A differenza di altri io ho avuto sempre una certa simpatia e anche stima per l’onorevole Giulio Andreotti.
Ho incontrato il 'divo Giulio' solo in due occasioni. Nel 1980 lavoravo per Il Settimanale e
mi ero messo in testa di fare un’inchiesta sui danni che aveva
provocato all’Italia l’aver fissato la capitale a Roma e avanzavo la
proposta protoleghista di spostarla altrove («Via da Roma la capitale», Il Settimanale, 4/11/1980).
Fra i personaggi da sentire mi sembrava indispensabile Giulio
Andreotti, politico già allora di lunghissimo corso e oltretutto romano
doc. Ma disperavo di arrivarci, Il Settimanale era
un piccolo giornale. Telefonai alla segretaria, la mitica Enea, che mi
chiese il tema dell’intervista, il tempo che mi occorreva e quello che
avevo per andare in pagina. Le spiegai il tutto. Mi rispose che mi
avrebbe fatto sapere entro una mezz’ora. E infatti dopo mezz’ora mi
chiamò dicendomi che l’onorevole Andreotti mi avrebbe ricevuto per
quaranta minuti in un centro diocesano di Metanopoli vicino
all’aeroporto di Linate perché subito dopo sarebbe dovuto ripartire per
Roma. La cosa mi stupì: era un modo di fare alla tedesca, non
all’italiana. In Italia, almeno allora, se volevi intervistare un personaggio politico anche di media taccadovevi
passare per tre o quattro portaborse i quali ti facevano capire che, se
volevi arrivare all'augusto personaggio,la cosa non sarebbe stata,
politicamente, a gratis. In
Germania o in Svizzera o in Olanda o in Svezia anche quando devi
intervistare un importante ministro la prassi è quella seguita da
Andreotti. Non è solo una questione di bon ton politico, ma di civiltà e
di stile.
Incontrai
quindi Andreotti in questo centro diocesano. Era accompagnato da una
piccola corte. Entrammo in una grande sala spoglia dove c’era solo un
piccolo tavolo in legno e ci sedemmo l’uno di fronte all’altro mentre la
corte rimaneva rispettosamente sulla soglia. Andreotti fece un lieve
cenno con la mano, la porta si chiuse e rimanemmo soli. Io avevo allora
35 anni, ero nel pieno delle mie forze, di fronte mi stava quest’uomo
minuto, fragile. Pensai che se solo avessi voluto avrei potuto
agevolmente strozzare l’onorevole Andreotti prima che qualcuno potesse
intervenire. Non lo feci e ascoltai una magistrale lezione sulla storia
d’Italia, di Roma, delle Istituzioni repubblicane, della Pubblica
Amministrazione, della burocrazia, del diritto e, insomma, di tutto ciò
che riguarda i gangli vitali di uno Stato.
Il
secondo incontro fu casuale, ma divertente e non privo, anch'esso, di
un certo significato. Un pomeriggio ero all’ippodromo romano delle
Capannelle e camminavo chino sul giornale Il Cavallo per vedere
chi puntare alla corsa successiva, quando mi scontrai con un uomo
anziano che stava facendo la stessa cosa. Gli caddero gli occhiali, mi
chinai a raccoglierli e, rialzandomi, glieli porsi, scusandomi. Solo
allora mi accorsi che era Giulio Andreotti. Solo. Non vidi alcuna
scorta. Ce l’avrà anche avuta, ma se c’era stava a debita distanza. Si
scusò a sua volta e rimise la testa nel giornale. Mi piacque che avesse
questo vizio delle scommesse. Gli uomini senza vizi sono pericolosi.
Negli ultimi anni gli mandavo i miei libri e anche qualche suo ritratto
agrodolce che avevo scritto per i giornali. Lui rispondeva sempre con
brevi biglietti, cortesi, vergati con una calligrafia minuta, senile, ma
chiarissima. E anche questa è una questione di stile oltre che di buona
educazione.
Andreotti
è stato un grande ministro degli Esteri. In tempi difficilissimi,
quando l’alleanza con gli Stati Uniti era obbligata perché incombeva
l’orso sovietico e atomico, è riuscito a fare una politica di
appeacement con i Paesi del mondo arabo-musulmano i cui frutti godiamo, in parte, ancora oggi. Questo non è mai piaciuto agli americani e credo che in alcune disavventure posteriori del 'divo Giulio'
ci sia il loro zampino. Ma con Andreotti l’Italia ha avuto, per anni,
una politica estera coerente, felpata ma efficace, all’altezza degli
altri grandi Paesi europei. E non è un caso, come ha notato Sergio
Romano, se la politica estera si fa con lo stile di Andreotti e non di
Berlusconi.
Andreotti
ha avuto sempre la consapevolezza di essere classe dirigente, con
responsabilità e doveri che andavano oltre la sua persona. Sottoposto a
un durissimo processo durato sette anni, che lo ha spazzato via dalla
vita politica, non ha mai parlato di “complotto” della Magistratura in
combutta con chicchessia. Perché una classe dirigente consapevole
d’esser tale non delegittima le Istituzioni, perché sa che sono le 'sue'
Istituzioni e che dalla loro disgregazione e dal caos che ne consegue
ha tutto da perdere. Insomma si tratta di quel senso dello Stato che
Berlusconi non ha e che non ha la maggioranza dell’attuale classe
politica, di destra soprattutto, ma anche di sinistra. Andreotti è poi
uscito assolto da quel processo per mafia, come da quello per l’omicidio
Pecorelli, ma si è ben guardato da mettere sotto accusa i Pubblici
ministeri Caselli e Lo Forte, come pretendeva quell’irresponsabile
mascalzone e narciso di Cossiga. Ha, al contrario, ammonito, mentre si
scatenava la canea 'garantista' dei berluscones, a non fare il processo
ai giudici, sottolineando anche con sottigliezza giuridica: “È fuori
luogo mettere sotto accusa la Procura. Se tutte le volte che le Procure
hanno torto finissero sotto accusa i Tribunali starebbero attentissimi,
tra l’altro, a non metterle nei guai”. In quel processo è stato anche
accertato che Andreotti ebbe effettivamente rapporti con la mafia prima
del 1980. Questo può scandalizzare Marco Travaglio, non chi, come me, ha
qualche anno di più e sa che rapporti con la mafia in Italia li hanno
avuti tutti anche l’integerrimo Ugo La Malfa attraverso la sua 'longa
manus' in Sicilia, Gunnella. Quella dei rapporti fra i politici e Cosa
Nostra è una tabe che ci portiamo dietro da quando la mafia aprì le
porte della Sicilia alle truppe americane e non riguarda certo il solo
Andreotti.
Se
fosse nato in un altro Paese Giulio Andreotti sarebbe stato un grande
statista. In Italia ha potuto esserlo solo a metà, dovendo impegnare
l’altra metà negli intrighi, spesso loschi, che caratterizzano la vita
politica italiana.
Ma
nell’ora della tua morte noi ti salutiamo 'divo Giulio' con rimpianto.
Con te se ne va una lunga stagione della politica italiana e, visto
quello che è venuto dopo, non certo la peggiore. Se esiste quel Dio in
cui tu credevi, andando prestissimo ogni mattina alla Messa, ti sarà
sicuramente benevolo.
Massimo Fini (massimofini.it - 7 maggio 2013)
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