"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

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martedì 4 maggio 2021

“Buttare l’acqua sporca con il bambino”



Giancarlo Caselli in un suo editoriale, riguardante il groviglio di problemi scatenato dal dossier con copie dei documenti riferibili a
 cinque interrogatori dell’avvocato d’affari Amara
 chiude così: “Ecco perché, nonostante tutto, è ancora una fortuna che l’inchiesta sia svolta da magistrati indipendenti.” Nel suo intervento scritto diceva pure: “Ma per quanto riguarda Piercamillo Davigo una cosa almeno mi sembra di poter dire fin d’ora: non ha agito per qualche interesse personale o per uno scopo ictu oculi classificabile come riprovevole o riconducibile a una qualche architettura intenzionale. Se ha commesso un peccato, si è trattato di un peccato che si potrebbe definire di generosità. Nel senso che Davigo ha deciso autonomamente (a quanto pare “sul tamburo”, altro indizio di generosa disponibilità) di caricarsi addosso un fardello spinoso per non esporre più di tanto, lasciandolo solo, un collega che si sentiva in difficoltà.”
Durante dibattiti televisivi, autorevoli altri magistrati intrattenuti al riguardo hanno puntato l’attenzione soffermandosi principalmente su aspetti formali e prassi procedurali, mettendo quasi in secondo piano o nemmeno entrando minimamente nel merito della questione, sui fatti e i contenuti documentali, pur se - in ogni caso - da accertare circa l’attendibilità. Il tutto come se una prassi difforme da codicilli e norme avesse un aspetto superiore rispetto a dichiarazioni rese in fase inquisitoria che, forse e comunque a mio parere, avrebbero richiesto tempestività già per la gravità apparente.
Nel mio piccolo, nel lontano febbraio del 1990, era in corso nella mia istituzione un’ispezione interna, di quelle che tendono a verificare il rispetto delle normative. Accadeva mentre parallelamente ero stato, a mio parere, penalizzato dalla dirigenza presente nel luogo in cui operavo per un giudizio annuale (denominato “bollettino”) che mi precludeva ogni possibilità di avanzamento in grado nello scrutinio susseguente.
Ricordo che con un ricorso redatto di getto, chiesi udienza ai componenti del gruppo ispettivo per denunciare quel che ritenevo essere stati i torti subiti e le irregolarità procedurali attuate per addivenire a un giudizio per me penalizzante.
Così come citato per la vicenda Davigo, gli ispettori di quel tempo opposero resistenza a prendere in esame il mio documento. Sostenevano anche loro che la prassi imponeva un certo iter gerarchico e che loro non erano abilitati a sconvolgere le regole.
Obiettai dicendo che in quel momento loro rappresentavano l’istituto a tutto tondo e quindi non potevano, specie per la peculiarità dei compiti ispettivi assegnati, rifiutarsi di prendere in considerazione il mio documento.
Quella volta io fui fortunato, perché, dopo un lungo e vivace confronto, gli ispettori e il Capo del gruppo sostanzialmente, acconsentirono che io lasciassi il ricorso approntato solo per una consultazione.
Prima che la giornata finisse fui nuovamente convocato da loro, invitato a ritirare il documento per formularne uno nuovo, coinvolgendo nella stesura membri della dirigenza per due scopi. Il primo era quello di far rientrare nella prassi gerarchica (normalizzare) la mia istanza, il secondo (coinvolgendo pienamente, anche se in modo informale, la direzione del tempo) per creare i presupposti affinchè si agevolasse – anche con i giusti toni, smussando polemiche e accuse – una revisione del giudizio che era stato assegnato.
Una decisione salomonica, che trovai subito utile accettare, si era dimostrata di fatto la più intelligente delle risposte che avesse potuto adottare un gruppo ispettivo aperto, seppur operante in una istituzione rigida e ingessata.
Con questo mio aneddoto voglio palesare quanto sono molto più importanti i personaggi coinvolti in ogni questione burocratica, rispetto alle regole rigide che impongono aprioristicamente un unico e insostituibile protocollo.
Per i fatti che mi riguardarono, la revisione del giudizio comportò un aumento di tre punti nel “bollettino annuale”, la corresponsione di un premio che per il punteggio prima attribuito non mi era stato assegnato e la promozione al grado superiore avvenuta nell’anno successivo (così come mi era stato informalmente preannunciato da uno degli ispettori che aveva preso particolarmente a cuore la mia questione). Il Direttore coinvolto ebbe modo di ricredersi e capire certe mie ragioni inespresse; mi spostò, peraltro, subito d’ufficio e mi agevolò poi – essendo stato trasferito - nel raggiungimento professionale di quello era solo un sogno: quello che per me rappresentava un “Gotha” inarrivabile, ovvero l’ispettorato, non quello formale interno ma l’altro, quello ben più interessante che sorvegliava l’intero sistema nazionale di vigilanza.
Per quanto ovvio ed evidente, se non avessi agito fuori dagli schemi, in modo anomalo, tutto sarebbe rientrato nella routine ordinaria che – specie in realtà autoreferenziali, come in quella in cui ho lungamente operato – non avrebbe generato risultati così stravolgenti e a me favorevoli.
Altre vicende successive, accadute sempre nella stessa istituzione e per molti aspetti ben più gravi, non ebbero mai più esiti per me positivi. A dimostrazione che alla base di ogni questione occorre che vi siano, nell’interlocuzione e nell’inevitabile contraddittorio che si genera, almeno persone dotate di onestà interiore propria o abbiano in uso o per lo meno conoscenza di quello strano esercizio di giudizio che presuppone onestà intellettuale.
Tornando ai fatti di Piercamillo Davigo, ora sono tutti lì a sparare al bersaglio, nemici e amici conformisti forse un po’ talebani che, strumentalmente o in buona fede ha poca importanza, rischiano ancora una volta di “buttare l’acqua sporca con il bambino”.

Buona luce a tutti!

© ESSEC

venerdì 31 gennaio 2020

Piercamillo Davigo, il nuovo ‘bersaglio grosso’


Gran parte della politica, in Italia, tende ad autoassolversi riducendo il cancro della corruzione sistemica a isolate performance di “mariuoli” o “sfigati” di poco conto. Un “revival” di tale tendenza è la campagna di rivisitazione del ruolo politico di Bettino Craxi. Molti ne sono i protagonisti e gli obiettivi. Fra questi la magistratura, in particolare Mani Pulite. Come ha osservato Barbara Spinelli su questo giornale, definire Craxi non “latitante” ma “esule” è come invalidare le sentenze, con effetti devastanti sulla legittimità del sistema giudiziario.
Circa 27 anni fa, la stagione di Mani Pulite segnò – per il nostro Paese – un forte recupero di legalità. Sembrava prevalere quell’Italia che le regole le vuole applicare in maniera eguale per tutti e non soltanto enunciarle. Poi invece ebbero il sopravvento l’indifferenza o l’ostilità verso chi dall’interno dello Stato cerca di garantire la legalità. Di qui gli attacchi – tra l’altro – alle pretese invasioni di campo dei giudici. Con esiti perversi, perché mettere sotto accusa i magistrati, invece dei corrotti e collusi, comporta per costoro una minore fatica nel ricostruire le fortificazioni sbrecciate dalle inchieste. Esemplare, in questo percorso, è stato l’uso cinico del termine “giustizialismo”. Parola un tempo sconosciuta nel lessico giudiziario; poi introdottavi con la precisa finalità mediatica di diffondere pretestuosamente l’idea di un uso scorretto della giustizia, costringendo il dibattito a partire da una sorta di verità rovesciata; ormai adoperata con la stessa intensità dei “tackle” nelle peggiori partite di calcio, fino a farne un cardine della propaganda ingannevole basata sulla ripetizione assillante che alla fine fa sembrare veri anche i falsi grossolani.
Nei confronti della magistratura questa tecnica è stata applicata in modo implacabile da Silvio Berlusconi. Le indagini milanesi sulla corruzione erano per lui “del tutto estranee a uno Stato di diritto, sintomi di faziosità eretta a regime giudiziario e di una gestione accanita e politicizzata della giustizia penale”. A seguire, ci fu la proposta di una Commissione parlamentare d’inchiesta per “accertare se ha operato nel nostro Paese un’associazione a delinquere con fini eversivi, costituita da una parte della magistratura” (così il portavoce di Forza Italia, on. Bondi). Senza negarsi proteste di piazza contro i giudici “scomodi”, con manifesti osceni tipo “fuori le Br dalle procure”. Portando ai livelli di guardia la compatibilità con le regole di convivenza istituzionale proprie di un sistema democratico.
Oggi – si direbbe – l’insofferenza verso la magistratura registra, dopo la stagione dell’esuberanza (?) berlusconiana, un’inedita declinazione, il cui “bersaglio grosso” è un singolo magistrato: Piercamillo Davigo, il “dottor sottile” di Mani Pulite, componente del Csm, spesso chiamato dai media a intervenire sui problemi della giustizia e del processo, da ultimo il tema della prescrizione. Con un linguaggio non felpato, mai in “giuridichese”, ma chiaro e netto (perciò temuto da chi preferisce le cortine fumogene), Davigo usa prendere posizioni argomentate e graffianti. Dissentire anche con vigore è ben possibile. Ci mancherebbe. Ma gli avvocati sono andati oltre. Quelli di Torino, Lanusei e Reggio Emilia hanno chiesto per Davigo sanzioni disciplinari; quelli di Milano che non possa partecipare alla cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario di sabato prossimo per la quale è stato designato dal Csm. Il “capo d’accusa” degli avvocati è tuono e tempesta: magistrato “accecato da visioni giustizialiste”, colpevole di “un violentissimo attacco allo Stato di diritto”, che nega i “fondamentali principi costituzionali del giusto processo, della presunzione di innocenza e del ruolo dell’avvocato nel processo penale”.
In realtà quelle di Davigo sono idee e proposte tecniche sempre motivate, non comprimibili nel perimetro di antichi slogan a effetto. In ogni caso, le gravi difficoltà della stagione che stiamo vivendo non consentono il lusso del silenzio. Altrimenti, mentre tutti parlano di giustizia, sarebbero solo i magistrati a non poterlo fare. Assurdo: come pretendere che i medici non parlino di sanità o i giornalisti di informazione. La speranza, dunque, è che la furia degli avvocati (i “principi” del contraddittorio) si plachi, recuperando le forme di un articolato confronto. Così da respingere ogni atteggiamento che possa essere letto come pericoloso per la libera manifestazione del pensiero.

Giancarlo Caselli (Il Fatto Quotidiano - 31 gennaio 2020)


lunedì 22 maggio 2017

Ora Berlusconi si appropria di Giovanni Falcone



Si avvicina il XXV anniversario della strage di Capaci che causò la morte di Giovanni Falcone. Inesorabile, comincia l’appropriazione indebita della sua figura. Silvio Berlusconi, in una lunga intervista del 15 maggio al direttore del Foglio, non ha resistito alla tentazione. E si è prodotto in alcune sorprendenti affermazioni. 

Sostiene B., ad esempio, che “Falcone è il simbolo di come dovrebbe essere un magistrato”. Sembrava invece che le sue preferenze volgessero verso i giudici come Vittorio Metta, quello del lodo Mondadori. Sostiene ancora B. che “al pensiero di Falcone si ispirano molte delle nostre idee sulla giustizia”. Ma non risulta da nessuna parte che Falcone fosse un sostenitore delle leggi ad personam e men che mai un fanatico assertore della difesa non solo “nel” ma “dal” processo. Quanto poi all’idea della “separazione delle carriere” che B. attribuisce a Falcone, spiace rilevare che il magistrato parlava di separazione delle funzioni, cosa ben diversa. Un “uomo libero” come lui (così con ragione lo definisce B.) non poteva accettare un pm dipendente dal potere esecutivo, ciò che invece logicamente e inevitabilmente consegue ovunque vi sia separazione delle carriere. 

Secondo B. quello di Falcone è stato “uno strano destino”, perché è diventato “un’icona della sinistra giustizialista, esattamente quella che da vivo lo combatté in ogni modo”, per “bloccarne la nomina alla Superprocura Antimafia”. Senonché, il modo decisamente più aspro e selvaggio per combattere Falcone su questo versante fu quello escogitato dal Giornale di Napoli diretto da Lino Jannuzzi, che in un articolo ... definì Falcone e De Gennaro (rispettivamente candidati alla Pna e alla Dia) “i maggiori responsabili della débâcle dello Stato di fronte alla mafia… una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentitismo e i maxi-processi, ha approdato al più completo fallimento”. Addirittura i protagonisti della lotta alla mafia vengono accomunati ai mafiosi: “Da oggi, o da domani, dovremo guardarci da due ‘Cosa Nostra’, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto”. E questo Jannuzzi è lo stesso – proprio lo stesso – che diventerà senatore nella XIV e XV Legislatura, sempre sotto le insegne berlusconiane. 

E non è tutto. Una furiosa campagna di stampa si era scatenata negli anni Ottanta contro Falcone e il maxi-processo, il capolavoro investigativo-giudiziario che stava producendo l’inedito risultato di porre fine alla vergognosa impunità di Cosa Nostra. Dal diluvio di insinuazioni e accuse, ecco alcune “perle”. L’attacco si indirizza dapprima contro i “pentiti”, definiti “avanzi di cosca”, “arnesi processuali di epoche lontane e oscure”. Si sostiene che “il pentitismo meritava un uso più intelligente” e che “l’apparato giudiziario non è stato all’altezza della straordinaria occasione” (così Salvatore Scarpino sul Giornale nel 1987). I processi di mafia vengono definiti “messinscene dimostrative, destinate a polverizzarsi sotto i colpi di quel po’ che è rimasto dello Stato di diritto”, “montature” allestite dai “registi del grande spettacolo della lotta alla mafia”. E ci si chiede “se è stato opportuno seguire la strada dei maxi-processi, estremamente utili ai fini spettacolari, ma dannosi ai fini di giustizia” (così Guido Lo Porto sul Giornale di Sicilia – 1987). 

I giudici del pool vengono sostanzialmente accusati di collateralismo con i “comunisti”, che “mirano a controllare l’antimafia e appoggiano a spada tratta i magistrati-personaggio della cordata Falcone” (così Marco Ventura sul Giornale nel 1988). Il maxi-processo viene definito un “un processo-contenitore abnorme… un meccanismo spacciato come giuridico”, ma utilizzato ad altri fini “dai giudici capitanati da Falcone”. I quali vengono indicati come artefici di un “ormai diffuso clima maccartista” a Palermo, per cui costituirebbero “un lampante pericolo non solo di condizionamento giuridico ma ancor più di condizionamento politico” (così Ombretta Fumagalli Carulli sul Giornale nel 1988). 

Come si vede, nel florilegio di citazioni compare spesso il quotidiano dal 1979 proprietà della famiglia Berlusconi. Mentre Lo Porto e la Fumagalli come parlamentari faranno poi parte della maggioranza berlusconiana. Lo Porto diverrà anche sottosegretario alla Difesa nel governo Berlusconi nel 1994. E ciò dopo che la furibonda campagna contro Falcone lo aveva azzoppato, cancellando il pool e azzerandone il metodo di lavoro vincente. Dunque, davvero uno strano destino quello di Falcone: ma non nel senso teorizzato da Berlusconi.

 Gian Carlo Caselli (Il Fatto Quotidiano - 18 maggio 2017)


mercoledì 11 gennaio 2017

‘I professionisti dell’antimafia’, qualcuno informò (male) Sciascia





Giusto trent’anni fa Il Corriere della Sera pubblicò un articolo di Leonardo Sciascia intitolandolo “I professionisti dell’antimafia”. Fin da subito l’articolo divenne famoso per alcuni e famigerato per altri. Anche oggi le polemiche continuano. Felice Cavallaro, ad esempio, sempre sul Corriere ne ha fatto una rievocazione elogiativa, di lungimiranza che smaschera i rischi “dell’impostura” dell’antimafia, confermata dalla “deriva dei nostri giorni”. Condivido la risposta di Nando dalla Chiesa su questo giornale e di Mario Portanova sul sito, con un paio di aggiunte. Nel suo articolo Sciascia, sostanzialmente, affrontava due temi: il rapporto della mafia con la politica e con la giustizia. Sul primo versante avrebbe potuto prendersela con Ciancimino o Lima o Andreotti.

Scelse invece come bersaglio Leoluca Orlando, non riconoscendogli neppure il tentativo di porre alla base della sua attività istituzionale una nuova cultura politica, avversa a legami più o meno occulti con la mafia.

Quanto al secondo versante, nessun accenno ai magistrati che si “scantano” o si scansano, quelli cioè che hanno paura o preferiscono la vita tranquilla, per cui non vedono o si tirano indietro. Un attacco furibondo invece contro Paolo Borsellino, uno dei più validi componenti (insieme a Falcone) del pool di Chinnici e Caponnetto che aveva ottenuto, con il “maxi-processo”, la prima sconfitta di Cosa Nostra dopo secoli di impunità.

Roba da niente secondo Sciascia, in ogni caso non sufficiente per giustificare la nomina di Borsellino a Procuratore di Marsala (zona ad alta intensità mafiosa), a fronte di un concorrente “più in diritto di ottenere quel posto” perché più anziano, ancorché mai incaricato di un processo di mafia. Di qui l’accusa assurda a Borsellino di essere un “professionista dell’antimafia”, nel senso di un arrivista che sgomita per scavalcare colleghi più meritevoli (per l’anagrafe…). Un’accusa che dopo la strage di via d’Amelio sarebbe bestemmia riprendere.

Come tutti, Borsellino amava i libri di Sciascia e accettò una sorta di rappacificazione nonostante la sofferenza e la rabbia provate. Egli era sicuro (lo disse più volte a Ingroia, suo strettissimo collaboratore) che con quella polemica “era iniziata la fine” della stagione del pool di Palermo. Come era sicuro che qualcuno che non l’amava avesse fornito a Sciascia informazioni tendenziose.

Ora, che vi sia stato un “suggeritore” emerge chiaramente dalla circostanza che Sciascia cita testualmente vari passi del “Notiziario straordinario 10.9.86, n. 17, del Consiglio superiore della magistratura (Csm)”, vale a dire una pubblicazione che certo non figurava nella sua biblioteca né fra le sue abituali letture.

È un fatto che l’articolo alla fine produsse effetti dirompenti, ma a farne le spese fu… Giovanni Falcone. Quando si trattò di nominare il successore di Caponnetto, invece di Falcone (il più bravo di tutti nell’antimafia) venne designato un magistrato praticamente digiuno in materia, ma più anziano.

Complice l’articolo di Sciascia, sbandierato come un trofeo dai componenti del Csm inclini alla bagarre. Così, il criterio della professionalità specifica (previsto in una delibera del Csm del 15.5.86 – ignorata da Sciascia – per la nomina dei dirigenti di uffici di “frontiera” antimafia), già adottato con Borsellino, venne cancellato per Falcone. Motivando la spregiudicata giravolta anche con la necessità di valutare “prima di schierarsi, quale orientamento fosse prevalente fra i giudici e all’interno delle correnti di Palermo” (così Vincenzo Geraci, capo fila del “ribaltone”). Come a dire che un pugno di voti a favore della propria cordata contava più del rispetto dovuto alla professionalità di un magistrato come Falcone.

È innegabile che la lotta alla mafia dopo l’umiliante bocciatura di Falcone subì un arretramento di qualche decennio. Circondata la fortezza – grazie al metodo di lavoro vincente del pool – lo Stato si ritirava rinunziando alle posizioni conquistate.

Nel percorso che portò a questo sciagurato risultato Sciascia ebbe un ruolo importante, quando il cedimento alle suggestioni dell’informatore interessato fu usato strumentalmente contro Falcone, con tecnica vile e spregiudicata.

Il contributo di Sciascia fu forse inconsapevole, nel senso che egli non si curò dei possibili effetti nefasti sull’antimafia in generale che il suo articolo su Borsellino poteva avere. Ma di certo è radicalmente sbagliato attribuirgli lungimiranza o addirittura lucidità profetica per un articolo che in pratica fu un passo falso venato di astrattezza. E che in ogni caso non c’entra un bel niente con la crisi che attraversa oggi, trent’anni dopo, qualche segmento dell’antimafia sociale.



venerdì 28 febbraio 2014

QUATTRO RIFORME A COSTO ZERO



Si torna a parlare di riforma della giustizia. La misura è colma: costi e tempi vergognosi fanno di quella italiana una denegata giustizia. Ma da sempre le denunce restano senza terapie. Semmai qualche tentativo di riformare non la giustizia ma l’indipendenza dei giudici. Per contro sono possibili, subito e a costo zero, interventi decisivi. A cominciare dalla prescrizione, che soltanto in Italia non si interrompe mai, mentre ovunque altrove si interrompe con il rinvio a giudizio o con la sentenza di primo grado, o – a tutto concedere – con quella di appello. Da noi niente. E allora conviene sempre allungare il brodo all’infinito perché arrivi la prescrizione che tutto azzera. Ma così i processi non finiscono mai e qualunque riforma che non toccasse la prescrizione si risolverebbe in una presa in giro.
Poi c’è il sistema delle impugnazioni. Oggi, per andare subito a un esempio concreto, l’imputato confesso di un reato da niente, perciò condannato al minimo della pena, ricorre lo stesso. Sempre e comunque. In appello la pena (reo confesso condannato al minimo) sarà ovviamente confermata. Al che l’imputato – sempre più incredibile – ricorre persino in Cassazione, pur sapendo che non c’è niente da sperare. Morale: tutti ricorrono, il sistema si ingolfa, i tempi rallentano e i processi si allungano. Occorrono (eppure non si fa) dei filtri di grado in grado, che impediscano o fortemente sconsiglino i ricorsi inutili. Per esempio si potrebbe finalmente abolire un retaggio del diritto romano, il cosiddetto divieto di reformatio in pejus, grazie al quale se a ricorrere è soltanto lui, l’imputato non rischia assolutamente nulla, perché è vietato peggiorare di un solo giorno o euro la condanna già inflitta. Ultracomodo, al punto che non ricorrere è masochismo.
C’è poi un intervento in radice, di sistema, che ritengo indifferibile. Tra civile e penale abbiamo ben nove milioni di processi arretrati. Una montagna contro cui qualunque riforma è destinata a schiantarsi. Bisognerebbe avere il coraggio di abolire tout court il grado di appello. Così si ricupererebbe una quantità consistente di magistrati, segretari e cancellieri, da destinare in una prima fase esclusivamente all’eliminazione dell’arretrato. Poi andrebbero concentrati sul primo grado che ne trarrebbe una forte accelerazione, mentre la scomparsa dell’appello dimezzerebbe – se non più – i tempi dei processi. Certo, lo ripeto, ci vuole un gran coraggio. Ma è necessario (pur essendo scontato che le voci contrarie sarebbero un mare) per non soccombere sotto un cumulo di macerie.
Si torna a parlare, poi, di falso in bilancio. L’attuale disciplina è una iattura. Perché allenta fortemente le regole dell’impresa favorendo i più forti. Rende opache le regole dell’economia pregiudicandone credibilità e affidabilità. Dissuade risparmiatori e investitori. Oscura tutta una serie di “spie” tecniche utilissime perché non restino sommersi fatti di corruzione o di economia illegale, anche mafiosa. Urge dunque una riforma. Anche per chi – come il nuovo premier – chiede che cessi il “derby ideologico” fra politica e giustizia. Ora, se derby è sinonimo di scontro ad armi pari – dissentono i tifosi del Toro, scottati da certi arbitraggi – è improprio parlare di scontro quando uno solo, la politica, le dà e l’altro le prende.
Comunque sia, è facile vedere che nella storia del “derby” entra anche il falso in bilancio. Perché, al netto della propaganda, è un fatto che un’infinità di processi è cominciata quando il falso in bilancio era reato; – ma a processo aperto le regole sono state allegramente cambiate con la depenalizzazione, e i processi sono stati rottamati “perché il fatto non costituisce più reato”. Uno dei tanti esempi di leggi ad personam, ma in questo caso al danno si sono aggiunte beffe devastanti. Benzina per il preteso “derby”. Chi con la depenalizzazione del reato è stato “graziato” (magari in decine di processi), ha poi avuto la sfrontatezza di dire: vedete, decine di volte i Pm mi hanno accusato e decine di volte sono stato poi assolto. Un accanimento perverso. Ce l’hanno con me. Questi orridi magistrati invece che giustizia fanno politica! Falso, ma così nasce la storia del “derby”. Per cui, quando sull’attuale disciplina del falso in bilancio sarà messa una croce, non sarà mai troppo presto.


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Monte Pellegrino visto dalla borgata di Acqua dei Corsari

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