Come una decimazione, hanno
falciato uomini donne e ragazzi, indistintamente colpevoli di
testimoniare un modo di vivere che loro rifiutano e combattono. Gli individui
non contano: per loro conta la massa trasformata in bersaglio, la pura quantità
stralciata sulle Ramblas dal popolo estivo della vacanza.
Il tam tam estremista porterà le cifre del massacro
come un bollettino di vittoria nei villaggi dove l'Isis si sta ritirando,
svanito il sogno del Califfato: 14 morti, 130 feriti, che sono venuti da 35
diversi Paesi - da tutto il mondo - per trovare la morte a
Barcellona. Un condensato di strage universale, proprio mentre a Turku in
Finlandia si accoltellano i passanti sulla piazza del mercato del sabato, al
grido "Allah akbar".
Quel van bianco, costruito come strumento di lavoro
per ridurre la fatica degli uomini e noleggiato come arma da lanciare sulla
folla, testimonia in apparenza la vulnerabilità del nostro meccanismo sociale,
dove tecnica, modernità e tecnologia possono essere rovesciate nella
primordialità di un'arma impropria, quasi invisibile perché nasce dalla
quotidiana abitudine strumentale del nostro vivere, di cui siamo abituati a
servirci, ma da cui non abbiamo mai pensato di doverci proteggere. Finché quel
furgone salta fuori dal contesto di regole e normalità che lo controlla e si
lancia come una bomba sopra la gente, ieri a Nizza, adesso a Barcellona.
Il fatto che questi attentati sorgano dall'interno del
nostro costume civile rende difficile una prevenzione, perché possiamo
difenderci da tutto, meno che dal nostro modo di vivere. Una sala da ballo a
Parigi, un concerto a Manchester, una strada nel cuore della Spagna sono per
definizione luoghi disarmati nel senso più ampio del termine, perché
appartengono a quel tempo liberato dal lavoro che la nostra società si è
conquistata per ordinarlo in un disegno di relazioni, appuntamenti, occasioni
che organizzano una fruizione delle città, delle sere e delle notti
urbane.
In realtà dobbiamo pensare che la presunta e apparente
modernità di questi attentati nasconde l'opposto, una religione trasformata in
ideologia e scagliata in ritardo di secoli contro un mondo che rappresenta
l'eterno confronto, ineliminabile, contro cui l'Isis sa di aver perduto in
partenza e per sempre l'arma dell'egemonia, della sfida culturale, tanto da
regredire all'epoca primitiva degli omicidi rituali.
Ciò che ci rende vulnerabili è esattamente ciò per cui
ci attaccano: la nostra libertà, di cui siamo custodi e praticanti imperfetti,
ma consapevoli. La libertà dell'organizzazione della nostra vita, della sua
combinazione con gli altri, della sottomissione spontanea alle leggi che ci
siamo dati per regolare il nostro vivere sociale. Quei feriti di 34 Paesi
falciati sulle Ramblas, testimoniano proprio questo, la libertà del movimento e
della scelta, della vacanza e del lavoro, degli incontri e degli scambi, tutto
ciò che fa di Barcellona - come di Roma, Parigi, Londra, Bruxelles e New York,
dove tutto è cominciato con le Torri Gemelle - una città aperta, che guarda al
mondo e sa ospitarlo nelle sue strade e nelle sue piazze, facendo mercato
universale della sua storia, della cultura, dello stile di vita e dei suoi
costumi.
Le Ramblas sfregiate a morte non sono dunque - non
devono essere - una pura scena del delitto, un paesaggio inerte e indifferenziato.
Sono espressione di un modo di vivere, parte del meccanismo quotidiano con cui
la libertà si organizza in società, dopo essersi data norme, diritti,
istituzioni. Noi dobbiamo dare un nome a questo spazio di quotidiana civiltà
mondializzata, che l'Isis colpisce ipnotizzato proprio per marcare il suo
particolarismo estremo, la sua irriducibilità, la radicalizzazione del suo
rifiuto: solo così sarà possibile una lettura politica e non esclusivamente
emotiva e sentimentale di quel che è accaduto e ancora accadrà. Il nome è
quello della democrazia occidentale, di cui siamo cittadini infedeli e tuttavia
testimoni inesauribili.
È questa la cifra civile che oggi è sotto attacco e
che dobbiamo difendere, per difendere ciò che noi siamo: o almeno ciò che
vorremmo essere.
Ezio Mauro (La Repubblica - 19 agosto 2017)
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