Luciano
De Crescenzo è da sempre stato per me un mito, anche per la sua capacità
eclettica di aver saputo mixare ironia, frivolezza, complessità e tutti gli
altri sali di sapienza e del vivere umano.
I
suoi cocktail letterari sono stati antesignani di una saggistica popolare che
ha saputo spiegare con parole semplici, comprensibili ai più, pensieri complicati e intrecciati fra teorie di filosofi e periodi storici di
riferimento.
Bellavista
e i suoi adepti, per il lettore medio, sono stati poi la sublimazione e
l’eccellenza della filosofia partenopea, facilmente riscontrabile - e da tutti
- nella quotidianità ordinaria.
Attraverso
personaggi specifici e caratterizzazioni diverse, con l’arguzia della sua fantasia, Luciano De Crescenzo ha saputo realizzare, prima attraverso la carta
stampata, poi con i films e la televisione, dei veri e propri trattati di vita,
puntellati da perle di saggezza frutto di studio: letterario, filosofico,
antropologico, semantico e chi più ne ha più ne metta.
De
Crescenzo è stato però vissuto da molti acculturati come un intruso nel loro
mondo, in special modo negli ambienti che si auto identificano con termini elitari indicati fra
due virgolette.
Questo
cappello mi è utile per contrapporre l’argomento su cui voglio “andare a
parare”.
Ogni
qualvolta mi sono imbattuto nel leggere dei saggi o dei brevi articoli che avevano a che fare con la filosofia, con la matematica, con l’astronomia e altre
materie del genere, confesso che ho trovato non poche difficoltà a seguire dei percorsi
logici quasi sempre complessi ai più.
In
molti passi, negli scritti, abbondano collegamenti non sempre raccordati in maniera
piana in modo da renderli facilmente comprensibili nel significato a tutti.
Capita
spesso, infatti, di veder esprimere concetti solo attraverso “codifiche” che individuano
certamente complessità studiate o, applicando lo stesso metodo comunicativo, citare solo l’autore per
collegarsi in modo sintetico a un più ampio discorso concettuale.
Si
tratta però, in questi casi, di un codice interno e comune solo fra gli interlocutori,
siano essi scrittore, lettore, intrattenitore in una conferenza, ascoltatori in
platea.
Per
cercare di spiegare meglio quello che voglio dire, mi rifaccio a quella
barzelletta ambientata in un manicomio. Il tizio estraneo che arriva sente
declamare a turno dei semplici numeri. Succede che tutti gli altri pazzerelli
che alternandosi declamano e ascoltano, a ogni numero scoppiano in fragorose risate.
L’ignaro ospite occasionale non riesce a capire quello che succede ma l’accompagnatore
gli spiega l’arcano, dicendo che ormai quelli conoscono a memoria tutte le
barzellette e le hanno codificate con dei numeri, pertanto ridono in funzione
del racconto così codificato. Una sintesi di dialogo in parte efficace, ma che
presuppone un linguaggio comune, anche fra matti.
Non
tutto però è conforme alla regola. Quindi può capitare e capita, come è accaduto a me
in questi giorni seguendo una conferenza di filosofia, di ascoltare il Professor Piero Dominici che, con estrema chiarezza, pur barcamenandosi in tempi molto
ristretti su argomenti e per rispondere a domande composite, riusciva a rendersi comprensibile
anche ai non addetti ai lavori, attraverso l’applicazione della “filosofia del
linguaggio”.
Per inciso, tra
le tante interessanti cose dette quello che mi ha colpito di più, anche perché in qualche
modo il professore ci ritornava spesso, è stato il ribadire la “falsa
dicotomia” sempre presente e quasi dominante anche nell’attualità contemporanea. E qui
mi fermo.
Confesso
che ho dovuto attingere al web per comprendere il vero significato di quel mantra e,
per chi volesse saperne di più, indico allo scopo la pagina di wikipedia che ho consultato e accessibile a
tutti:
© Essec
Per chi volesse ascoltare l'intervento del Prof. Piero Domici lo può trovare registrato su https://www.facebook.com/efilosofie/videos/247975463253390/UzpfSTE0NTY5NzQ3NTQ6MTAyMjE2NzM5MDQ5MDQzNjg/
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