Gli attentati degli jihadisti sono
una cosa atroce. Ma più atroce, se possibile, è quello che viene dopo. Si sono
viste persone che, passato il pericolo, invece di aiutare i feriti filmavano la
scena con i loro smartphone e coppie che si facevano dei selfie avendo cura
che, alle loro spalle, fosse ben visibile il macello, selfie che poi fanno
circolare orgogliosamente su Facebook. Poi inizia il gran ballo funebre delle
ipocrisie, delle cerimonie, delle manifestazioni, delle gare a dimostrarsi i
più coinvolti, i più emotivamente colpiti, i più buoni. Una porzione del
marciapiede su cui è avvenuta la strage è stata sostituita da una lavagna su
cui ‘la gente comune’ scrive le solite banalità e falsità, più o meno le stesse
degli uomini politici: “siamo tutti catalani”, “il terrorismo non ci piegherà”,
“non abbiamo paura”. Se conservassero un po’ di sincerità o di senso del pudore
queste persone forse scriverebbero: sono felice di averla scampata bella. Ci
sono poi i reportage dalle cittadine o dai quartieri dove vivevano le vittime.
Tutti si premurano di affermare che erano tutte delle brave persone, gli uomini
dei mariti esemplari e le donne delle spose fedeli. Il che sarà anche vero. Ma
è totalmente privo di senso. Non è che queste stragi sarebbero meno gravi se
gli uomini fossero dei fedifraghi e le donne adultere. C’è quindi l’inevitabile
retorica sui bambini. E certamente in queste ‘stragi degli innocenti’ i bambini
sono i più innocenti di tutti, lo sono per definizione. Ma lo sono anche quelli
degli altri, che non sono meno bambini dei nostri bambini. Nella prima Guerra
del Golfo (1990) gli americani per non affrontare fin da subito l’imbelle
esercito iracheno (che era stato battuto persino dai curdi, in soccorso di
Saddam dovette intervenire la Turchia) bombardarono per tre mesi Baghdad e
Bassora uccidendo 158mila civili fra cui 32.195 bambini. Una volta lo dissi a Zapping,
quando questa trasmissione era condotta da Aldo Forbice. Mi aspettavo grida di
orrore o che mi dessero del bugiardo mascalzone. Invece né l’una cosa né
l’altra (del bugiardo non potevano darmi, la fonte era al di sopra di ogni
sospetto: i dati provenivano dal Pentagono, anche se erano sfuggiti di mano
perché una coraggiosa funzionaria, Beth Osborne Daponte, poi licenziata in
tronco li aveva rivelati) la notizia scivolò subito via parlando di Rutelli e
altre nullità dell’epoca.
Nelle stragi jihadiste sguazzano poi
le tv, i talk, i social media che, come ha notato su questo giornale il
generale Mini, amplificando a dismisura questi episodi fanno solo il gioco
della Jihad aumentando la potenza del terrore, quello reale e, soprattutto,
quello psicologico. Che ad onta di tutti gli atteggiamenti pettoruti e
muscolari dei leader e di chi scrive sulle lavagnette è enorme. Emblematico è
l’indecoroso spettacolo visto in Piazza San Carlo a Torino dove per un solo
rumore sospetto una folla priva di ogni freno inibitorio e perduta ogni dignità
si urtava, sgomitava, calpestava provocando 1.500 feriti, alcuni gravi, e un morto
(ci fu qualcuno che, vedendo un bambino a terra che stava per essere calpestato
dagli indemoniati, un uomo alto e robusto che, gridando: “c’è un bambino a
terra, c’è un bambino a terra”, allargando le braccia riuscì a stoppare i
codardi, ma non era un italiano, era un nero, un disprezzatissimo migrante
africano).
Qualche lettore penserà forse che io
tifo per la Jihad. Per la verità sono stato il primo, e l’unico, prima ancora
che l’Isis si chiamasse Isis e il Califfato non esisteva ancora ma si definiva
‘Stato Islamico dell’Iraq e del Levante’ a scrivere che era “il più grave
pericolo per l’Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale” (presentazione del
mio libro Il vizio oscuro dell’Occidente del 2012). Ciò che mi aveva
insospettito era proprio quell’aggiunta “e del Levante”. Voleva dire che aveva
ambizioni che andavano molto al di là dell’Iraq. Nessuno mi dette credito. È il
mio eterno ed esasperante destino di Cassandra. E ora l’Isis ce lo troviamo
davanti. E che si siano rase al suolo le sue roccaforti in Iraq, Mosul e Raqqa
(facendo alcune decine di migliaia di morti fra i civili sunniti e inventandosi
la favoletta che costoro erano costretti a rimanere in quelle città dall’Isis,
come se poche migliaia di guerriglieri, che oltretutto avevano altro da fare,
potessero controllare un milione di persone) conta fino a un certo punto.
Perché l’Isis è un’epidemia che sfrutta l’elemento religioso, ma le cui radici
più profonde sono sociali. Ed era prevedibile che sconfitto da forze
enormemente superiori, sia in senso numerico che tecnologico, in Medio Oriente
avrebbe intensificato i suoi attacchi in Europa con il mezzo che in una ‘guerra
asimmetrica’ è inevitabile: il terrorismo.
In ogni caso la nascita di un
fenomeno come quello dell’Isis dovevamo aspettarcelo dopo la filiera di guerre
contro i Paesi musulmani inanellata nell’ultimo decennio. 2001: aggressione
all’Afghanistan. Le vittime civili non sono calcolabili perché non sono mai
state calcolate. Gli afghani infatti hanno il grave torto di non essere né arabi,
né cristiani, né ebrei e di loro si può fare carne di porco. Stime a braccio
danno le vittime civili in sedici anni di guerra fra le 200 e le 300mila. 2003:
Iraq. Le vittime civili causate, direttamente o indirettamente, dall’intervento
americano sono 650mila. Il calcolo è stato fatto molto semplicemente da una
rivista medica inglese che ha confrontato il numero dei morti, nello stesso
periodo di tempo, durante il regime di Saddam e gli anni della guerra
americana. 2011: Libia. Anche qui il numero dei morti civili non è stato finora
calcolato con esattezza. En passant si può ricordare che in un attacco
aereo al palazzo dove si trovava Gheddafi furono uccisi 2 suoi nipotini. Che
erano bambini anche loro. In ogni caso le tragiche conseguenze dell’eliminazione
del dittatore libico sono oggi sotto gli occhi di tutti. E non è stato solo un
errore, come pudicamente diciamo, ma una serie di orrori di cui siamo
responsabili.
A questo discorso si lega in qualche
modo la vicenda di Giulio Regeni tornata all’onor del mondo dopo che il governo
italiano ha deciso di rinviare il nostro ambasciatore al Cairo. Si lega almeno
dal lato dell’informazione. Le responsabilità dell’Università di Cambridge e
soprattutto della tutor di Regeni, Maha Abdelrahaman, nell’aver inviato
un ragazzo sprovveduto al Cairo per un improbabile ricerca sui ‘sindacati
indipendenti’ senza metterlo in guardia sui rischi che correva sono fuori
discussione. E Il Fatto sta insistendo molto su questo aspetto. La
tutor, egiziana, che è stata docente di sociologia all’Università del Cairo,
non poteva non sapere quale era la reale situazione in Egitto. Ma il giovane
Regeni è stato tratto anche in inganno dalla completa ‘disinformatia’ che i
giornali occidentali hanno steso sul generale tagliagole e golpista Abd
al-Fattah al-Sisi occultando la sua sanguinaria repressione degli oppositori e
di ogni tipo di dissenso. Anche da questo punto di vista noi abbiamo la
coscienza pulita. Sul colpo di stato di Al-Sisi e sulle sue conseguenze abbiamo
scritto una serie di articoli: Egitto, l’assurdo processo a Morsi (Fatto
del 9/11/2013); I casi di Egitto e Ucraina la democrazia funziona solo
quando ci fa comodo (Fatto del 31/1/2014); Al-Sisi, il criminale
che piace all’Occidente (Fatto del 31/1/2015); Se l’Occidente democratico
sta con i tagliagole d’Egitto, allora io sono antidemocratico (Fatto
del 29/6/2015); Doveva morire Giulio perché l’Italia scoprisse il mostro
Al-Sisi? (Fatto del 11/2/2016); Ops, ci siamo sbagliati: i
Fratelli Musulmani erano meglio di Al-Sisi (Fatto del 15/4/2016); Altro
che pace: il Papa non stringa mani insanguinate (Fatto del
18/4/2017); C’è dittatore e dittatore: Maduro è brutto, Al-Sisi è bello
(Fatto del 15/8/2017).
La Jihad può fare orrore. Ma la
‘cultura superiore’, nuovo modo di declinare il razzismo poiché quello
classico, dopo Hitler, è impraticabile, fa schifo. E non è detto che i due
fenomeni non siano complementari.
Massimo Fini
(Il FattoQuotidiano del 23 agosto 2017)
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