema è basato sulle
crescite esponenziali che esistono in matematica ma non in natura. Noi
siamo come una lucente macchina che partita a metà del XVIII secolo con
la Rivoluzione scientifica e industriale ha percorso gli ultimi due
secoli e mezzo a grandissima velocità, ma ora si trova davanti a un muro
che non può valicare, però si ostina a dare di gas per cui prima o poi
fonde (chiunque oggi parli di crescita –mi riferisco naturalmente alle
classi dirigenti non al cosiddetto uomo comune- è un criminale).
Naturalmente poiché questo collasso non avverrà oggi né domani ma è
spostato in là nel tempo, le classi dirigenti se avessero un po’ di
cultura potrebbero risponderci ironicamente con Oscar Wild “ma che cosa
hanno fatto i posteri per noi?”. Ma il fatto è che alla velocità in cui
stiamo andando siamo diventati i posteri di noi stessi. In un vorticoso
andamento circolare siamo arrivati alle nostre spalle e ce lo stiamo
mettendo nel culo da soli. In questo sistema che ho definito ‘paranoico’
noi non possiamo mai trovare un momento di equilibrio, di armonia, di
pace. Raggiunto un obbiettivo dobbiamo immediatamente inseguirne un
altro e un altro ancora finché “morte non ci colga”. La situazione di
grande disagio esistenziale che tutti, o quasi tutti, noi avvertiamo,
qualsiasi sia la classe sociale cui si appartenga, è dovuta a questo
meccanismo. E quindi stress, angoscia, nevrosi, depressione, droga e
ogni sorta di dipendenza per colmare questo vuoto esistenziale. Noi
siamo come i levrieri, fra gli animali più stupidi della terra, con
buona pace degli animalisti, che al cinodromo inseguono la lepre
meccanica, ricoperta di stoffa, che per definizione non possono
raggiungere. La lepre ha solo la funzione di farli correre. Se la
raggiungessero il gioco, cioè il sistema, sarebbe finito.
La
grande rivoluzione che accompagna quella scientifica e industriale, è
quella, ancora più determinante, della concezione del tempo. Allo
statico e quieto presente basato sui ritmi circolari delle stagioni, si è
sostituito il dinamico futuro che non solo contiene in sé i germi della
propria autodistruzione ma è precisamente la causa del nostro
malessere.
In
questo affannoso inseguimento dell’impossibile (la lepre meccanica
della metafora) noi abbiamo perso la consapevolezza che il vero valore
della vita non è né il denaro né il lavoro, ma il Tempo, il padrone
inesorabile delle nostre esistenze. Consapevolezza che era presente
nella cultura greca e nell’Europa medievale (ma esiste anche in alcune
civiltà contemporanee, almeno quelle che non abbiamo distrutto a suon di
civilissime bombe).
Non
si tratta di ritornare all’età delle caverne ma di recuperare alcune
suggestioni delle società che ci hanno preceduto e una sapienza antica. E
capire che il futuro non è davanti ma dietro di noi.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2017)
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