Al fine di garantire la sua autonomia e libertà, è riconosciuta al
presidente della Repubblica la non-responsabilità per qualsiasi atto
compiuto nell'esercizio delle sue funzioni. Le uniche eccezioni a questo
principio si configurano nel caso che abbia commesso due reati
esplicitamente stabiliti dalla Costituzione: l'alto tradimento (cioè l'intesa con Stati esteri) o l'attentato alla Costituzione
(cioè una violazione delle norme costituzionali tale da stravolgere i
caratteri essenziali dell'ordinamento al fine di sovvertirlo con metodi
non consentiti dalla Costituzione).
In tali casi il presidente viene messo in stato di accusa dal
Parlamento riunito in seduta comune con deliberazione adottata a
maggioranza assoluta, su relazione di un Comitato formato dai componenti
della Giunta del Senato e da quelli della Camera competenti per le
autorizzazioni a procedere. Una volta deliberata la messa in stato
d'accusa, la Corte Costituzionale (integrata da 16 membri esterni) ha la
facoltà di sospenderlo in via cautelare.
Nella storia repubblicana si è giunti in un solo caso alla richiesta
di messa in stato d'accusa, nel dicembre '91 contro il presidente Cossiga;
il caso si chiuse con la dichiarazione di manifesta infondatezza delle
accuse da parte del Comitato Parlamentare, peraltro giunta quando il
settennato si era già concluso. Per i reati commessi al di fuori dello
svolgimento delle sue funzioni istituzionali il presidente è
responsabile come qualsiasi cittadino. In concreto, però, una parte
della dottrina ritiene esista improcedibilità in ambito penale nei
confronti del presidente durante il suo mandato; nel caso del presidente
Oscar Luigi Scalfaro (sotto accusa per peculato),
di fronte al suo rifiuto di dimettersi e alla mancanza di iniziative da
parte del parlamento, il processo fu dichiarato improcedibile.
Il Capo dello Stato può dar vita a illeciti compiuti al di fuori
dell'esercizio delle sue funzioni, e in questi casi varrà l'ordinaria
responsabilità giuridica. In particolare, se è difficile immaginare un
vero e proprio illecito amministrativo (coincidente con un reato
funzionale), non si può invece escludere che il presidente sia chiamato,
sul piano civile, a risarcire un danno, per esempio per un incidente
stradale.
Secondo parte della dottrina, non sarebbe accettabile la tesi (rigettata a suo tempo in Assemblea Costituente da Umberto Elia Terracini)
che egli risponda di eventuali comportamenti criminosi solo alla fine
del settennato: si dimetta o meno, egli deve rispondere subito per i
reati di cui è accusato, pena l'ammissione di un privilegio che
romperebbe con gli artt. 3 e 112 della Costituzione. Altra autorevole
dottrina è favorevole al giudizio alla fine del settennato (sempre che
nel frattempo non siano decorsi i termini di prescrizione), non
escludendo le dimissioni del Capo dello Stato, sia pur solo qualora il
reato commesso sia particolarmente grave.
Si è cercato di porre riparo a questa incertezza con il cosiddetto "lodo Schifani",
disponendo che i presidenti della Repubblica, del Consiglio, della
Camera, del Senato e della Corte costituzionale non possano essere
sottoposti a procedimenti penali per qualsiasi reato anche riguardante
fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione fino alla
cessazione delle medesime. Ne discendeva la sospensione dei relativi
processi penali in corso in ogni fase, stato o grado. Legge, la 140 del
2003, che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima, almeno in
questa parte, per violazione degli articoli 3 e 24 della Costituzione.
Un provvedimento simile, con alcune correzioni dovute ai rilievi della
Corte costituzionale, denominato "Lodo Alfano", è stato proposto e approvato durante la XVI Legislatura, ma anch'esso dichiarato illegittimo per violazione degli articoli 3 e 138 della Costituzione.
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