Dai casi di
cronaca, anche minimi, si ricava il segno dei tempi più che dai manifesti
politici, proprio per la spontaneità degli eventi e la meccanica delle risposte
da parte del potere pubblico e dell’opinione generale. In questo senso è
difficile non trovare un collegamento emotivo, culturale e infine politico tra
l’ultimo atteggiamento italiano nei confronti dei migranti sui barconi e le Ong
di soccorso (criminalizzate in una vera e propria inversione morale) e lo
sgombero degli abusivi dal palazzo nel centro di Roma, a colpi di idrante.
La questione
di fondo è che la povertà sta diventando una colpa, introiettata nella
coscienza collettiva e nel codice politico dominante, così come il migrante si
porta addosso il marchio dell’ultima mutazione del peccato originale: il
peccato d’origine. Unite insieme dalla realtà dei fatti e dal gigantismo della
sua proiezione fantasmatica, povertà e immigrazione, colpa e peccato recintano
gli esclusi, nuovi “banditi” della modernità, perché noi — i garantiti, gli
inclusi — non vogliamo vederli mentre agitano nelle nostre città la
primordialità radicale della loro pretesa di vivere.
Il fatto è
che questi esseri umani ridotti a massa contabile, senza mai riuscire ad essere
persone degne di una risposta umanitaria, e ancor meno cittadini portatori di
diritti, sono improvvisamente diventati merce politica oltremodo appetibile, in
un mercato dei partiti e dei leader stremato, asfittico, afasico.
Impossibilitati a essere soggetto politico in proprio, si trovano di colpo trasformati
in oggetto della politica altrui, che vede qui, sui loro corpi reali e
simbolici, le sue scorciatoie alla ricerca del consenso perduto. Contro di loro
si può agire con qualsiasi mezzo, meglio se esemplare. Senza terra e senza
diritti, sono ormai senza diritto, i nuovi fuorilegge.
Ci sono due
elementi che hanno determinato questo cortocircuito: il primo è il sentimento
di incertezza e di smarrimento identitario che è cresciuto nella fascia più
fragile, più periferica, più isolata e più anziana della nostra popolazione di
fronte all’aumento dell’immigrazione nel Paese. Un sentimento di solitudine a
casa propria, di perdita del legame collettivo di un’esperienza condivisa, e
quindi di indebolimento comunitario: che è ormai mutato in risentimento, annaffiato
e concimato per anni da una predicazione politica selvaggia e irresponsabile,
che trae le sue fortune dalla paura dei cittadini più deboli, puntando a
infragilirli ancora invece che a emanciparli.
Poi si è
aggiunto il secondo elemento, psicopolitico. La sensazione che il mondo sia
fuori controllo, che i fenomeni che ci sovrastano — crisi del lavoro, crisi
economica, crisi internazionale con gli attacchi dell’Isis — non siano
governabili, e che dunque il cittadino sia per la prima volta nella storia della
modernità “scoperto” politicamente, non tutelato, nell’impossibilità di dare
una forma collettiva alle sue angosce individuali, e nell’incapacità dei
partiti, dei governi e degli Stati di trovare politiche che arrivino a toccare
concretamente il modo di vivere degli individui che chiedono rappresentanza e
non la trovano.
Stiamo
assistendo semplicemente — e tragicamente — al contatto e all’incontro tra la
domanda politica più spaventata e meno autonoma degli ultimi anni e un’offerta
politica gregaria del senso comune dominante, opportunistica, indifferenziata.
La prima
chiede tutela quasi soltanto attraverso l’esclusione, il respingimento, il
“bando”, accontentandosi di non vedere il fenomeno purché le città che abita
siano ripulite e i banditi finiscano altrove, non importa dove.
L’altra
asseconda gli istinti e rinuncia ai ragionamenti, sceneggiando prove di forza
con i più deboli, alla ricerca di un lucro politico a breve, che mette fuori
gioco ideali, storie, tradizioni, identità politiche, e cioè quella civiltà
italiana dei nostri padri e delle nostre madri che si vorrebbe difendere.
È chiaro che
una risposta al sentimento-risentimento dei cittadini spaventati va data, ma la
si può e la si deve cercare dentro un governo complessivo della globalizzazione,
non privatizzando i diritti a nostro esclusivo vantaggio e usando la nostra
libertà a danno degli altri, spinti sulle nostre sponde da un’angoscia di
libertà estrema la cui posta è addirittura la sopravvivenza.
Siamo ancora
in tempo per cercare insieme un pensiero democratico di governo che tuteli la
libertà di tutti, unica vera garanzia politica: liberando la povertà dalla
moderna colpa per restituirla alla dinamica sociale e sgravando il migrante di
quel peccato collettivo che gli abbiamo caricato addosso, facendolo bersaglio
di azioni “esemplari” che riempiono cinicamente il malgoverno delle città, il
nullismo della politica.
Ezio Mauro
(La Repubblica – 26 agosto 2017)
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