Angelino Alfano è salvo, il governo Letta pure, la democrazia
italiana un po’ meno. Venerdì 19 luglio, durante il dibattito sulla
sfiducia (mancata) al ministro per il caso kazako, Palazzo Madama compie un ulteriore passo verso il basso.
Non l’ultimo, visto che, come è ormai perfettamente intuibile, i nostri
sedicenti rappresentanti quando toccheranno il fondo si metteranno
alacremente a scavare.
Tra le cosiddette alte cariche dello Stato va pericolosamente di moda la giurisprudenza costituzionale creativa. Tanto che il presidente del Senato, Piero Grasso, sceglie il palcoscenico della discussione in diretta tv per enunciare, di fatto, due nuovi, rivoluzionari, principi: la censura preventiva sui discorsi dei parlamentari e il divieto di nominare pubblicamente Giorgio Napolitano.
Tutto accade quando Grasso stoppa il capogruppo del Movimento 5 Stelle, Nicola Morra
che, ricostruendo il caso kazako, sta per citare una frase dell’Eterno
Presidente: “Ieri è intervenuto nel dibattito politico chi sta sul
Colle…”. Apriti cielo: “Non sono ammessi riferimenti al Capo dello Stato.
Lasciamolo fuori da quest’aula”, interviene fulmineo e autoritario
Grasso. Morra prova a chiarire: “dicevo il presidente della
Repubblica”. Lui lo riprende di nuovo: “L’ho invitata a lasciarlo fuori,
lei non può nominarlo (sic)”.
A vederla con ironia, ci sarebbe da stare tranquilli.
In fondo questa è la migliore dimostrazione di come sbagli chi pensa
che la democrazia italiana, guidata da Re Giorgio, si stia trasformando
in monarchia. Ad ascoltare Grasso l’obbiettivo – tragicomico – pare
diventare un altro: la teocrazia, nel senso letterale del termine. La transmutazione, forse anche a causa dell’età, del vetusto Presidente in sovrano di natura divina (un Faraone) con l’obbligatorio corollario di comandamenti.
Da sempre irresponsabile per i reati commessi nelle sue funzioni e da qualche tempo non intercettabile, Napolitano esce ora dall’aula della discussione su Alfano come non nominabile e, in fondo, pure infallibile.
Davanti all’articolo 95 della Costituzione
che testualmente recita: “I ministri sono responsabili collegialmente
degli atti del consiglio del ministri, e individualmente degli atti dei
loro dicasteri”, i senatori, con poche eccezioni, non si limitano infatti a seguire i suoi diktat sul governo Letta. Applaudono pure ogni sua (per molti sconcertante) interpretazione della Carta .
“Anche, ma non solo per dei ministri, è assai delicato e azzardato evocare responsabilità oggettive o consustanziali alla carica che si ricopre” aveva detto Napolitano appena 24 ore prima. E adesso il capogruppo del Pdl, Renato Schifani, lo elogia. Poi, quasi da moderno aruspice, lo interpreta:
“Non esiste il principio di responsabilità oggettiva nelle istituzioni.
Chi sbaglia paga, ma se il ministro non è stato informato dalla catena
di comando non vedo in forza a quale principio politico, istituzionale,
etico o sociale, debba pagare”.
Dopo l’intervento del Colle l’articolo 95 non sembra più in vigore. La Casta del “a mia insaputa” vince. E tra gli applausi che celebrano il redivivo Alfano la mente va a un altro Presidente. A Luigi Einaudi, un Presidente vero. Uno
che tanti anni fa avvertiva: “Non le lotte o le discussioni devono
impaurire, ma la concordia ignava e l’unanimità dei consensi”.
Peter Gomez (Il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2013)
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