È un ritorno al futuro. Il sisma che si è registrato ai vertici di Google 1, motore di ricerca numero 1 al mondo, suona più o meno così. E molto probabilmente nasce dalla voglia di perpetuare la leadership andando a recuperare lo spirito di quando si muovevano i primi passi nella Silicon Valley. Di certo ha colto di sorpresa molti osservatori dell'universo hi-tech. La rivista Techcrunch l'ha definito un vero e proprio "big bang", Il New York Times la spiegato con la necessità di ritrovare la "scintilla della start-up", la Cnn si si è domandata: "Perché?"
Ecco, appunto. Perché dal prossimo 4 aprile il CEO Eric Schmidt, anni 55, dopo un decennio lascerà il suo posto esecutivo a uno dei co-fondatori, Larry Page, anni 37, per andare a occuparsi di rapporti esterni, con l'altro fondatore Sergey Brin, anni 37, che si concentrerà sui nuovi prodotti? Le parole che hanno accompagnato questo giro di valzer alla guida del colosso mondiale del web, ovviamente tutte al miele, qualche traccia la danno. Quelle dell'uomo della concretezza - il condottiero già a capo di big dell'Hi-tech (Bell, Xerox, Sun e Novell) che venne chiamato nel 2001 a guidare un'azienda che cresceva a ritmi da capogiro ma che rischiava di sfuggire di mano ai suoi creatori - sono rassicuranti: "Larry (Page, ndr) è pronto per guidare Google". E il nuovo capo (che aveva già ricoperto il ruolo di CEO prima dell'arrivo di Schmidt): "Eric è un ottimo leader, da lui ho imparato tanto, ho preso molte lezioni". Ancora Schmidt: "Finora siamo sempre stati coinvolti nel processo decisionale allo stesso livello. E insieme abbiamo discusso su come semplificare la nostra struttura per rendere più veloce il nostro processo decisionale. Questo era il momento giusto per farlo".
Così, nel giorno in cui sventola una trimestrale sopra le attese degli analisti (fatturato di 8,44 miliardi di dollari contro i 6,67 del quarto trimestre 2010, 2,54 miliardi di profitti), il triumvirato si scioglie: Schimdt diventa consigliere considerando ormai conclusa la sua funzione di tutela e gli ex laureati di Stanford prendono decisamente in mano il timone. Alla loro maniera, però. Il nuovo amministratore delegato (Page) col compito di spingere al massimo e controllare di persona il business in un mercato dalle acque sempre agitate e che adesso ha qualche insidia in più; l'altro (Brin) per fare quello che gli è sempre piaciuto e che in fondo ha rappresentato l'anima vincente di Google: immaginare e sperimentare il web prossimo venturo.
Una cosa è certa: negli ultimi 10 anni (che nell'informatica sono un'era geologica) molte cose sono cambiate. La giovane e snella start-up di Mountain View si è trasformata negli anni in un gigante che tutto fa e in (quasi) tutto si afferma come leader planetario. Tuttavia, in quanto gigante si ritrova quasi a fare i conti nel tempo con uno scatto appannato e con una ridotta capacità visionaria. Quella dote tipica di chi comincia e sa che soltanto con le idee realmente innovative può sviluppare business e addentare il mercato. Senza contare il fastidio per quelle fughe di cervelli che hanno lasciato Googleplex andando a trovare nuovi stimoli in giovani aziende della Silicon Valley, Facebook compresa. In questa chiave un vertice ridisegnato e rimesso nelle mani dei fondatori appare la strada obbligata per un colosso che ha 23 mila dipendenti in tutto il mondo, fattura 28 miliardi di dollari ogni anno e non può permettersi risposte "lente" alle sfide del mercato.
Non solo. Attorno a Mountain View il panorama è cambiato, e pure parecchio. Ora ha l'impatto e i numeri monstre di Facebook, mentre Google cerca ancora 2 - senza trovarla - una strada convincente per dire la sua nel mondo dei social network: Buzz non ha conquistato gli utenti e Orkut è un mondo a parte. Il modello Zuckerberg funziona (proprio oggi ha fatto sapere di aver raccolto 1,5 miliardi di dollari, di avere quindi un valore di 50 miliardi e di volersi quotare in Borsa nel 2012), sia come raccolta pubblicitaria che come contenuti, ha margini di crescita ancora inesplorati e questo spaventa non poco Big G. Così come spaventa la crescita di Twitter, che è capace di modificare il modo stesso con cui gli utenti comunicano. Anche perché tra gli obiettivi di chi ha in mano il mercato delle ricerche e dell'advertising online ci sono proprio dei terreni - come la pubblicità in mobilità - sui quali la concorrenza è già agguerrita e sta cominciando a segnare il territorio.
C'è Apple, per esempio, a scandire i tempi dell'innovazione - e a prendersi in anticipo fette di mercato - con i suoi modelli di iPhone con la sua tavoletta "magica" iPad, con il negozio multimediale online, con le invenzioni software. Certo, Google ha risposto sempre ma lo ha fatto con risultati contrastanti. Se l'ambiente open source per smartphone Android sta riscuotendo successo, Mountain View deve fare i conti con i ritardi di Chrome OS, sistema operativo tutto "Cloud" ma ancora in fase di beta, e della Google TV. Insomma, il gigante soffre quando in qualche caso è costretto rincorrere. Vuol tornare a dettare la linea. Provando a cambiare pelle per ritrovare la "scintilla" di una volta.
Daniele Vulpi (La Repubblica - 21 gennaio 2011)
Ecco, appunto. Perché dal prossimo 4 aprile il CEO Eric Schmidt, anni 55, dopo un decennio lascerà il suo posto esecutivo a uno dei co-fondatori, Larry Page, anni 37, per andare a occuparsi di rapporti esterni, con l'altro fondatore Sergey Brin, anni 37, che si concentrerà sui nuovi prodotti? Le parole che hanno accompagnato questo giro di valzer alla guida del colosso mondiale del web, ovviamente tutte al miele, qualche traccia la danno. Quelle dell'uomo della concretezza - il condottiero già a capo di big dell'Hi-tech (Bell, Xerox, Sun e Novell) che venne chiamato nel 2001 a guidare un'azienda che cresceva a ritmi da capogiro ma che rischiava di sfuggire di mano ai suoi creatori - sono rassicuranti: "Larry (Page, ndr) è pronto per guidare Google". E il nuovo capo (che aveva già ricoperto il ruolo di CEO prima dell'arrivo di Schmidt): "Eric è un ottimo leader, da lui ho imparato tanto, ho preso molte lezioni". Ancora Schmidt: "Finora siamo sempre stati coinvolti nel processo decisionale allo stesso livello. E insieme abbiamo discusso su come semplificare la nostra struttura per rendere più veloce il nostro processo decisionale. Questo era il momento giusto per farlo".
Così, nel giorno in cui sventola una trimestrale sopra le attese degli analisti (fatturato di 8,44 miliardi di dollari contro i 6,67 del quarto trimestre 2010, 2,54 miliardi di profitti), il triumvirato si scioglie: Schimdt diventa consigliere considerando ormai conclusa la sua funzione di tutela e gli ex laureati di Stanford prendono decisamente in mano il timone. Alla loro maniera, però. Il nuovo amministratore delegato (Page) col compito di spingere al massimo e controllare di persona il business in un mercato dalle acque sempre agitate e che adesso ha qualche insidia in più; l'altro (Brin) per fare quello che gli è sempre piaciuto e che in fondo ha rappresentato l'anima vincente di Google: immaginare e sperimentare il web prossimo venturo.
Una cosa è certa: negli ultimi 10 anni (che nell'informatica sono un'era geologica) molte cose sono cambiate. La giovane e snella start-up di Mountain View si è trasformata negli anni in un gigante che tutto fa e in (quasi) tutto si afferma come leader planetario. Tuttavia, in quanto gigante si ritrova quasi a fare i conti nel tempo con uno scatto appannato e con una ridotta capacità visionaria. Quella dote tipica di chi comincia e sa che soltanto con le idee realmente innovative può sviluppare business e addentare il mercato. Senza contare il fastidio per quelle fughe di cervelli che hanno lasciato Googleplex andando a trovare nuovi stimoli in giovani aziende della Silicon Valley, Facebook compresa. In questa chiave un vertice ridisegnato e rimesso nelle mani dei fondatori appare la strada obbligata per un colosso che ha 23 mila dipendenti in tutto il mondo, fattura 28 miliardi di dollari ogni anno e non può permettersi risposte "lente" alle sfide del mercato.
Non solo. Attorno a Mountain View il panorama è cambiato, e pure parecchio. Ora ha l'impatto e i numeri monstre di Facebook, mentre Google cerca ancora 2 - senza trovarla - una strada convincente per dire la sua nel mondo dei social network: Buzz non ha conquistato gli utenti e Orkut è un mondo a parte. Il modello Zuckerberg funziona (proprio oggi ha fatto sapere di aver raccolto 1,5 miliardi di dollari, di avere quindi un valore di 50 miliardi e di volersi quotare in Borsa nel 2012), sia come raccolta pubblicitaria che come contenuti, ha margini di crescita ancora inesplorati e questo spaventa non poco Big G. Così come spaventa la crescita di Twitter, che è capace di modificare il modo stesso con cui gli utenti comunicano. Anche perché tra gli obiettivi di chi ha in mano il mercato delle ricerche e dell'advertising online ci sono proprio dei terreni - come la pubblicità in mobilità - sui quali la concorrenza è già agguerrita e sta cominciando a segnare il territorio.
C'è Apple, per esempio, a scandire i tempi dell'innovazione - e a prendersi in anticipo fette di mercato - con i suoi modelli di iPhone con la sua tavoletta "magica" iPad, con il negozio multimediale online, con le invenzioni software. Certo, Google ha risposto sempre ma lo ha fatto con risultati contrastanti. Se l'ambiente open source per smartphone Android sta riscuotendo successo, Mountain View deve fare i conti con i ritardi di Chrome OS, sistema operativo tutto "Cloud" ma ancora in fase di beta, e della Google TV. Insomma, il gigante soffre quando in qualche caso è costretto rincorrere. Vuol tornare a dettare la linea. Provando a cambiare pelle per ritrovare la "scintilla" di una volta.
Daniele Vulpi (La Repubblica - 21 gennaio 2011)
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