Questa intervista è stata realizzata da Frank Horvat e fa parte del libro Entre Vues,
una serie di conversazioni con alcuni tra i più importanti fotografi del ‘900.
La versione italiana è pubblicata per la prima volta su Maledetti Fotografi.
Marc Riboud: La mia prima reazione all’idea
stessa di quest’intervista è stato un rifiuto di parlare di fotografia. Perché
discutere e commentare un processo che è essenzialmente una reazione spontanea
davanti ad una sorpresa? È una cosa che non si analizza. Oppure bisognerebbe
discutere lungamente sull’importanza della sensibilità di ciascuno nella sua
reazione davanti a questa sorpresa. Ma io non sono uno psicologo e parlare
troppo di fotografia mi infastidisce. D’altra parte, e in apparente
contraddizione con ciò che ho appena detto, sento sempre più l’interesse di
precisare il mio pensiero. Noi non siamo delle macchine, dietro questa macchina
di cui ci serviamo: pensiamo prima di scattare una foto, pensiamo – molto poco
– mentre la scattiamo, e dobbiamo pensare dopo averla scattata. È importante
formulare questo pensiero, affinché non resti una nuvola vaga e cangiante a
secondo del nostro umore e quello degli altri. Dunque mi dico che forse è bene
forzare un fotografo ad esprimere il suo pensiero. E non mi dispiace trovarmici
forzato.
Frank Horvat: Restiamo concreti. Quando dici che hai esaminato le tue foto degli
ultimi trentacinque anni e ne hai scelte cento per una mostra, non posso fare a
meno di pensare alle venti o trentamila che non hai scelto. Eppure sono foto il
cui soggetto ti interessava. Possiamo analizzare i criteri che ti hanno fatto
scegliere queste piuttosto che altre?
È chiaro che il soggetto, da solo, non basta. Ho fotografato
migliaia di soggetti interessanti, ma che non hanno sempre prodotto buone foto.
D’altra parte, diresti che
una foto può essere buona senza che il soggetto sia interessante? Per esempio
la foto di copertina del tuo catalogo?
Direi che se non c’è un buon soggetto si cade
facilmente nell’estetismo. Questa foto in particolare è stata criticata, alcuni
la considerano una nota stonata nella mostra. Io però ci vedo non solo una
ricerca formale, ma un misto di intimità e di distanza, che riflette il mio modo
di lavorare. Ed anche un certo pudore, benché la foto mostri una donna nuda.
Per me, il soggetto esiste: è la casa di Anna Farova, che è una mia cara amica.
Le cartoline postali sul caminetto sono segni importanti. Isabelle, la figlia
di Anna, tiene in mano il Photo-Poche di Cartier-Bresson, che le avevo appena
portato. Si vede pure un libro, Les Résonances de l’Amour, un regalo di
Anne Philipe ad Anna Farova, poi una cartolina postale della Sicilia inviata da
Martine Franck, su cui si legge Santa Anna, e un’altra cartolina con il
logo della mostra organizzata da Anna Farova a Plassy. È tutto il giardino
segreto di una donna importante per me, una donna coraggiosa, che lo ha
dimostrato del resto in occasione del movimento Charta 77. Certo che, per un
verso, questa foto è diversa dalle altre. Ma contiene un denominatore comune a
tutte le mie foto: un approccio naturale, senza angolazioni strane, senza
effetti tecnici o di luce. Una distanza, ma allo stesso tempo una tenerezza
visiva.
Se dovessi scegliere una
foto che ti rappresenti, potrebbe benissimo essere questa. Ci vedo
effettivamente il ritratto di un’intimità. Ma soprattutto un rapporto visivo
fra tre elementi. Se tolgo il gatto, coprendolo con la mano…
… la foto non funziona più.
Ed è lo stesso per il nudo e
per la statuetta.
Bisogna che un insieme si organizzi dal punto di vista
visivo. Comunque c’è una cosa che mi disturba: il libro, sono stato io a
metterlo là, perché è un libro che amo molto. È stato il mio unico intervento –
a parte il nudo, naturalmente: mi avevano chiesto un nudo, per una raccolta, e
siccome non ne avevo, ho chiesto a Isabelle di posare. Qualcuno ha detto che le
mie foto non sono mai centrate su un elemento solo. Non c’è mai un soggetto
principale, come un primo piano o un personaggio – ma l’occhio è invitato a
vagare per l’immagine. In origine, questo deriva certo dalla mia timidezza, ma
un altro lato del mio carattere è il mio debole per la geometria…
Cerchi delle coincidenze.
Non mi piace la parola coincidenze, fa pensare
al caso. Come quelli che fotografano tipi strani che passano sotto manifesti
altrettanto strani. Io cerco relazioni nello spazio, tra elementi che
interagiscono, in modo che l’insieme dica qualcosa. Una sorpresa visiva, con
un’organizzazione della forma.
Lo spettatore deve rimanere
sorpreso, ma, allo stesso tempo, avere la sensazione che ciò che lo sorprende
fa parte di un ordine.
Come per tutti i mezzi espressivi. In Proust, si passa
di sorpresa in sorpresa, ed allo stesso tempo la sua prosa è una magnifica creazione
stilistica, una vera musica. La fotografia è un mezzo espressivo minore o
marginale, ma eccitante – ed è soggetta alle stesse esigenze.
Era considerata minore o
marginale quando siamo diventati fotografi. Forse è questo che ci ha preservato
da quella malattia tipica del nostro tempo, che è l’ossessione
dell’originalità. Non ci chiedevano originalità, eravamo come su delle rotaie,
in un sistema che sembrava destinato a durare. Non dovevamo nemmeno
interrogarci sulla fotografia, bastava aprire Life, o guardare il lavoro di
Henri (Cartier-Bresson), di Robert Capa o di Eugene Smith. Soprattutto nel tuo
caso: tu sei diventato fotografo come si diventava pittori nel Rinascimento,
eri l’allievo di Henri e il tuo lavoro non mostra nessuna intenzione di distinguerti
da lui. Eppure questo non ti ha impedito di produrre un’opera diversa,
inconfondibile, interamente tua. Son sicuro che allora tu non ti ponevi grandi
domande sulla fotografia, volevi solo essere un testimone di quello che
succedeva nel mondo…
No, non ho mai voluto essere un testimone. Direi
piuttosto ho girato per il mondo – o meglio attorno al pianeta. Non bisogna
lasciarsi trasportare dai grandi discorsi, le cose sono più semplici. È vero
che il mio inizio è stato lento. Ero intimidito dall’ambiente della Magnum e
particolarmente dalle personalità di Cartier-Bresson, Capa e Chim, che per me
erano cariche di significati e di insegnamenti. Mi sembrava che ci fosse una
gran distanza tra loro e me: io non sapevo viaggiare come loro, non conoscevo nulla
del fotogiornalismo. Ma, allo stesso tempo, avevo un forte istinto
d’indipendenza. La mia prima decisione, dopo essere stato accolto nella Magnum,
è stata di lasciare Parigi e la Francia per due anni. Ho avuto pochissimi
contatti con gli altri fotografi. Conoscevo un po’ il loro stile, che non era
solamente un modo di fotografare, ma uno stile di vita. Come dici, l’idea di
distinguermi dagli altri, attraverso quella che oggi viene chiamata una
personalità fotografica, non mi sarebbe venuta in mente. D’altra parte nessuno
utilizzava questo termine. Quando ci capitava di incontrarci, non parlavamo
delle belle foto che avevamo fatto, ma dei paesi visti, dei personaggi
incontrati. Ci scambiavamo indirizzi, nomi di bar, ci raccontavamo le nostre
avventure. È vero che Cartier-Bresson e certi altri avevano tendenze
pedagogiche, direi anche moralizzatrici. Inconsciamente esercitavano una
pressione morale, non solo sul lavoro fotografico, ma anche sul resto, perfino
sul modo di sistemare gli apparecchi nella borsa. E poichè li rispettavo, mi
lasciavo influenzare, cosa che oggi non rimpiango. Ma avevo anche un istinto di
ribellione, come lo avevo avuto rispetto alla mia famiglia, quando mi ero unito
ai partigiani o quando ho lasciato il mio lavoro di ingegnere.
E in seguito? Dopo gli anni
Sessanta? Per molti di noi, è stato un periodo di incertezza. I fotografi della
Magnum si sono sistemati, ciascuno nel suo circuito e nella sua
specializzazione. Riviste come Life sono scomparse. Non c’erano più tribune per
testimoniare, e forse anche meno motivazioni.
Non direi. E comunque non mi piace la parola testimoniare.
Negli anni Sessanta, volevo andare in Vietnam, non per un qualche ideale di fotografo
impegnato o per riportare una qualunque testimonianza, ma
semplicemente per la curiosità di vedere da vicino quello che tutti
commentavano da lontano. Bisogna aggiungere che, in quell’epoca, era difficile
non provare simpatia per i vietnamiti, che tenevano duro sotto le bombe
americane. La simpatia, dopo tutto, aiuta a comprendere più dell’indifferenza,
o di quella pretesa obiettività che si sbandiera in tutte le occasioni e
che di fatto non esiste, né in fotografia né altrove. E man mano che
comprendevo meglio questo paese, sentivo più forte, e più spesso, la voglia di
tornarci. Per vedere da vicino quello che succedeva, come ora ho voglia di
tornare spesso nel nuovo museo di Houston, al quale mi sono appassionato. Mi
frulla continuamente per la testa. Certi luoghi sono come degli amici, si ha
voglia di rivederli, di sapere come cambiano, quello che diventano. Negli anni
´60 e ´70 sono stato spesso in Cina, in Vietnam, in India, dove avevano luogo
avvenimenti importanti. Per me era naturale tornarci, senza chiedermi prima che
cosa avrei trovato. Non si possono avere idee preconcette sulle proprie
sorprese.
A proposito di idee
preconcette e di sorprese: tu hai appena fototograto il processo a Klaus
Barbie, un avvenimento che ti riguarda da vicino, essendo di Lione e avendo
partecipato alla Resistenza. Gli hai fatto un ritratto in cui ha l’aria di un
vecchio signore molto gentile
Sì. Un vecchio signore cortese, dolce, riservato. What
a gentleman!, esclamò Cornell Capa vedendo le mie foto. Uno lo avrebbe
invitato a casa o lo avrebbe assunto come precettore per i propri figli. Quando
invece era il peggiore dei sadici e degli aguzzini. È stata davvero una
sorpresa vedermelo davanti, a due metri da me. Durante il processo, ho anche
fotografato un altro personaggio importante, l’unico testimone sopravvissuto
della deportazione dei bambini d’Izieu. Si chiama Julien Favet, è un
analfabeta, ex garzone di fattoria. Un tipo orrendo, con un occhio rosso che
sembra uscire dall’orbita, la bocca deforme, uno che farebbe paura a chiunque.
Ho trascorso due ore a casa sua e ho scoperto un uomo di una straordinaria
purezza, in rivolta contro l’ingiustizia, animato da un vero culto per la
verità, anche per dettagli come la pietra su cui era seduto quando ha visto
Barbie. Ricorda tutto come fosse stato ieri, con quella memoria visiva propria
delle persone che hanno la mente poco occupata. In effetti, per me è stata
un’esperienza visiva appassionante.
Ma qual è il rapporto tra le
tue foto e ciò che consideri la realtà? Non ti preoccupa questo? In fin dei
conti c’eri andato per mostrare una realtà.
No di certo! Credersi portatori di una testimonianza è
una fesseria. Una foto non è più importante che una frase detta da uno
sconosciuto su un autobus. Noi fotografiamo solo dettagli, piccoli frammenti
del mondo. Questo non implica un giudizio, anche se l’accumulazione di questi
dettagli sembra corrispondere a un punto di vista.
Non ne sono convinto. Mi
ricordo di una foto fatta da Elliott Erwitt nel 1960, durante la campagna
elettorale tra Kennedy e Nixon. Ci si vede Nixon in visita a Mosca, che alza il
pugno sotto il naso di Khrouchtchev, senza dubbio nel calore di una
discussione. Tirata fuori dal suo contesto, la foto sembra dire che Nixon
sarebbe stato l’uomo capace di tener testa ai sovietici, ed è in questo senso
che è stata usato e che ha quasi fatto vincere le elezioni a Nixon. Alla Magnum
si mordevano le mani, Elliott per primo. Ma potrei citarti altri esempi, anche
tra le tue foto. Tu hai mostrato la Cina della Rivoluzione Culturale…
No, appunto! Non sono nemmeno stato in Cina durante la
Rivoluzione Culturale, ci sono stato solo prima e dopo. È vero che alcune foto
fatte prima sono state pubblicate durante la Rivoluzione, e tu vuoi
probabilmente dire che mostrano la Cina di quell’epoca con simpatia. Ma se le
riconsideriamo oggi – Claude Roy, che conosce bene la Cina, lo dice – ci
accorgiamo che mostrano la durezza del regime. Ed in ogni caso, un dettaglio
fotografato non prova una verità generale. Se ho fotografato una donna nuda in
Cina, questo prova solo che, su un miliardo di cinesi, c’è stata una donna che
s’è lasciata fotografare nuda, in un’accademia di Belle Arti, a Pechino, nel
1957. Evidentemente l’abuso di un tale dettaglio, da parte della stampa, può
alterare il vero volto di un insieme. Spetta a noi fare il possibile per
evitarlo.
Torniamo a Barbie. Eri di
fronte a lui. Sapevi chi era. Udivi le testimonianze sulle sue atrocità. Nel
tuo mirino, vedevi un vecchio signore gentile. Cosa ti sei detto?
Non mi son detto niente. Non mi son neanche reso conto
che aveva un’aria gentile. È stato dopo, guardando le foto, che ho visto e
scoperto molte cose. Sul momento, il problema principale erano gli spintoni
degli altri sette o otto fotografi. Dovevo fare foto in bianco e nero e a
colori, primo piano e vista d’insieme. Sapevo che avrei avuto solo dieci minuti,
e mi ero detto che per non perdere tempo a ricaricare, avrei avuto bisogno di
sei o sette corpi macchina. E siccome ne possiedo solo quattro, me ne sono
fatto prestare due supplementari, solo che mi hanno dato gli ultimi modelli, a
cui non ero abituato. Così ho agganciato male le pellicole, e mi son reso conto
all’improvviso che non avanzavano. Dunque sono andato a riavvolgerle, in un
angolo, cercando di restar calmo, mentre vedevo gli altri che mitragliavano.
Tutto questo è successo molto rapidamente, non ho avuto il tempo per una
riflessione estetica o morale. Solo uscendo dal Palazzo di Giustizia ho
realizzato che quell’uomo così dolce, che avevo fotografato così da vicino, era
lo stesso che, quarantaquattro anni fa, aveva ammazzato o fatto ammazzare
alcuni dei miei amici e parenti più prossimi.
Forse quello che ti ha
salvato è proprio il fatto di non avere avuto il tempo di riflettere. Penso ad
un esempio opposto, il ritratto di Krupp, fatto da Arnold Newman con un
grandangolo molto deformante. Newman spiega che questa deformazione fu
intenzionale, per rendere il carattere diabolico del personaggio. A parer mio,
l’effetto è mancato, la forzatura toglie ogni credibilità all’immagine.
Io credo che bisogna mostrare semplicemente quello che
si scopre, cercare di ritrovare lo sguardo dell’infanzia. Solo i bambini vedono
veramente, senza idee preconcette.
Dunque, se hai finito per
produrre un’opera coerente, è perché hai registrato semplicemente ciò che
scoprivi.
Ho passato tutta un’estate a riunire le mie foto degli
ultimi trentacinque anni e a selezionarle per la mia mostra. È stata
un’esperienza molto interessante. Non ho cercato nessun legame tra quelle che
sceglievo, né relativamente al soggetto né per lo stile. Mi chiedevo solo: Questa
regge? e ponevo la stessa domanda a persone assai diverse, come mio figlio
David, Josef Koudelka, mia moglie Catherine e qualche altro. A poco a poco è
emerso un tono, e questo si può spiegare molto semplicemente: certi pittori
disponevano solo di certi pigmenti, o di un certo supporto. Questo li ha
orientati in una determinata direzione, che ha finito per precisarsi e per
diventare uno stile. La mia direzione è venuta dalla timidezza. Da ragazzo, io
non osavo nemmeno parlare a mio padre e ancora oggi mi sento intimidito da
persone che non conosco. Questo fa parte della mia natura. Ma d’altra parte ci
capita anche di sentirci spinti verso il contrario della nostra natura. Il
mestiere di fotografo mi ha fatto incontrare personaggi come Churchill,
Bertrand Russell, Ho Chi Minh, Castro. Forse lo stile delle mie foto è stato
determinato proprio dal contrasto tra la mia naturale timidezza e la volontà di
superarla.
Hai mai provato paura
fisica, nelle situazioni pericolose in cui ti sei trovato?
Sì, certo. Ma il pericolo ci attrae, come ci
attraggono le belle donne. Forse è un fenomeno fisiologico. Nel 1968 mi trovavo
a Hong Kong, ero sposato e avevo due bambini piccoli, quando i Vietnamiti hanno
lanciato l’offensiva del Tet. Senza esitare ho preso l’aereo per Saigon e mi
sono ritrovato a Hué. Un giorno, all’aeroporto militaire di Da Nang, c’è stata
una chiamata per Khe San che, come ricorderai, era assediata. Che tentazione di
saltare nell’aereo per Khe San! Avevo le mie macchine fotografiche, ero in
piena forma, perché non andare a Khe San? Ma alla fine non ho potuto…
E adesso tutte queste cose
viste e vissute, il Vietnam, la liberazione dell’Algeria, i paesaggi cinesi, il
processo Barbie, la stanza di Anna Farova, fanno, in qualche modo, parte di te.
Come se la fotografia fosse un modo di appropriarti il mondo, di sentirti a
casa dappertutto, a Saigon come a Houston o a Lione.
Ah no! Non mi sono mai sentito a casa a Saigon! Se mai
direi che a Lione non mi sento più a casa che a Saigon! Ma io sono curioso di
ciò che mi è estraneo, proprio perché estraneo. La gente che fotografo mi
sembra molto diversa da me. C’è stata una moda, in una certa epoca, di
diventare minatore per fotografare i minatori, musulmano per fotografare i
musulmani, ecc. Io non ci credo, se si diventa l’altro non c’è più la sorpresa
dell’altro. Bisogna restare se stessi e lasciarsi sorprendere.
Vorrei tornare al tema della
testimonianza: se un visitatore venuto da Marte, o dall’anno Tremila, mi
chiedesse cosa succedeva sulla Terra, verso la metà del ventesimo secolo, gli
mostrerei le foto di Cartier-Bresson. Ma se mi chiedesse: E cos’è successo
dopo?, gli mostrerei le tue. Proprio come Henri, tu ti sei sentito in
dovere di essere presente dove e quando qualcosa succedeva. In questo tu, più
di chiunque altro, sei il suo discepolo. Ed è di questo che parlo quando dico testimonianza.
Non bisogna parlarne troppo. Soprattutto non bisogna
andare in giro con una macchina fotografica e pretendere di testimoniare,
bisogna scartare quest’idea. Fotografare è un piccolo compito quotidiano.
Bisogna mantenere la propria curiosità, viverla come una passione, nutrirla
scindendo certi legami con il luogo in cui si vive, perché questi legami sono
spesso fonte di preoccupazione, e quando si è preoccupati si vede meno bene – è
per questo che i bambini vedono meglio, che gli analfabeti ricordano meglio
quello che hanno visto. Io personalmente preferisco fotografare le persone, ma
mi interessano anche le montagne nella bruma o le nature morte – purché il
soggetto offra una possibilità visiva. Se ho una preferenza per ciò che si
muove, è perché la fotografia è essenzialmente il fatto di cogliere un attimo
piuttosto che un altro, di azzeccarlo, di fermare il movimento all’istante
giusto. Come la nota giusta in musica, l’equilibrio in architettura. La
soddisfazione è tanto più grande quanto l’esercizio è più difficile, e gli elementi
da riunire più diversi, più mobili e meno prevedibili. È questo quello che
cerco, e se mi piace di più fotografare in Cina che in Australia, è
semplicemente perché mi sembra che in Cina le cose si muovono un po’ di più.
Dunque azzeccare giusto
più che testimoniare? Ma per azzeccare giusto, bisogna sapere cos’è
giusto.
Effettivamente. Dobbiamo crearci dei criteri. Come una
cornice, che costituiremmo poco a poco. Ma, d’altra parte, dobbiamo anche
saperci liberare dalla cornice: se ci fosse solo quella, cadremmo
nell’estetismo. Fortunatamente, la vita scompone le cornici, la vita è un caos
visivo, una molteplicità di forme che si sovrappongono e si mescolano, un
enorme guazzabuglio, che a noi tocca sfrondare, per trovarci un ordine
leggibile e per isolare quest’ordine dal resto. La scelta dell’attimo e
dell’inquadratura è il nostro modo di prendere posizione rispetto al caos. Noi
non abbiamo, come i pittori o i disegnatori, la possibilità di creare delle
forme, ma il nostro proposito è lo stesso: semplificare per rendere più
comprensibile.
Al posto di azzeccare
giusto potremmo forse dire riconoscere?
Sì. Rispetto ad una gamma prestabilita, che adattiamo
alle nostre esigenze e che finisce per diventare una disciplina.
Io avrei detto: rispetto ad
un’accumulazione di esperienze visive che corrisponde a Marc Riboud.
Penso ancora alla tua foto in casa di Anna Farova. Mi avevi detto che, per la
copertina del tuo catalogo, avevi esitato tra questa e quella del pittore della
Torre Eiffel. La foto del pittore è giusta anche lei, ma giusta rispetto ad
un’idea di Parigi che era diffusa allora: è una foto in cui ritrovo più Prévert
che Marc Riboud. Mentre la foto di Isabelle Farova è giusta relativamente a ciò
che s’è distillato in te nel corso degli anni. Mi fa pensare ad una tua frase: I
frutti dell’autunno sono i migliori. Questa frase corrisponde alla mia idea
di te, oggi.
Ti dirò che non mi sento per niente nel mio autunno,
anzi ho l’impressione di essere più in forma che vent’anni fa. I due momenti
più importanti della mia vita di fotografo sono stati il giorno in cui sono
entrato alla Magnum e il giorno in cui ne sono uscito. Da quando sono
indipendente, ho più tempo per la fotografia, pur restando aperto ad altre
influenze. Non so se la mia personalità sia cambiata, ma credo che si esprima
meglio. Vivo più spesso quei momenti di grazia, in cui ci sembra di vedere con
una intensità decuplicata, in cui scopriamo cose che in altri momenti non
avremmo percepito, cose che altri, forse, non percepiscono, in cui la bellezza
dei volti ci fa vibrare con più emozione. Anche questo fa parte della
fotografia: saper riconoscere questi momenti, ritrovare quella linea di mira di
cui Henri Cartier-Bresson ha parlato così bene.
Dunque la linea di mira
sarebbe qualcosa che portiamo dentro di noi e che proiettiamo, in un certo
senso, sul reale. E l‘istante decisivo sarebbe la collimazione tra
questa linea e la realtà.
La linea di mira, in fondo, è il sogno. Dovremmo
ricominciare a vedere come i bambini, con la stessa gioia di scoprire, la
stessa costante sorpresa di fronte a ciò che ci circonda. Ma la linea di mira
richiede anche rigore. Sogno e rigore non sono in contraddizione, sono aspetti
diversi di un’unica cosa. È come la musica: nessun altro mezzo d’espressione
implica altrettanta precisione matematica, eppure la musica ci invade i sensi e
ci trascina con sè. Tecnica e sensibilità vanno insieme, l’una non può esistere
senza l’altra.
O piuttosto: quando l’una
esiste senza l’altra, non si può parlare di arte. Henri ha detto: Mettere l’occhio,
la mente e il cuore sulla stessa linea di mira. Tu dici: Vedere la
realtà con lo sguardo del bambino, attraverso il rigore di una tecnica. È
la stessa metafora?
Restiamo terra terra. Cosa facevo ieri, davanti alla
piramide in costruzione nella corte del Louvre, quando portavo la mia Leica
all’occhio? Cercavo un punto di vista, una buona composizione nel rettangolo
del mirino, un ordine in quelle migliaia di elementi metallici obliqui, che si
dipartivano in tutte le direzioni, modificati continuamente dagli spostamenti e
dai gesti degli operai. Questa ricerca mi dava una gioia visiva, sensuale. In
determinati momenti, la forma corrispondeva a dei parametri miei interiori,
consci od inconsci, come una risonanza tra il soggetto e me. In fondo alla linea
di mira c’è la realtà, la realtà che l’inquadratura può trasformare in sogno.
Ma la tua metafora è proprio
equivalente a quella di Henri? O vuoi dire una cosa un po’ diversa?
Henri ha avuto formule eccellenti e definitive. Ma non
parla mai della sua motivazione fondamentale, passionale. La sua opera non può
essere paragonata a quella di nessun altro fotografo, non è come se avesse
fatto un po’ più foto di chi viene dopo di lui: ne ha fatte dieci, venti volte
di più. Dall’età di vent’anni è stato spinto da questa determinazione a uscire
tutte le mattine, a Parigi, a Calcutta o non importa dove, di essere presente
dove succedeva qualcosa, di non lasciar passare una mezza giornata senza andare
ad una manifestazione di studenti, ad uno sciopero di agricoltori, ad una
inaugurazione, ad una riunione sindacale, o semplicemente da un amico pittore,
per parlare di pittura mentre gli faceva un ritratto. Quando parla di
fotografia, Henri descrive la disciplina che si impone, quella geometria che ha
anche menzionato nel titolo di un testo: Nul n’a le droit d’entrer ici s’il
n’est géomètre. Ma se ci fosse solo quest’aspetto formale, le foto di Henri
Cartier-Bresson sarebbero aride. È il suo interesse appassionato per il mondo
che ne fa la ricchezza e l’ampiezza – e di questa passione lui non parla. Henri
è il solo che si possa considerare un testimone della nostra epoca, forse
appunto perché non ha preteso di essere un testimone.
E tu ti senti sul
prolungamento di questa linea?
Trovo la tua domanda priva di interesse. Cartier-Bresson
mi ha influenzato, come ha influenzato centinaia di persone, e non solo
fotografi. Le circostanze della vita mi hanno avvicinato a lui, ma non metterei
il mio lavoro accanto al suo, né per la qualità, né per la quantità, né per la
direzione. Mi sento diverso, spesso mi sono ribellato contro di lui, ma non ho
alcun motivo di sottolineare differenze o somiglianze.
Non ti senti un po’ il
primogenito?
Dipende. Adesso il rapporto tra noi è un dialogo, più
che un’influenza a senso unico. Henri può mostrarsi moralista, pedagogo,
esigente, voler lasciare la sua impronta sulle persone, non tollerare che chi
lo circonda segua altre regole che quelle che a lui sembrano immutabili. Se mi
sento diverso – e non solo rispetto a lui – è forse perché per me l’esercizio
della fotografia deve corrispondere a un piacere. L’uso di obiettivi diversi,
per esempio, mi dà non solo delle possibilità, ma anche dei piaceri addizionali
– pur continuando a rispettare la stessa disciplina. Dunque perché privarmene?
Usi la parola piacere,
hai usato sensualità. Questo ci porta a una delle tue contraddizioni
caratteristiche – perché quello che ci caratterizza sono le nostre
contraddizioni, più che le qualità o i difetti. Da una parte sei timido,
certamente pudico, magari anche un po’ inibito…
Pudico, sì. Ma inibito, che vuol dire?
Qualcuno che nella sua
educazione ha subito delle oppressioni…
Forse è vero. Ma non mi definirei inibito. Direi
piuttosto che per reazione…
Appunto. Ed è forse questa
sensualità repressa a determinare quella che tu chiami la tua tenerezza
visiva, questa opposizione, che si percepisce nelle tue foto, tra il
desiderio di toccare e quello di mantenere una distanza.
Senza dubbio noi tutti vogliamo andare oltre quello
che siamo, diventare il contrario di ciò che crediamo di essere.
Mi chiedo se proprio la tua
attuale maturità – I frutti dell’autunno sono i migliori – non ti
permetterà di esprimere questa sensualità più di quanto tu l’abbia espressa in
passato.
Mi è sembrato di vivere un nuovo inizio quando ho incontrato
Catherine, la donna che amo e con cui ho due bambini. Mi ha dato una pace, mi
ha liberato da tante inquietudini. Adesso posso uscire al mattino senza
portarmi dietro una nuvola di problemi. D’altra parte, anche il fatto di
allontanarmi dalla Magnum mi ha dato più libertà.
Ma io parlavo di sensualità.
La sensualità va di pari passo con il liberarsi dalle
costrizioni. Effettivamente mi sono liberato, in una certa misura, da influenze
che avevano condizionato la mia vita di fotografo…
Ti porrò la domanda in modo
più diretto: da quando esiste, la fotografia è stata un pretesto, buono o no,
ipocrita o no, per l’espressione dei fantasmi erotici dei fotografi, da Lewis
Carrol a Helmut Newton. Tu non ti sei mai avventurato su questa strada – come
non ci si è avventurato Henri, e probabilmente per le stesse ragioni…
Non so. A me non dispiace guardare le belle ragazze, i
bei corpi, sono attratto da ciò che è sensuale. Ma raramente ho fotografato
persone che provocano in me forti reazioni emotive – come evito di fotografare
ciò che è deforme o morboso. È vero che questi soggetti attirano i fotografi:
se prendi una qualsiasi pagina di rivista, di quelle in cui la pescivendola
avvolge il suo pesce, puoi essere certo di trovarci foto di sesso o di
violenza. È vero: ho evitato l’uno e l’altra.
Eppure, se questi soggetti
vengono fotografati spesso, non è solo perché i media speculano sulle emozioni
del pubblico. Ma anche perché il sesso e la violenza esistono, ci riguardano,
sono delle componenti del mondo, non meno importanti che le montagne della
Cina.
Ci sono modi diversi di mostrare le cose importanti.
La tua foto pubblicitaria per uno champagne, in cui si vede solo una spalla
scoperta, mi sembra più sensuale di una foto che mostri delle gambe aperte.
Allo stesso modo, si può far percepire la violenza mostrando i rapporti
quotidiani tra le persone, senza andare a fotografare cadaveri.
È proprio quello che voglio
dire. Per quanto riguarda la violenza, ne hai vista molta, ma hai trovato la
maniera di mostrarla senza eccesso, col tuo modo discreto, pudico e distante.
Perché non hai fatto la stessa cosa per l’erotismo?
È facile da spiegare! Per fotografare una donna nuda,
bisogna o pagarne una che si spogli, o fotografare quella che si ama. Io mi
sentirei a disagio nell’una e nell’altra situazione. Ma sognerei di passeggiare
in una foresta in cui si trovino donne belle, giovani e nude. Se mi indichi un
posto così, ci vado subito. Ma del resto, cosa intendi per erotismo? L’atto
sessuale non si compie sotto lo sguardo degli altri. Per fotografarlo bisogna
metterlo in scena e io non so far recitare attori. Se, passeggiando, mi
succedesse di vedere qualcosa di erotico, penso che magari… Ma è vero che sono
pudico, come lo sono davanti alla sofferenza. Davanti a qualcuno che soffre in
un letto d’ospedale, non tiro fuori la macchina fotografica. Ed ancora meno se
si tratta di qualcuno che m’è vicino. Ora tutte le situazioni erotiche che
potrei fotografare sarebbero o tra persone che non si credono osservate, o tra
persone che mi son vicine. In un caso come nell’altro, c’è un limite che non
oltrepassarei, sarebbe come commettere una violenza. Le fotografie erotiche che
conosco, e che mi comunicano un’emozione, sono messe in scena. E mettere in
scena, trasmettendo un’emozione senza rivelare l’artificio, è tutta un’arte.
La messa in scena sarebbe
dunque un altro limite che non vuoi oltrepassare?
Ti dirò semplicemente che non ne son capace. A parte
questo, tendo a credere che il ruolo della fotografia è di registrare quello
che avviene, non di mettere in scena.
Eppure, quando fai un
ritratto, ti capita di dire al tuo modello: Si metta vicino alla finestra;
si giri da questa parte, perché la luce è migliore. Non è messa in scena
questa?
Non gli faccio recitare altro che il suo proprio personaggio,
nel suo proprio ambiente.
Dunque quando si ha un’idea
di una persona, le si può chiedere di mettersi in una posizione o in un luogo
che corrispondono a quest’idea. Ma dove fermarsi? Prendiamo il caso del
miliziano colpito a morte, nella foto di Capa. Certi hanno sostenuto che fu una
messa in scena.
È falso. Robert Capa non avrebbe imbrogliato.
Lo credo anch’io. Ma
lasciami fare l’ipotesi: se questa foto fosse stata messa in scena, mostrerebbe
una realtà della guerra che corrisponde, effettivamente, alle osservazioni di
Capa. Che ci sarebbe di male?
Io non la chiamerei una messa in scena, ma una truffa.
Prendiamo un altro esempio:
la Veglia funebre, nel Villaggio spagnolo di Eugène Smith. Per ottenere
quella luce, Smith ha dovuto disporre con molta cura i suoi flash, cosa che non
poteva fare senza dirigere le persone presenti.
È vero che Eugene Smith aveva una grande maestria
della luce. Ma interveniva solo per trasmettere la sua emozione. Non ha mai
imbrogliato.
E se Robert Capa avesse
effettivamente visto qualcuno cadere colpito da una pallottola, e avesse voluto
ricostruire l’emozione che aveva provato?
No, no e poi no. Innanzitutto non ha fotografato
questo miliziano perché l’ha visto cadere. Lui voleva fotografare un tipo che
saltava, ed è stato in quell’attimo che l’uomo ha ricevuto una pallottola. Se
avesse davvero voluto ricostruire l’avvenimento, non avrebbe mai potuto farlo
cadere in quel modo.
Mi chiedo se non stiamo
confondendo un problema etico – È una truffa? – con un problema estetico
– La foto funziona?
Per quanto mi riguarda, trovo la realtà talmente ricca
di emozioni di ogni genere, che non vedo perché dovrei darmi la pena di dire a
qualcuno: Mostrami un’emozione. Tanto più che la foto sarebbe per
forza meno buona, e l’emozione meno… emozionante.
Effettivamente, se tu avessi
voluto mettere in scena la foto dell’americana che mette il fiore nel fucile,
non avresti mai trovato quel volto e quell’espressione. Ma hai pur chiesto a
Isabelle Farova di spogliarsi, e questo non ha mica prodotto una brutta foto.
È il gatto che fa la foto, e io non ho detto al gatto
di mettersi in quella posizione. La seduta è durata circa un’ora e c’è stato un
momento in cui è successo qualcosa. Non la chiamerei messa in scena. Non ho
imbrogliato.
Continuo a pensare che tu
confondi morale ed estetica, ma credo che, dal punto di vista della tua propria
efficacia, non hai torto. A me capita spesso di organizzare una situazione, poi
d’indietreggiare ed d’aspettare che all’interno di questa messa in scena abbia
luogo un avvenimento reale – come è successo in questo caso col gatto. Ma in
generale tu eviti questo approccio, perché senti che l’abitudine della messa in
scena rischierebbe di farti perdere quella famosa distanza, che per te è
fondamentale.
Tranne che non ho la possibilità di scegliere tra i
due approcci. Io lavoro come lavoro, perché sono come sono.
È certamente vero. Ho
trovato sul tuo tavolo questa foto che non conoscevo, e che trovo
straordinaria. Il soggetto è del tutto banale: alcuni calciatori con il loro
pubblico. Eppure, se incontrassi quel marziano che vuol conoscere la terra,
questa sarebbe una delle prime foto che gli mostrerei. Tu hai saputo vedere
oltre la banalità del soggetto, mostrando con semplicità duemila teste su una
metà del rettangolo e quattro giocatori sull’altra metà – e questo dice
moltissimo sul nostro mondo.
Ero rimasto colpito da questo mare di volti, così ben ordinati – i tifosi inglesi erano disciplinati, allora: tutti portavano la cravatta e il berretto e nessuno avrebbe alzato un braccio. È stata una delle mie prime foto a Londra, nel 1953 o 1954, Robert Capa mi ci aveva mandato per imparare l’inglese. Cornell, il fratello di Robert, fotografava quella stessa partita, per Life. Si era piazzato vicino ad una rete e io ammiravo i suoi teleobiettivi e i suoi badges e mi dicevo che non avrei mai saputo sbrigarmela come lui. Io avevo semplicemente comprato un biglietto come tutti gli altri e mi trovavo nelle tribune, con un 135mm. Non per calcolo, ma perché ero troppo timido per andare a mettermi più vicino.
Traduzione italiana di Giancarlo Biscardi.
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