Io sono
l'ultima barriera tra voi e l'Apocalisse", dice Hillary Clinton agli
americani a un mese dalle elezioni presidenziali. Fatte le debite proporzioni,
è la stessa cosa che Matteo Renzi dice agli italiani a meno di due mesi dal
referendum costituzionale. Nulla a che vedere con quel "potere
minaccioso" di cui, con imperdonabile e quasi grottesca esagerazione,
parla Massimo D'Alema. Manca solo l'accusa al "Pinochet del
Venezuela" evocato da Di Maio, e poi lo sciocchezzaio del nuovo, tragicomico
"tripolarismo" all'italiana è completo.
La verità è
che la campagna elettorale del presidente del Consiglio, in vista del voto del
4 dicembre, è un paradosso nel paradosso. Ha commesso un peccato originale,
ri-politicizzando un quesito anti-politico e trasformando una riscrittura della
Carta in un'ordalia su se stesso. Ha riconosciuto l'errore, annunciando
"basta personalizzazioni, torniamo al merito". Ma ora l'intera
macchina della propaganda referendaria gira intorno alla sua persona, tra
maratone televisive, pellegrinaggi aziendali e convegni promozionali.
Il premier è
il messaggio, al di là o a dispetto delle intenzioni. Era inevitabile che
accadesse, per come la battaglia è cominciata prima dell'estate e per come sta
evolvendo in questo autunno. Renzi ha solo due armi per convincere quel 30 per
cento di italiani che ancora non sanno come votare sul nuovo "Senato dei
100", e che secondo i sondaggisti decideranno solo nelle ultime due
settimane prima del voto.
La prima
arma è se stesso: il suo governo come "unico argine contro i
populismi" (la moderna Apocalisse, appunto, dove le élite in cerca di
rilegittimazione scaricano giustamente, ma a volte troppo frettolosamente,
tutti i nemici: da Trump a Orban, da Grillo a Salvini). Questo
"cadornismo" referendario riposa su un assunto altrettanto populista,
ma di presa sicura: votate sì, per mandare a casa i senatori fannulloni e per
tagliare i "costi della casta". Un'offerta che non si può rifiutare.
Da proporre a un Paese stressato ("Se non cambiamo adesso non cambieremo
mai più") e da opporre alla minoranza di un Pd lacerato ("Non si può
tenere ferma l'Italia per tenere unito il partito"). Assiomi forti,
politicamente e mediaticamente. Ma indimostrabile l'uno (chi ha detto che
"dopo" non si possa cambiare?) e insostenibile l'altro (chi ha detto
che correggendo l'Italicum si ferma l'Italia?).
Poco
importa. La narrazione renziana, oggi più che mai, non contempla il dubbio, ma
solo una cieca fiducia nel narratore, che riassume in sé tutto quello che serve
(la falce della rottamazione, il martello della modernizzazione) e tutto quello
che non serve più (l'identità della sinistra novecentesca, la ritualità della
democrazia "bicamerale").
Questa arma
di Renzi (Renzi medesimo) è tagliente. Affonda facilmente nella carne tremula
della minoranza Pd (che non ha saputo pronunciare al momento opportuno i
"no che aiutano a crescere", e che oggi fatica a spiegare non alla
mitica casalinga di Voghera, ma a qualunque italiano medio di buon senso, il
suo no al famoso "combinato disposto"). Forse persino nella carne
inerte della destra berlusconiana, alla quale punta platealmente a succhiare
"sangue" elettorale. Ma rischia di non incidere abbastanza sulla
carne viva del Paese. Perché Renzi stesso, vero e unico frontman del sì per i
prossimi due mesi, è quello che può spostare i voti a favore, ma anche quello
che rischia di polarizzarli contro. Perché i popoli, dalla Costituzione europea
fino a Brexit (senza arrivare alla Colombia sulle Farc) hanno preso questa
pessima abitudine di usare i referendum per votare contro qualunque forma di
establishment, quasi "a prescindere". E perché soprattutto, al di là
dei cambiamenti della Costituzione formale, quella che purtroppo non accenna a
cambiare è la condizione materiale del Paese.
Per questo
Renzi deve usare la seconda arma, forse per lui più importante e decisiva: la
prossima manovra economica. Questo spiega lo strappo consumato dal ministro
Padoan con l'Ufficio parlamentare di bilancio sui numeri del Def. E forse anche
quello minacciato dal premier in persona con la Commissione europea sul deficit
del prossimo anno. L'esigenza redistributiva coincide con l'urgenza
referendaria. Questo vuol dire che ci saranno non molte risorse, ma sparse a
pioggia su molte categorie. Ci aspetta una legge di stabilità da 25 miliardi,
di cui 13,3 in deficit e 8,5 di nuove entrate. Poco ai pensionati, poco ai
dipendenti pubblici, poco alle famiglie, poco alle imprese. Un'occasione
mancata. La settimana scorsa la Germania di Angela Merkel ha annunciato un
piano di abbattimento delle imposte per 6-7 miliardi. Handesblatt, il
quotidiano della comunità finanziaria tedesca, non ha fatto sconti alla
Cancelliera, e ha titolato "Zwei Cappuccino In Monat": due cappuccini
al mese. Da noi non saranno due cappuccini, ma magari tre pizze margherite.
Forse bastano a vincere il referendum. Ma non certo a far ripartire l'economia.
Massimo Giannini (La Repubblica, 13 ottobre 2016)
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