Dice una ricerca che crescere con due mamme lesbiche può essere meglio. Una regista (americana ed etero) l’ha sperimentato, e lo racconta.
La scorsa settimana il mio fidanzato mi ha inviato via mail il link a una ricerca secondo cui i figli di madri lesbiche riuscirebbero benissimo nella vita e - in alcuni casi - risulterebbero addirittura più stabili rispetto ai coetanei provenienti da famiglie tradizionali. Il suo pensiero mi ha commossa, ho subito inoltrato la mail alle mie due mamme e a mia sorella Cade e tutte mi hanno risposto con mail infarcite di punti esclamativi. Ci ha fatto piacere constatare che la nostra famiglia è considerata un modello positivo. E anche se mia madre ha commentato: «Lo sapevamo già», per lei i risultati di quella ricerca devono aver rappresentato una piccola vittoria, dopo le tante lotte combattute per uscire allo scoperto e crearsi un nucleo in proprio. Lo studio ha osservato alcune donne nel corso di 17 anni: da quando hanno deciso di mettere su famiglia, sino all’adolescenza dei figli. Una delle conclusioni - «i figli di madri lesbiche dimostrano maggiore autostima» - non deve sorprendere: l’autostima di un giovane è data in parte dal rapporto con i genitori e dall’esempio che riceve. Le mie madri ci hanno sempre parlato con onestà della loro vita e del loro passato, condividendo con noi i racconti delle circostanze che hanno portato alla nostra nascita. Hanno quindici anni di differenza: nata nel 1940, Russo è la mamma più anziana. Quando aveva 15 anni, confessò a uno psichiatra di essere omosessuale. Il medico si mise a ridere, le disse di non preoccuparsi e di «tornare un giorno a trovarlo, insieme ai suoi sei figli». Venticinque anni più tardi Russo di figli ne aveva avuti due, da una donna. All’epoca del loro primo incontro, alla fine degli anni 70, Russo era stata sposata due volte. Il primo marito, Salvatore, era un italiano lunatico che frequentava con lei una scuola di recitazione (la stessa di Al Pacino), all’epoca talmente povero da potersi permettere soltanto scarpe di gomma. La mamma prese il suo cognome, che mantenne anche dopo il divorzio. Una volta “diventata” lesbica i suoi amici presero a chiamarla “Russo”, e il nome è rimasto. Anche io, quando non la chiamo “mamma”, uso quel nomignolo che risale a prima che io nascessi. L’altra madre, Robin, descrive invece la propria infanzia come un film in bianco e nero di cui si sentiva spettatrice. Ma dopo aver fatto outing, all’università, iniziò a vivere con maggiore partecipazione. Pochi anni dopo incontrò Russo, e la sua vita divenne a colori.
Fare outing per le mie madri non è stato che il primo di molti ostacoli. Rendere pubblico il loro rapporto è stata una scelta politica, nonché un potenziale rischio: qualcuno le avrebbe infastidite se si fossero scambiate un bacio per strada? O in un ristorante? I familiari di Robin non approvavano che lei fosse lesbica, e non accettarono la sua compagna. Quando annunciò di aspettare un figlio, reagirono disgustati. Il loro rapporto è andato deteriorandosi e anche quello con i fratelli rimane freddo e teso. Tuttavia le mie mamme decisero ugualmente di mettere su famiglia.
Qualcuno regalò loro un piccolo libro che spiegava come praticare da soli l’inseminazione artificiale con una siringa di plastica da cucina. Russo, che era più grande, fu la prima a sperimentare il procedimento, con il seme di un conoscente. Meno di un anno più tardi è stato il turno di Robin con un altro donatore. La loro famiglia è stata così completata dalla nascita mia e di mia sorella Cade. Da quel momento hanno lottato per difendere le proprie scelte genitoriali. Erano convinte che la nostra fosse una famiglia vera, malgrado la gente dicesse altrimenti. Non lo era nel senso tradizionale - o nucleare - del termine, ma di certo lo era sotto ogni altro punto di vista: un’unità di persone tenute insieme dall’amore. Cenavamo insieme tutte le sere e trascorrevamo le vacanze a Provincetown, in Massachusetts. La nostra vita scorreva tra Sesame Street (programma tv per bambini, un vero classico), la compagnia di qualche animale domestico, gli appuntamenti con Boggle (la fatina dei denti) e le recite scolastiche. Mancavano solo le Barbie: le mie mamme temevano che avrebbero potuto influenzare negativamente il nostro rapporto con il corpo.
La nostra è una famiglia costituita da quattro individui e incentrata sull’unità, il rispetto e i confronti spassionati. Essere figlia di due madri ebree ha significato inoltre poter contare su grandi quantità di cibo, e almeno altrettante discussioni. Che a volte degenerano in urla e lacrime, ma siamo fatte così, questo è il rapporto che ci lega. «Sii te stessa e ti ameremo per come sei», mi dicevano. Sono stata incoraggiata a pensare con la mia testa e a seguire il mio cuore. Da ragazzina mi domandavo come sarei venuta fuori, etero o gay. Si pensa che chi cresce in un ambiente eterosessuale debba diventarlo a sua volta: sposarsi, avere figli e tutto il resto. Da ragazzina ero acutamente consapevole del fatto che sarei stata gay o etero: una delle due. Gli anni della mia adolescenza sono stati scanditi da una specie di conto alla rovescia, pieno di suspense come la sigla del programma tv Jeopardy. Se diventassi lesbica, mi dicevo, sarò come i miei genitori. Opzione comoda e prudente. Ironicamente, da un punto psicologico, la possibilità di diventare etero appariva più rischiosa, perché mi avrebbe allontanata dalla cultura gay nella quale ero cresciuta. Sin da bambina avevo manifestato al Gay pride. Se fossi diventata etero avrei potuto farlo come spettatrice?
L’idea di essere eterosessuale mi appariva al tempo stesso aliena e affascinante. Magari sarei diventata come una di quelle donne che vedevo per strada, a passeggio sui tacchi a braccetto di uomini alti, muscolosi, dalla barba incolta? Non riuscivo a immaginarmi parte di quel mondo fatto di condom e matrimoni. Al tempo stesso però, essere gay non faceva per me. Dopodiché, a 17 anni mi innamorai per la prima volta. Lui era un ragazzo delizioso, di Boston, suonava la chitarra e amava Bob Dylan.
E mentre mia sorella (dopo aver fatto parlare di sé per le pomiciate con Theo sulle scale della scuola) aveva fatto outing come lesbica, io iniziavo a capire di essere attratta dai maschi. Vivere in una casa piena di donne mi aveva fatto credere di essere l’unica al mondo a cui il corpo maschile risultasse estraneo. Ma dopo aver parlato con le amiche capii che non ne sapevano più di me. Temevo il sesso ma morivo dalla voglia di sperimentare, e mi domandavo se fosse giusto. Da adolescente andavo nella camera delle mie mamme per la buonanotte. Seduta su un divanetto, chiacchieravo sgranocchiando biscotti. Una volta, mentre parlavo del mio ragazzo e loro sul letto guardavano Masterpiece Theatre, mia madre disse: «Fallo una buona volta, e smettila di pensarci! ». Aveva capito tutto, senza che gliene avessi parlato. Provai un sollievo assoluto. La mia mente da adolescente nevrotica aveva bisogno di sentirsi dire che non c’era nulla di male nell’essere etero e fare sesso. Mia madre lo aveva capito e mi aveva dato la sua benedizione. Mi capita ancora di cercarla, la benedizione delle mie madri. Ho diretto due film, il più recente nel 2009, You Won’t Miss Me (con Stella Schnabel nel ruolo di una giovane attrice in cerca di sé, ndr) che uscirà a novembre qui negli Stati Uniti. Dopo averlo visto, le mamme non sono riuscite a spiegarmi perché gli fosse piaciuto. Parliamo di tante cose, ma non possono risolvere ogni mio problema. Forse, se mi ci è voluto più tempo per crescere, è proprio perché la nostra è una famiglia così unita. C’è una canzone che dice: «Conoscerti-ti-ti è amarti-ti-ti... e io ti amo». La storia della mia famiglia ha contribuito a ciò che sono e a come vedo il mondo. Influenzerà anche il modo in cui educherò i miei figli e il rapporto che avrò con loro. E determinerà i miei prossimi film e i rapporti con amici e amanti. Durante la cena di compleanno di mia madre, il mio ragazzo ha notato che a tavola i miei genitori si tengono ancora per mano come due ragazzine. È rimasto stupito dalla solidità del loro rapporto trentennale. Ho sorriso e l’ho preso per mano, provando a immaginare come saremo noi tra trent’anni.
(© 2010 RTST, Inc. The Daily Beast/The New York Times Syndicate) *Ry Russo-Young vive a Manhattan. You Won’t Miss Me, presentato al Sundance Film Festival, si è aggiudicato un Gotham Award, e uscirà in Usa il 12/11. Il primo film, Orphans, aveva ricevuto il Premio della giuria al SXSW Film Festival 2007.
Dweb - La Repubblica delle Donne
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