"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

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mercoledì 22 luglio 2009

Vittorino Andreoli "L'io e gli altri"

VITTORINO ANDREOLI: Mi chiamo Vittorino Andreoli. Sono uno psichiatra e oggi mi trovo con Voi per discutere sul tema dell’Io e gli altri. Vediamo questa scheda filmata.

La psicoanalisi ha demolito, anche sul piano scientifico, l’idea razionalista di un io monolitico e separato dal mondo, non solo perché sotto le pulsioni che attraversano la nostra identità ha scoperto la traccia di una pluralità di elementi, ma anche perché ha posto, alla base della costruzione e della maturazione dell’io, il rapporto con gli altri. Tutto ciò risulta ben chiaro dalla teoria e dalla pratica psicoanalitica. Freud ne L’interpretazione dei sogni concepisce l’Io come una costruzione. Il contenuto latente nel sogno non é qualcosa che sta lì, pronto ad aspettare che qualcuno lo scopra e lo riveli. L'interpretazione del sogno e il suo riflesso sulla psiche dell’individuo possono servire solo a un lavoro di costruzione e di scambio, che coinvolge tanto il paziente che l’analista. Non solo l’io può comprendere sé stesso soltanto attraverso gli altri, ma di più, in qualche misura, esiste esclusivamente attraverso gli altri. Già la riflessione sul nostro linguaggio esprime perfettamente questo paradosso: io non vedo me stesso che allo specchio, cioè riflesso in un’immagine. L’unico modo per indicare cosa sono io è parlarne, ma la parola "io" può essere determinata soprattutto in riferimento alla parola "tu" a cui si rivolge e non in sé stessa. L’io si determina e si costruisce in relazione al "tu". Non è un caso che alla base dei disturbi della personalità ci sia quasi sempre una difficoltà relazionale.

UOMO: Non é un dottore del cavolo che ti serve, qui ci vorrebbe la polizia.

DONNA(che piange): Sei proprio impossibile, sei la rovina della famiglia. Stai mettendo tutto sopra tutti, a cominciare da te.

Una specie di effetto ottico, indotto anche da una certa cattiva psicologia, ci fa pensare che i rapporti difficili con gli altri siano causati soprattutto da malattie e disturbi interni all’io. Ma non bisognerebbe invece chiedersi se l’aumento del disagio psichico nelle nostre società non nasca, in massima parte, proprio dal rapporto, via via, più snaturato che un individuo ha con gli altri?

STUDENTESSA: Si sostiene che la malattia mentale emerga soprattutto nel rapporto con gli altri e questo condurrebbe a dire che, se non esistessero gli altri, non esisterebbe neanche la malattia. Ma la patologia mentale non potrebbe essere causata da fattori puramente genetici, insiti nell’uomo, che in seguito, solo nel rapporto con gli altri, si sviluppa?

ANDREOLI: Un portato di questi ultimi anni é la scoperta che la "normalità" non è qualcosa che l’individuo ha dentro di sé, ma è in realtà qualcosa che si pone tra l’individuo e la relazione con gli altri. La "normalità", e così la "follia", non sono più situazioni statiche, stanno nella relazione. L’individuo sa che la sua normalità o la sua follia dipendono anche dal rapporto con gli altri. Attualmente, pertanto, la "normalità" e la "follia" sono oggetto di studi "relazionali". Il comportamento dell’individuo è legato a tre fattori. Il primo è di ordine biologico: è definito dalla genetica, ramo della biologia che studia i codici dell’individuo, l’eredità e la variazione negli organismi viventi. La genetica - si potrebbe dire - è lo studio dei codici che sovrintendono alla prima costruzione del sé. Limitarsi alla genetica per spiegare i fenomeni comportamentali dell’individuo significherebbe fare lo stesso errore del riduzionismo biologico. Il secondo fattore é quello legato alle prime esperienze di vita. Nel periodo che va da zero a tre anni l’essere umano impara determinati comportamenti, come, ad esempio, la timidezza, la poca fiducia, la grande paura. Il terzo fattore è costituito dall’ambiente in cui quel comportamento viene espresso. Ambiente che non é solo quello fisico, ma é soprattutto l’ambiente relazionale. Ecco perché, cambiando ambiente, cambiando relazioni, l’individuo spesso cambia il proprio comportamento. Oggi si assiste al trionfo dell’io e gli altri, non più dell’io.

STUDENTE: Nell’ambito del rapporto dell’io e gli altri, qual é il limite fra chi é sano e chi é ammalato? Restando più nella ristretta cerchia che comprende i limiti della "normalità" e della "non normalità", chi é "normale" e chi no?

ANDREOLI: Per risponderLe correttamente dovrei dirLe che questo è anzitutto un problema di cultura, non scientifico. Comportamenti un tempo considerati "folli" attualmente sono perfino accettati, e definiti "normali". L’elenco dei comportamenti si estende se addirittura consideriamo culture diverse. Vorrei dire che in una società come la nostra urge il contenimento dell’aggressività e della violenza. E ancora. Solo nel 1992 l’Organizzazione Mondiale della Sanità cancella l’omosessualità dal novero delle "malattie". Di conseguenza viviamo in una epoca in cui l’omosessualità è una caratteristica della personalità: si è trasformata da "malattia psichiatrica", quale era, a "comportamento", ossia una caratteristica della personalità e un comportamento accettabile. Il mutamento che ho appena descritto non é dovuto a studi scientifici, ma è un portato della cultura. Direi pertanto che anche il limite che separa la normalità dalla follia é legato alla cultura. La psichiatria non deve essere mai esclusivamente tecnica, ma considerare anche i mutamenti che intervengono, nella posizione dell’individuo, per il tramite della cultura. Il confine appena delineato contiene in sé aspetti anche normativi. Le condizioni di soggezione e di dipendenza sono "malattie". Possono essere perfino dettate dal governo di una società, comunque da un "sistema di gestione". È certo che alcuni disturbi genetici possono disporre a sviluppare una malattia. Ma è altrettanto certo che in questo non vi é nulla di meccanicistico e di determinato. La malattia dipenderà dalle esperienze infantili che si fanno e dall’ambiente in cui vive, anche per chi ha una forte disposizione genetica.

STUDENTE: Lei non ritiene che sia difficile predefinire le condizioni degli individui che si trovino su questo "confine"?

ANDREOLI: In realtà il comportamento é un’espressione della vita. Molti giovani, poi, amano porsi su questa linea di confine. Spesso si pensa - se guardate in giro - che la "normalità" sia banalità. La "normalità" é un modo di vivere con gli altri, da piccolo protagonista e traendo delle gratificazioni, mentre colui che patisce, che vive male, che fatica a vivere, vivrà male con gli altri. Vivere male con gli altri significa allontanarsi dal limite esistente tra normalità e follia, ponendo in atto meccanismi che possono portare proprio alla "follia".

STUDENTESSA: Lei prima ha sostenuto che la malattia può derivare dalla relazione con l’ambiente. Come mai, a parità di condizione ambientale, alcuni individui si presentano sani ed altri patologici?

ANDREOLI: Come ho già detto, nella "follia" e nel comportamento in generale sono tanti i fattori determinanti, che é possibile raggruppare in tre grandi "famiglie". Un principio assolutamente dimostrato dice che nessun individuo può essere considerato "normale" se non ha un legame con un altro individuo. I legami si definiscono "attaccamenti". Senza legami si é dunque soli. Essere soli significa non interagire con nessuno, nemmeno con la società; pertanto significa sentirsi uno straniero all’interno del proprio ambito esistenziale. La solitudine prelude alla sofferenza, e quindi a una fuga, che si manifesta proprio dentro la malattia. Il campo delle esperienze si presenta assai variegato. Tra i fattori determinanti il comportamento non v’è solo l’ambiente familiare, ma anche quello scolastico, e gli stimoli e le esperienze che un individuo incontra durante la propria vita. Una stessa esperienza può indurre due individui a due risposte comportamentali differenziate.

STUDENTE: Io penso che causa prima della malattia sia il disagio sociale, tanto economico quanto familiare, in quanto penso all’oppressione che su di un individuo possono arrivare a provocare i mezzi di comunicazione e i grandi temi della sovrastruttura, fino a che egli si crea un falso sé, nel caso che debba adattarsi a ideali che non sono i propri, o un eccessivo riempimento dell’"io", nel caso opposto. In entrambi i casi sono determinanti le condizioni sociali da cui si parte. Vorrei un Suo parere al riguardo.

ANDREOLI: Mi pare che Lei abbia espresso chiaramente l’idea. Aggiungerei che, oltre agli ambienti familiare, sociale, economico, vi sono numerosi altri fattori determinanti sia per quanto riguarda il comportamento sia per quanto attiene alla malattia psichica. Vi invito a non cadere nel "riduzionismo", che sia economico, genetico-biologico, o sociale. È importante conoscere quali e come siano state le relazioni iniziali dell’esistenza di un individuo, perché non tutto è ambiente. È anche ambiente, altrimenti si ricadrebbe nell’errore opposto a quello del "riduzionismo biologico", che si chiama "riduzionismo sociale". Mi piacerebbe mostravi questo "anello". L’ho scelto per questa puntata perché é il segno di un legame. Vi ho detto che avere dei legami affettivi é fondamentale. Io sono preoccupato per il consumo degli oggetti, ma lo sono maggiormente per il consumo dei sentimenti. Quello che noto attualmente, soprattutto fra Voi giovani, é che si stabilisce un legame, e poi lo si butta via alla prima difficoltà. Ripeto, senza legami non è possibile vivere. Senza legame si è insicuri. L’insicurezza significa anche paura, e la paura conduce alla violenza. In alcune comunità della Polinesia, quando un uomo voleva stabilire un legame con una donna, tracciava con le dita un enorme cerchio per terra, sulla sabbia. Poi vi si installava e, di fronte all’intera comunità, sceglieva la donna da portarsi dentro e diceva che se qualcuno la voleva doveva entrare nel cerchio per prenderla. Si stabiliva una lotta e chi vinceva si teneva la donna. Se, al contrario, nessuno si presentava a reclamare o a lottare per averla, si stabiliva di fronte a tutti un legame, in questo caso affettivo, un legame che noi oggi chiameremmo matrimoniale, o comunque un rapporto significativo. L’anello rappresentato dal "cerchio" dà l’idea della conquista, di cui oggi sarebbe opportuno riappropriarsi. Non voglio fare il maschilista, ma la trovo un’idea entusiasmante.

STUDENTE: Io trovo che spesso i condizionamenti infantili sono legati al tipo di società in cui essi si manifestano. Spesso le condotte imitative del bambino sono dovute a un tipo particolare di società. È opportuno che non si prescinda dal considerare i rapporti della società nel definire i motivi di una malattia. Volevo un Suo parere.

ANDREOLI: Io credo che non ci si debba troppo ancorare alla definizione. I giudizi sulla "normalità" o sull’anormalità sono per necessità piuttosto variabili. Non sto parlando dei casi di "schizofrenia grave". Stabiliamo che la "normalità" è dovuta non solo all’individuo in sé, ma anche agli altri, e che dipende dal fatto che l’individuo faccia parte di un gruppo, o della società nella sua massima estensione, in modo che egli abbia un piccolo ruolo di protagonista e ne tragga una gratificazione. L’individuo tende a compensare le situazioni di frustrazione con gesti pseudoeroici, con comportamenti inaccettabili. Io vorrei che Voi consideriate, più che la differenza, tra "normalità" e "anormalità", le variabilità che oggi si possono assumere. Un tempo si pensava che ci fossero delle zone immuni, non a rischio. Si pensava che le famiglie più ricche non potessero avere figli con determinate caratteristiche comportamentali. Oggi questa sicurezza non esiste, e si rileva lo stesso comportamento a prescindere dalla classe sociale o dalle relazioni sociale dell’individuo.

STUDENTESSA: Lei prima ha detto che il legame è importante. Ma non potrebbe capitare, specialmente nei legami d’amore, e a causa dei legami d’amore, che si sia più coscienti dei propri limiti e che quindi questi ci divengano inaccettabili?

ANDREOLI: Ottima domanda. Si dovrebbe dire che l’amore è una patologia. L’individuo innamorato dà una sensazione di appartenenza. Tutto il mondo viene in qualche modo proiettato sull’altro, e l’individuo si sente con l’altro come una unità al punto tale che gli sembra di non riuscire più a vivere senza di quello. Si realizza una riduzione del mondo all’altro, che tuttavia dà sicurezza, e un senso. L’individuo finisce per essere una monade chiusa che vede solo sé stessa. L’amore corrisponde, nella Vostra età, al legame simbiotico del bambino con la madre nelle prime fasi; addirittura non si distingue neanche. Il bambino divora la madre, si attacca a quel seno per nutrirsi, avvertendo che è la stessa cosa. Sono momenti straordinari, ma non possono essere la "normalità". Tanto è vero che il grande amore non è un fatto cronico. Se fosse cronico, non sarebbe neanche tale. L’amore può comportare una distorsione comportamentale, se l’individuo considera solo il "suo" altro, e non gli altri. Dall’altro, come "suo", l’individuo deve arrivare agli altri, come società. Questo è il grande messaggio. Purtroppo questa società é piena di Narcisi, di soggetti, di isole. Dobbiamo ricostruirla. Ecco perché mi piacerebbe che vedessimo adesso un brevissimo spezzone filmato di un famoso dramma di Pirandello.

UOMO: ... dicevo, che ci ha gridato di non avere tempo da perdere con pazzi, mentre nessuno meglio di lui può sapere che la natura si serve da strumento della fantasia umana per proseguire più alta la sua opera di creazione.

UOMO(altro): Sta bene, sta bene.

UOMO(altro): Ma cosa vuoi concludere con questo?

UOMO(altro): Niente, se non dimostrarne che si nasce nella vita in tanti modi e in tante forme: albero, sasso, acqua, farfalla, o donna, perché si nasce anche personaggi, signore.

UOMO(altro): Ma perché lei con codesti signori qua attorno ...

UOMO(altro): E’ uno nato personaggio.

UOMO: Appunto, signore. E vive come ci vede?

(risate di sottofondo)

UOMO(altro): Mi dispiace! Mi dispiace che loro ridano così, perché, ripeto, portiamo in noi un dramma doloroso, come lor signori possono argomentare. A questa donna, velata di nero ...

STUDENTE: Nel filmato si dice: "È uno nato personaggio". Per potersi realizzare, un personaggio necessita di un autore. Ciò che ognuno di noi diventa alla fine è solamente un aspetto che viene tirato fuori dagli altri, o che viene permesso dagli altri. Quello che noi realizziamo non é anche un’alienazione rispetto a quello che potremmo essere in realtà?

ANDREOLI: Proprio seguendo Pirandello, noi siamo Uno, nessuno, centomila, cioè potenzialmente potremmo realizzare delle storie diverse, quindi avere dei ruoli diversi. Tuttavia, da soli, o isolati, non si é nemmeno uomini, perché l’uomo non è un’isola. È certo che gli altri possono differenziare moltissimo il ruolo che l’individuo ricopre nel teatro della vita.

STUDENTE: Riguardo al rapporto dello psicoanalista con il paziente, quanto può questo rapporto comportare un coinvolgimento ossessivo dell’analista, oppure quanto può essere fonte di arricchimento per entrambi?

ANDREOLI: Si definisce il rapporto tra lo psicoanalista e il paziente con il termine di transfert, che, tradotto, vuole dire simpatia. Può trattarsi di una grande fiducia che un individuo nutre nell’altro. Deve essere, in ogni modo, una relazione transitoria, che serve a far sì che il paziente elabori il proprio vissuto attraverso il terapeuta. Il bravo terapeuta deve interpretare il transfert ai soli fini della guarigione del paziente, e interrompere lentamente il legame di fiducia che si è instaurato, e che altrimenti diverrebbe una "patologia".

STUDENTE: Riguardo al rapporto dell’"io e gli altri", avevamo scelto questo oggetto, il "prisma", perché ritrasmette varie sfaccettature, come anche l’individuo. La molteplicità che nasce dall’io è una proprietà dell'io oppure può essere vista come una scissione, come qualcosa d’altro?

ANDREOLI: Il "prisma" dice che cosa noi siamo potenzialmente. Il raggio di colori che entra nel prisma del mondo, del "mondo" inteso come "gli altri", è diverso a seconda della collocazione del poliedro. Indica il rapporto tra l’"io", ossia l’individuo, e il mondo. Da questo incontro scaturiscono multiformi possibilità. Ciascuno di Voi è quel raggio. Sarebbe meraviglioso che ciascun giovane fosse posto di fronte a un "prisma", a un mondo cioè che gli permettesse di esprimersi il più possibile.

STUDENTESSA: Nel rapporto con gli altri quanto sono importanti le comunicazioni verbali? E quanto invece lo sono quelle non verbali?

ANDREOLI: I giovani hanno arricchito le comunicazioni prevalentemente logico - razionali, verbali, introducendo il ruolo particolare della comunicazione musicale e del corpo. La musica è uno strumento straordinario, ed è importantissima la mimica. Attualmente si discute molto sull’impoverimento del linguaggio razionale e verbale. Attualmente, rispetto a qualche anno addietro, prevalgono i linguaggi del corpo e i linguaggi mimici. È utile sapere che spesso, per esprimere i sentimenti, servono anche le mani, serve anche la mimica. Io credo che si debba arrivare ad una espressione, quindi ad una comunicazione, estremamente ricca di valenze. Specchio della mente e dell’anima, il nostro corpo esprime i sentimenti più intimi. Direi che la comunicazione é la comunicazione di tutto l’uomo, di cui la parola è una piccola parte.

STUDENTE: Nel rapporto con gli altri, quanto può e quanto deve cambiare il carattere di un individuo?

ANDREOLI: Nel rapporto con gli altri l’uomo deve più guardare alle proprie capacità di cambiamento che alla sua tendenza alla staticità. Ciò non significa essere incoerenti. La coerenza interna di un individuo può viaggiare benissimo accanto all’"adattamento" all’ambiente, nel senso darwiniano del termine. Charles Darwin parla di "adattamento", ma non di "passività". La fitness di Darwin è l’intensificazione della vita, il protagonismo. L’origine della teoria evoluzionistica sta proprio nella fitness indicata da Darwin, nel "cambiamento" della specie.

STUDENTESSA: Nel rapporto fra il medico e il malato, o fra il maestro e l’allievo, è possibile che i concetti che vengono espressi da uno dei due individui durante la comunicazione non siano poi falsati dall’altro e interpretati in maniera soggettiva, al punto che non si riesca a ottenere un reale rapporto?

ANDREOLI: Il mondo dei sentimenti è un mondo soggettivo. Occorre che si sappia che il mondo dei comportamenti e delle malattie è il mondo dei vissuti. Molto spesso ai malati con difficoltà di inserimento e che si sentono esclusi il medico, o lo psichiatra, offre una stretta di mano o un abbraccio, che dà più il senso della comunicazione fisica, molto più utile di qualsiasi orpello verbale. E’ quello che si dovrebbe fare anche tra padri e figli. Molte patologie sono dettate da una mancata comunicazione, perché sul malato si sono utilizzati mezzi inadatti, o "disadatti" per parafrasare Darwin. Tante volte, senza tanti discorsi, è sufficiente toccare.

STUDENTE: Tornando al tema dell’"io e gli altri" e del bisogno che l’uomo ha di riconoscersi negli altri, io ritengo che entrambi derivino da un riscontro che l’individuo ha dei propri limiti e che, quindi, il bisogno degli altri svolga l'elementare ruolo di colmare l’insicurezza restante. Il Pirandello dei Sei personaggi in cerca di autore affronta il tema fondamentale dell’inconoscibilità del proprio essere. Vorrei chiederLe: è così importante che il mio essere sia completamente riconosciuto dagli altri o è sufficiente che l’altro comprenda che, se io gli comunico dolore, è un dolore proprio della relazione che ognuno stabilisce con gli altri?

ANDREOLI: La cosa più importante è che uno si senta capito. E aggiungo: almeno da qualcuno. Pensando a Pirandello ho portato in studio questo "specchio". Perché lo "specchio"? Pirandello insegna che ogni individuo è centomila individui per sé stesso, e che, guardandosi allo specchio, può vedere degli "io" completamente diversi a seconda dei propri stati d’animo. Lei stesso, per quel Lei che si vede rispecchiato nello specchio, é delle cose diverse, si percepisce in maniera differente. Il sentirci non capiti non ci deve impedire di fare uno sforzo per comunicare, affinché il destinatario apprenda l’aspetto che noi intendiamo mostrargli. La cosiddetta "comprensione oggettiva" è pressoché impossibile. Le relazioni sono varie, e così gli stati d’animo, per cui ogni individuo é Uno, nessuno, centomila, proprio perché mutano i suoi stati d’animo. È importante che l’individuo sappia di avere bisogno degli altri e che gli altri hanno bisogno di lui. Le comunicazioni, i linguaggi, devono fare in modo che questo sia possibile. Questa ricerca straordinaria fa l’esistenza. L’esistenza è l’insieme di tutti i tentativi che l’individuo ha posto in essere per costruire un contatto con gli altri. L’individuo non si deve limitare a stabilire relazioni con il proprio migliore amico, o con due o tre altri, ma deve estenderle all’intera società, o a quanti più individui sia possibile. Occorre comunicare con gli altri per assumere una dimensione di individuo fino a poter dare il proprio contributo all’intera società. Anche questo contributo è comunicazione. Attesta un "io" che si pone in contatto con gli altri. Successivamente all’Io freudiano si è a lungo parlato in psicologia del "sé". E’ bene precisare, al di là delle valenze storiche, che mentre l’io ha un significato strutturale, il sé ha un contenuto relazionale. Il "sé" è l’io in una funzione comunicativa o sociale. Credo di poter concludere dicendo che non bisogna essere degli "io" chiusi, ma dei "sé" comunicanti.

STUDENTESSA: Io penso che gli individui non si possono curare all’improvviso, ma se Lei si trovasse con un potenziale suicida, che Le sta passando al lato, cosa farebbe o gli direbbe per farlo desistere dall’intento?

ANDREOLI: Devo dire che sono particolarmente attratto dai casi estremi. Io farei di tutto, qualsiasi cosa, perché quel gesto non avvenga. Credo che quel soggetto possa, con poche modificazioni e opportuni accorgimenti, stabilire alcune relazioni, comunicare, e avere voglia di vivere.

STUDENTE: Volevo presentarLe il Sito Internet che abbiamo scelto per questa puntata. È un sito su Arthur Schopenhauer. Schopenhauer considerava la compassione una apertura verso gli "altri". Nella società odierna gli "altri" sono solo un mezzo perché l’"io" si affermi e si realizzi, o sono anche loro composti da innumerevoli piccoli "io"?

ANDREOLI; Lei, a proposito di Arthur Schopenhauer, cita la "compassione". Io porrei la "compassione" accanto alla "comprensione". Comprensione significa andare verso. Compassione vuol dire essere nel pathos, dunque esprime una comprensione dei sentimenti, cioè un "essere con l’altro" nei sentimenti. Il verbo "capire" si addice agli oggetti, il verbo "comprendere" è più appropriato per gli essere umani in quanto indica un "andare verso", un "compatire". Schopenhauer intende il pathos come il "sentimento" nonché il "dolore", perché Schopenhauer è stato il "filosofo del dolore". Una delle esperienze umane è il dolore. Ognuno di noi si trova spesso di fronte al proprio dolore o a quello degli altri. Io ho potuto capire, nella mia attività di psichiatra, che il dolore è ovunque. Ho potuto capire che il dolore può portare a un comportamento violento, che il dolore può farsi violenza. Il dolore compatito o compreso diventa un’esperienza che non solo non è distruttiva, ma può essere persino umana e utile.

Puntata registrata realizzata con gli studenti del Liceo Scientifico "Elio Vittorini"di Milano (25 gennaio 2000)


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Monte Pellegrino visto da casa natia di Acqua dei Corsari

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