"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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Fotogazzeggiando: Immagini e Racconti

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mercoledì 22 gennaio 2025

Il racconto di una serie di fotografie mai scattate

Molti di noi scrivono annotando ricordi, nel tentativo di fissare esperienze e sensazioni vissute.
In genere sono scritti veloci che costituiscono appunti destinati a rimanere chiusi nei cassetti, trasformandosi in prodotti liofilizzati suscettibili di rinvenire aggiungendovi anche poca acqua.
Capita, alcune volte, quindi, che discutendo al bar fra amici possano riaffiorare e riprendere luce.
Mi è capitato di recente con Vincenzo, nel parlare di fotografie mai scattate ma che gli erano rimaste impresse nella mente.
Nell’ascoltare il racconto, le descrizioni mi portavano a vedere le immagini. Era la sinossi di un portfolio di fotografie immaginarie.
Una volta convinto Vincenzo si è deciso a mostrare le foto del suo portfolio fotografico virtuale, limitandosi al solo testo che riporto di seguito.

Buona luce a tutti!

© Essec

--

“Volgendo il pensiero ai bei momenti passati mi ricordo di un periodo della vita nel quale tutto era più semplice ma niente affatto banale.
Di quel mondo vorrei raccontare di quando, in un altro tempo, in un altro ambiente quasi ancora incontaminato, in compagnia dei miei colleghi di lavoro ci si inerpicava per sentieri di montagna con lo scopo di portare a destinazione i materiali e le attrezzature necessarie per installare ripetitori radio, già alimentati da pannelli solari.
Dopo esserci alzati alle quattro del mattino cominciavamo il nostro viaggio con gli occhi ancora mezzi chiusi. Dopo due ore di autostrada giungevamo all’imbarco.
Lì, dopo aver atteso l’apertura del botteghino per l’acquisto dei biglietti, in un clima da film come ”Nuovo cinema paradiso”, finalmente una prima colazione con i cornetti caldi e poi e un viaggio di altre due ore in mare, sul traghetto.
Si potevano ammirare le isole in lontananza e pesci volanti che di tanto in tanto uscivano dall’acqua per percorrere un lungo tratto di mare in volo, con le pinne a forma di ali spiegate prima di rituffarsi, e anche, con un po’ di fortuna, delfini che correvano giocosi accanto alla nave.
Arrivati a destinazione si scendeva dalla nave e si riprendevano le strade, arrivando fin dove si poteva con il vecchio Land Rover carico di materiale. Quello era il punto dal quale iniziava il nostro sentiero in montagna.
Lo avremmo percorso nei due sensi due o tre volte in una giornata, portando sulle spalle, poggiata sopra una specie di mensola auto costruita, materiali e attrezzi. Talvolta una batteria di automobile, un’altra volta un paio di pannelli solari o tutto ciò che era necessario per costruire una minuscola casetta di lamiera dove all’interno poter montare il ripetitore e le batterie. Sul suo tetto, appunto, i pannelli solari.
Si cominciava a scaricare le attrezzature per poi formare un’improbabile carovana di disperati che, con un generoso peso sulle spalle e un altrettanto generoso sole che cuoceva al punto giusto la pelle e sotto i cappellini, s’impegnava a svolgere il proprio dovere.
Inerpicandosi, lungo il cammino, su tortuosi sentieri, di tanto in tanto capitava di godere di poter aspirare ricche boccate di anidride solforosa trasudata ad arte dal terreno, che il sapiente vento spingeva nelle narici facendoli piegare sulle ginocchia. Flussi che impegnavano in una nauseabonda lotta contro l’asfissia, in un momento nel quale il fisico, sottoposto allo sforzo della salita, richiedeva afflusso di ossigeno puro.
Per non parlare poi di quando presi dalla stanchezza ci si concedeva un momento di relax, sedendosi inesperti su una pietra, non sapendo che la famosa anidride solforosa, combinandosi con il sudore, diventava acido solforico.
Si producevano così squarci sul fondo dei pantaloni, rendendo suscettibili ai diverti-ti commenti dei compagni e dei passanti sul colore delle tue mutande.
Ad onor del vero, anche per un senso di giustizia, devo dire che, visto dall’alto, il panorama mozzafiato delle altre isole, sorvolate dagli uccelli e affogate in un mare turchese era mozzafiato.
In certi punti, il colore del terreno era frutto dei vapori solforosi ricchi di minerale solforoso, che davano sfumature di giallo e arancione ai cristalli che si formavano sulla pietra. Uno spettacolo che ripagava ampiamente di tutti gli sforzi e disagi.
Finalmente, arrivati in cima, dopo l’ultimo tragitto ci concedevamo della frutta fresca e qualcosa di leggero da mangiare. Poi si cominciava la costruzione mettendo insieme le lamiere della casetta con i “rivetti” e l’applicazione di una verniciatura protettiva con una speciale resina fatta apposta per resistere ai vapori corrosivi. Seguivano l’installazione delle batterie, del ripetitore, dei supporti per i pannelli solari e infine anche quelli conclusivi connessi al cablaggio elettrico e all’installazione dell’antenna.
Terminati i lavori d’installazione, ci si concedeva una sosta per riprendere energie: altro sguardo al meraviglioso panorama. In seguito le prove di collaudo per verifica-re il funzionamento.
Si finiva che era già sera e si ridiscendeva tutti stanchi ma soddisfatti del lavoro completato che era andato a buon fine. Questo significava, scusatemi se era poco, non dover risalire ancora l’indomani.
Finalmente dopo una toccata e fuga in hotel per ripulirsi ci si poteva ritrovare nel miglior ristorante dell’isola, per una succulenta cena a base di pesce fresco. Seguiva un bicchierino e magari qualche partita a bigliardino e tantissime risate tra colleghi amici per poi, a tarda notte, concludere il meritato riposo.
Erano altri tempi avevamo, avevamo un’altra età. Tutto era più semplice e a portata di mano.
Ora, come capita a ciascuno di noi, restano solo dei bei ricordi, che ci portano a pensare che il passato era migliore.
Di certo pure i nostri antenati, nel loro tempo, avranno pensato la stessa cosa e an-che quelli che verranno la penseranno perché non è il passato che è migliore: sono i nostri ricordi .......... e le fotografie mai scattate che rimangono impresse nella nostra mente.
© Vincenzo Pace.”

sabato 4 gennaio 2025

Scritti che riescono ad accendere l’eventuale immaginario assopito: "Una Piccola Follia"



Un film, uno spettacolo teatrale e, comunque, qualsiasi realizzazione artistica che comprende un contenuto visivo indirizza e condiziona l’osservatore e lo costringe a seguire percorsi predefiniti, generati dalla creatività e dall’idea di chi ne coordina e cura la regia.
Altra cosa è l’approccio che si determina con un’opera letteraria, la quale porta ogni fruitore a inventarsi da sè gli scenari e i personaggi che accompagnano le narrazioni. Inducendo a immaginare figure e luoghi che, seppur minuziosamente descritti, obbligano a far ricorso alle proprie esperienze e, in ogni caso, attingendo al bagaglio culturale personale, nel definire ogni cosa.
Pertanto chi si approccia a leggere un qualunque testo diventa ogni volta compartecipe con l’autore nella rielaborazione di qualsiasi messaggio.
Tanti lettori che si approcceranno a uno stesso romanzo produrranno, quindi, tante storie differenti e vedranno vari panorami e tante figure.
In relazione alle sensibilità e alle diverse diottrie si cattureranno così molte tonalità di colore e si coglieranno tante sfumature. La stessa cosa, per grandi linee, accade in fotografia.
Cristiano De Scisciolo si dimostra certamente un autore di talento, essendo riuscito, nella scrittura dei suoi libri, ad abbinare felicemente un ricco lessico ad una spiccata inventiva; conferendo ai suoi romanzi una fluidità narrativa in grado di coinvolgere il lettore anche per i suoi originali itinerari.
Nelle descrizioni ambientali, ricorrendo alla consolidata passione per la fotografia, con le sue parole riesce a far vedere le scene che sono collaterali ai racconti; tanto da trasformare il lettore, pur in assenza d’immagini reali (con fotografie fatte da commistioni di sole parole), in uno spettatore assorto ad assistere alla proiezione di un film che andrà a immaginare.
De Scisciolo Ha tanta voglia di raccontare e, come lui stesso afferma nelle pagine di ringraziamento del suo ultimo romanzo, non si può certo dissentire dalla convinzione che lo sorregge, ovvero che “non si può scrivere senza leggere”. Ma per la buona scrittura occorre certamente talento, e lui ne dispone.
Perseguendo impegnativi tracciati di altri nobili scrittori che sono stati e continuano ad essere oggetto delle sue letture, le opere di De Scisciolo trasudano una verve creativa che riesce a intrecciare percorsi costantemente rinnovati; capaci di mantenere attiva l’attenzione di chi lo legge, conferendo ai suoi scritti freschezza letteraria e sviluppi dai ritmi coinvolgenti.
Dopo aver ampiamente dimostrato con Magma, pubblicato nel 2014, una piena padronanza compositiva come esperto romanziere di stampo “classico”, negli ultimi libri si è incanalato verso un genere per lui nuovo; volgendo la sua attenzione verso una formula letteraria che potrebbe anche essere etichettata, e senza alcun senso riduttivo, come un “filone seriale”.
Nei suoi due recenti romanzi ha assunto a protagonista Claudio Maselli, un commissario di polizia acuto e intraprendente.
Su questo personaggio di fantasia, come hanno fatto già Camilleri, Carofiglio e tanti altri giallisti contemporanei e passati, ha incentrato le sue storie, riuscendo ad arzigogolare complicate indagini investigative; piene di sorprese, colpi di scena e con l’inserimento di personaggi mai banali e sempre intriganti.
L’ultima operazione letteraria “Una piccola Follia”, ambientata come la precedente negli Emirati Arabi, costituisce un prosieguo al romanzo intitolato “Tracce nella sabbia”.
Entrambi i due libri, oltre catturare per gli intrecci delle intricate trame poliziesche, hanno il privilegio della leggerezza, nel riuscire a far viaggiare il lettore in ambientazioni ultra moderne che stimolano ulteriormente le fantasie.
Per chiudere, pur rispettando le preferenze letterarie di ognuno, si consiglia vivamente un approccio ai suoi romanzi che coinvolgono, scorrono, catturano e consentono anche ai più refrattari di risvegliare l'eventuale immaginario assopito.

Buona luce a tutti!
© Essec

domenica 13 ottobre 2024

Viaggiare ......



Viaggiare genera a volte anche incontri insoliti, strani, magari con personaggi quasi virtuali che rimangono sconosciuti.
Nella cabina accanto alla mia della nave presa per il ritorno a casa, mentre mi ritrovavo a leggere una storia biografica, scorreva il racconto di una passeggera che, predisponendosi al sonno, intratteneva le sue non meglio quantificabili compagne di viaggio, accennando a pagine della sua vita.
Raccontando delle sue fobie ricordava della paura che aveva dell’acqua, in quanto liquido che poteva anche nascondere abissi, e di quella volta in cui si decise a rompere drasticamente quel tabù. Indossato in fretta il costume che portava con se venne a tuffarsi in piscina.
Non aveva mai fatto fino ad allora quel gesto …. In qualche modo immaginato come un modo di proiettarsi verso l’ignoto. Si buttò decisa, chiudendo gli occhi e, annaspando per qualche istante; evidentemente ebbe ad aprire la bocca, tanto da perdere in un sol colpo entrambe le protesi dentarie che era costretta a portare per un problema gengivale.
Quella sua estemporanea disavventura ebbe un seguito con una felice soluzione perché, narrando l’accaduto al suo compianto amico Pippo, questi si premurò di recuperarle le due dentiere che erano rimaste a giacere in fondo alla piscina.
La sconosciuta continuò a narrare tanti altri aneddoti, che andava a sfilare sapientemente ad uno ad uno alle sue amiche complici che, nella circostanza, immaginavo anche attente.
Con molte probabilità si trattava una persona matura che in età giovanile era stata molto esuberante ed imprevedibile, anche per l’avere lasciato dopo soli diciassette anni il lavoro, mandando - a suo dire - tutti a quel paese, senza aver accumulato i contributi necessari per poter accedere alla pensione. Fortunatamente, veniva pure a raccontare come la cosa non costituisse un problema, in quanto il reddito del marito era sufficiente per continuare a mantenere il suo stato sociale, senza alcun patimento economico.
Ai tanti altri racconti intramezzava delle vecchie filastrocche, delle nenie e ninna nanna con vecchie canzoni dello zecchino d’oro che conoscevo anch’io, che veniva a cantare con voce intonata e ricordando perfettamente tutte quante le parole del testo.
Visto l’andazzo ero quasi rassegnato per una notte in bianco, pensavo: stanotte mi dovrò sorbire tutte queste storie. Peraltro la tonalità delle sconosciuta era alta e sembrava quasi che anch’io fossi all’interno della loro cabina.
Ma come accade spesso coi bambini, anche i più irrequieti, tutto ad un tratto fu un silenzio di tomba, intervallato ritmicamente da un respiro profondo. Quasi si fosse spento l’interruttore e la radio, rimasta priva di corrente, si fosse zittita.
Non accadde più nulla fino al mattino seguente.
Non ebbi a conoscere i personaggi narrati, rimasti del tutto sconosciuti, anche se i miei sospetti caddero su un tavolino al bar, dove stavano sedute quattro donne attempate, che potevano corrispondere nell'età ai soggetti.
Una di loro teneva sempre testa alle altre, continuando a parlare sempre di qualcosa, in modo quasi logorroico, in un monologo perpetuo che non trovava fine.
Questa volta erano sedute molto lontano e non riuscivo a sentire nulla del loro discorrere.
Si sostiene che da vecchi si torna a respirare le sensazioni e le stesse spontaneità che si sono vissute da bambini. In età adulta non ci di basa però sulle favole o sulla fantasia, ma si ripercorrono i frames della vita vissuta. Raccontandola talvolta come fosse una raccolta di vecchie storie, capitoli di una propria favola, seppur velata e spesso intrisa di nostalgie.
Mi rimaneva la curiosità sulla sopportazione di un qualcuno che continua a parlarsi addosso, raccontandosi senza sosta. Una considerazione, la mia, senza pregiudizio o alcuna distinzione di genere. Uomo e donna poco importa ... sarebbe la stessa cosa.

Buona luce a tutti!


© ESSEC

mercoledì 9 ottobre 2024

Banche d’Italia & …



Di seguito quarta di copertina del libro di Francesco Salvio, recensito in questi giorni da Gerardo Coppola su Economia & Finanza Verde (recensione pubblicata su: https://www.economiaefinanzaverde.it/2024/10/06/il-minimalismo-di-francesco-salvio/)

Buona luce a tutti!


© ESSEC

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Quarta di copertina a firma A.M. Giardi: "In questo racconto, in cui non si possono non ravvedere i tanti dettagli di una vicenda autobiografica, vi sono due canoni di lettura: uno che segue pedissequamente gli avvenimenti dietro le ricostruzioni dei singoli passaggi, l’altro di ricercarvi la chiave più controversa e sofferta del rapporto tra un impiegato e la sua organizzazione burocratico-gerarchica. Nulla di nuovo si dirà, da Gogol a Cechov, da Kafka a Fantozzi. La storia dell’individuo che soccombe più o meno tragicamente, surrealisticamente o comicamente, davanti alle tante vessazioni di una vita di lavoro nelle strutture organizzative d’ogni tempo. La macchina che stritola, che annienta, che deve reprimere ogni pur minima devianza. Dove sta allora l’originalità di questo racconto? Sta nel rapporto di odio-amore verso l’istituzione, sta nella attrazione e nella repulsione dei suoi canoni. Sta nella meravigliata sorpresa di tanti incomprensibili comportamenti a danno del protagonista. Ma anche a danno di sé stessa. Sta nella pazienza e nella delusione. Ma sta anche nella difficoltà a rinnovarsi, nella più facile accettazione di strumenti organizzativi e gestionali vecchi, nel rifugiarsi nella sempre comoda gerarchia, dove il grado prevale sulla ragionevolezza, dove il comando non deve essere messo in discussione, sventolando la paura dell’anarchia.” (A.M.Giardi)

venerdì 5 luglio 2024

“Io sono nessuno – Storia di un clochard alla riscossa”



Talvolta i libri si scelgono, altre volte s'incontrano per caso. Non sempre però si continua a leggerli dopo aver sfogliato le prime pagine. Tanti rimangono accatastati, gli uni sugli altri, dimenticati a fare solo d'ingombro. Altre volte capita pure di riprenderli e, anche per il diverso stato d'animo in cui ci si ritrova in quel preciso momento, suscitano un certo interesse o per l'argomento o il particolare punto di vista che intanto è cambiato.
«Non si è liberi se si dipende dalla generosità degli altri, ma solo se ci si costruisce il proprio futuro». Nel 2024 sembrerebbe una banalità ma, ancora oggi, corrisponde a una verità in una organizzazione sociale complessa, nella quale si confondono principi e interessi diversi; talvolta, quasi involontariamente, contrapposti.
Il racconto di Wainer Molteni è la storia di un clochard che, per una serie di concause, si ritrova a diventare tale quasi in modo automatico, ritrovandosi d’improvviso spiazzato e indifeso.
Pur disponendo di un bagaglio culturale ragguardevole, anche per essere cresciuto in un contesto familiare particolare ma che non lo ha privato di attenzioni, quantomeno materiali e logistiche, sono state una serie di concause a trascinarlo in un mondo parallelo affollato da esclusi.
La sua lucidità e la perseveranza gli consentono alla lunga però, non solo di sopravvivere ma di emergere dalla emarginazione che lo ha anche portato a vivere tante esperienze, accomunandolo ad altri compagni d'avventura.
Nel libro “Io sono nessuno – Storia di un clochard alla riscossa” Molteni sviluppa il racconto del suo percorso di vita, che lo ha trascinato al degrado, nel dover vivere d'espedienti; mettendo in luce contraddizioni collegate all’orgoglio e allo smarrimento sociale che lo hanno travolto e che, a un certo punto, lo hanno anche portato ad isolarsi volontariamente dal mondo convenzionale che ci ospita.
La narrazione fluida e coinvolgente obbliga il lettore a guardare cose e avvenimenti con un’ottica diversa; a vedere il fenomeno come quasi una scelta estrema che focalizza una serie di valori che si confondono con convenzioni, abitudini e paradossi. Opulenze e miserie, ordinarietà e improvvisazioni. Generosità ed egoismi, attenzioni e indifferenze.
Tante umanità si sfiorano e s'incrociano anche in questo mondo marginale e l’epilogo positivo che chiude la storia tende a dimostrare come, anche con un po’ di fortuna e di coincidenze, è talvolta possibile trovare un percorso che consente di recuperare un proprio spazio.
I tanti aspetti sociali legati al volontariato, all'associazionismo, al terzo settore, alla politica, pur rimanendo in secondo piano, evidenziano i tanti possibili rimedi utili a consentire di riemergere da qualunque abisso.
Il libro, stampato da Baldini e Castoldi nel 2013, è un vintage, non tanto prezioso per collezionisti ma per l’utilità dei suoi contenuti.
Dell’autore e dell’argomento ebbero a interessati a suo tempo i media. Per la peculiarità e la visuale offerta sui fatti narrati.
Molteni ci narra dei suoi otto anni di un vissuto particolare, che pure si incrociano con importanti avvenimenti sociali, forse volutamente mantenuti dall'autore sfocati e sullo sfondo; che alludono e significano, ma che potrebbero distogliere dalla tematica specifica riguardante l'universo dei clochard che è riuscito a illuminare e focalizzare assai bene.
Anche in un articolo del Sole 24, Rosalba Reggio ne ebbe a raccontare la storia.
Più che dilungarsi ancora nel tentare di descriverlo, forse vale più la pena di andare a leggere il libro.

Buona luce a tutti!


© ESSEC

giovedì 4 luglio 2024

“Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini



Caleidoscopi di ricordi folti e variegati affiorano in un incrocio di specchi che si riflettono e lasciano intravedere sempre altro e oltre.
Conversazione in Sicilia è un’operazione lenta d’atomizzazione dell’esistenza umana individuale, che prescinde dai luoghi, per ciascuno diversi, dalle componenti consolidate e eteree accumulatesi nella materia universale.
La lettura del romanzo fatta in età adulta produce quasi un’analisi terapeutica che, con lo scorrere delle pagine, si insinua e fa affiorare gli elementi di elaborazioni sedimentate nel tempo.
Evaporazioni esalano odori differenti che, associate ad esperienze, rievocano ricordi, personaggi, storie vissute o solamente ascoltate nei racconti e consolidate negli anni.
Effettua una disamina del DNA che si evolve e si arricchisce; profondamente diverso in ciascuno, in relazione alle discendenze e adattato al proprio vissuto.
Paradossalmente il racconto di Elio Vittorini potrebbe andare a rappresentare i tanti abitanti in ombra che alloggiano nelle tante Città invisibili di Italo Calvino.
Paradossi, allegorie e metafore, miscelate a ricordi rievocati, sono pretesti che consentono l’esumazione di concatenazioni inarrestabili che, per ognuno, hanno un senso e una logica differente; frutto di combinazioni e alchimie comuni ma altresì uniche, non tanto per la componentistica, bensì per le differenti strutture venutesi a consolidare.
E ogni musica di sottofondo che accompagna intona melodie differenti; attraverso combinazioni di semplici note, di per sé limitate e sempre uguali, ma proposte con alternanze e successioni di tempi che compongono spartiti differenti.
Pertanto, ciascun autore propone ed elabora una sua opera e lettori differenti, con i loro bagagli culturali e le diverse esperienze, andranno a vedere personalizzando. Elaborando e seguendo canoni propri, che risulteranno sempre originali, pur applicando e alternando l’uso di chiavi comuni.
A di là degli intenti di Elio Vittorini, legati ai messaggi sociali critici nei confronti del fascismo del suo tempo, la struttura del romanzo costituisce di per sé un efficace metodo sempre attuale e infallibile per poter procedere ad analisi introspettive.
Con l’avanzare degli anni poi, leggere Conversazione in Sicilia, consente a tutti di rivedere con assoluta nitidezza le tappe del proprio tempo che, come in un caleidoscopio, presentano immagini che lasciano affiorare tutte le sfaccettature possibili, con annessi gli odori, gli umori, le sensazioni e i sentimenti di una vita apparentemente sepolta, ma che alloggia spesso tizzoni dormienti, sempre accesi.

Buona luce a tutti!


© ESSEC

giovedì 7 marzo 2024

"Jean" un racconto di Sura Bizzarri



"Jean di Sura Bizzarri. La Sura, autrice ormai affermata di romanzi, novelle e altro, si è presa una piccola pausa nella definizione dell'opera letteraria di prossima edizione per regalare un racconto in cui mescola allegoria e metafora nel fare una nitida fotografia esistenziale agli esseri viventi. Tecnicamente avrebbe scattato una macro …… ma, con la massima chiusura d'obiettivo prescelta, con le sue mai banali parole e la sintassi, riesce a mettere a fuoco diversi piani che consentono di osservare le immagini a più livelli, senza alcun bisogno di d'inforcare occhiali. Quanto descritto nella sua sempre geniale e spiazzante narrazione risente certamente della visione di “Povere creature”, il recente film candidato agli Oscar, che fa una radiografia impietosa sui tanti aspetti caratterizzanti l’esistenza umana. Come sempre, ciascun lettore potrà comunque farsi una propria idea ed esprimere il suo personale giudizio (di giubilo o di sconcerto, poco importa). E questo è il bello dell’arte, dove ciascun osservatore riesce a vedere, enfatizzare, bocciare liberamente ciò che riesce o crede di vedere, a prescindere dalle intenzioni dell’artista. Buona lettura!" https://salvatoreclemente.blogspot.com/2024/03/jean-di-sura-bizzarri.html

Buona luce a tutti!


© ESSEC

giovedì 28 dicembre 2023

“UGO e il costo delle suole: Forse ….. domani piove”



"Per individuare i costi sociali dell'inflazione gli economisti parlano metaforicamente di costo delle suole per indicare il fatto che la gente è costretta, in tempi di aumenti dei prezzi, ad andare più frequentemente a prelevare in banca, con conseguenti scomodità e maggiore consumo delle suole delle scarpe."

Negli ultimi tempi con il mio amico Pasquale, autore della citazione virgolettata posta in premessa, abbiamo preso l’abitudine di andare in giro per la città durante in nostri incontri nella Capitale. Anche questa volta il nostro itinerario era libero, alla ricerca di punti caratteristici romani e a caccia di opere di street art meritevoli di essere fotografate, per un utilizzo successivo nei nostri scritti.
Il percorso irrazionale si muoveva, quindi, lungo grandi linee alla ricerca di curiosità.

Chi nutre analoghe passioni sa bene che, oltre alle periferie, sono diversi i quartieri cittadini dove vigono delle tacite liberatorie per i graffitari e gli artisti in genere desiderosi di lasciare un loro messaggio.

In una precedente passeggiata in comune, ci eravamo pure avventurati nei quartieri vicini a Piazza Tuscolo, che erano stati immortalati nelle scene finali del film “I Soliti Ignoti”. Luoghi allora quasi deserti e dove “Peppe” (alias Vittorio Gasman) si ritrovò casualmente - e a suo malgrado - fagocitato in un gruppo di lavoratori presi a cottimo da dei “caporali del tempo”, in un cantiere edilizio.

Oggi, il nostro girovagare doveva approdare a Torpignattara e l’attraversamento della zona del Pigneto ci aveva quasi casualmente portati nei luoghi dove erano state girate le scene più emblematiche di “Roma Città Aperta”, un film drammatico e di guerra del 1945 diretto da Roberto Rossellini.

In particolare sulla via dove venne girata la famosa sequenza in cui Anna Magnani, mentre tenta d’inseguire il camion che sta deportando via suo compagno, viene sparata dai tedeschi e pietosamente raccolta dal prete, nel film magistralmente interpretato dall’indimenticabile Aldo Fabrizi.
Pasquale, che è anche un appassionato del cinema neorealista italiano, ricordava anche bene le scene del film.
Spingendoci verso via Prenestina era sicuro di avere individuato il posto ma non riusciva a localizzare la chiesa collegata anch’essa alla scena. Nessun problema, perché bastò attendere che passasse una signora dai capelli argentati del luogo per averne conferme e delucidazioni, anche sulla chiesa apparentemente mancante.

Venne fuori che le location, che apparivano limitrofe nel film, erano state assemblate e la chiesa era quella di Sant’Elena, ubicata nella vicina via Casilina. Il successivo sopralluogo e le informazioni ricevute in loco ci fecero pure scoprire che anche parte delle scene erano state girate nel cortile interno e attiguo al luogo di culto.

Per raggiungere la meta prefissata mancava da percorrere un lungo tragitto che andava a sommarsi a quello già fatto da San Giovanni ci aveva portato al Pigneto. Decidemmo pertanto di proseguire lungo la via Casilina, lambendo via del Mandrione e la Tuscolana. Un percorso ad entrambi sconosciuto che intrigava per potenziali sorprese fotografiche, che del resto non mancarono.

Lungo l’acquedotto romano, in alcune parti quasi integro, oltre ad evidenti abusi e discutibili proprietà private, si articolavano passaggi pedonali raccontati e che ora avevamo modo di scoprire.

Ci avventurammo come piccoli boy scout (attempatelli preciserebbe qualcuno) lungo una strada parallela alla ferrovia, ma chiusa da tempo al traffico automobilistico, apparentemente poco raccomandabile ove si erigeva la fermata quasi abbandonata della Stazione Casilina. Continuando nel sottopasso approdammo alla fine alla nostra meta finale.

Se vi capita di passare per Torpignattara in orario di pranzo suggerisco di far tappa da Ugo, titolare de “Il Pomo D’Oro”, un ristorante-pizzeria senza particolari pretese, che consente di respirare a pieni polmoni anche l’aria della caratteristica miscellanea etnica del luogo, che vede coesistere una vasta comunità cosmopolita popolare di Roma.
Entrando nel locale è affisso ben chiaro un cartello indicante la possibilità di poter optare anche per un menù fisso della casa, che nei giorni feriali viene proposto al costo 10 euro (15 nei festivi), comprendente un primo, un secondo con contorno, compresa bevanda e coperto. A questo punto devo pure riportare l'ineccepibile considerazione fatta da Pasquale: "Di questi tempi un bello schiaffo all'inflazione!"

Appena arrivati c’erano pochi avventori, dopo pochi minuti la sala era piena di gente. Per lo più operai e anziani abitudinari che forse fruivano anche di abbonamenti, chissà?
Ugo in sala era affiancato da un collaboratore dinamico come lui. Entrambi indossavano una maglietta nera recante un retroscritto con una frase equivoca: “Forse … domani piove”.
Chiesta la spiegazione il socievole Ugo rispose che l’interpretazione della frase era da intendere come un’opera aperta ……. Un modo di dire che ciascuno avrebbe potuto interpretare come meglio credeva, ma che ogni attore poteva anche recitare a suo piacimento e per gli scopi voluti (costatazione dell'assolutezza del dubbio, quindi anche sfottò o presa in giro e, perché no, pure un modo soft per mandare beatamente qualcuno a quel paese).

Dopo pranzo la passeggiata continuava per verificare se erano sorte altre opere artistiche in zona. Qualcosa di nuovo c’era ….. ma poca roba, il tempo del Covid aveva frenato anche le produzioni dei Graffitari.
In inverno le giornate sono corte, non restava quindi che avviarsi al ritorno. Percorrendo la strada verso via dei Quintili scoprimmo che uno scellerato writer aveva del tutto ricoperto un famosissimo murale di via Anton Ludovico Antinori che era stato realizzato da Alice Pasquini.

Ma gli altri, i murales storici, resistevano bene, anche la bellissima giapponesina protetta dalla solita autovettura che la copre in parte.

Durante il tragitto ebbi modo di individuare anche un famoso murale che si ispirava a Modigliani e che ricercavo da tempo.

Una bella passeggiata salutare di oltre quindici chilometri che a noi "diversamente giovani" poteva fare solo bene.
Anche perché per voler fotografare occorre guardarsi intorno e usurare le scarpe, soprattutto se, inflazione o no e come suole dire "UGO", forse ... domani piove!.

Buona luce a tutti!


© ESSEC

giovedì 21 settembre 2023

Ogni pazienza ha un limite



La statistica è una disciplina universalmente conosciuta e le ulteriori informazioni che raccoglie costituiscono anche un valido strumento per verificare l’andamento delle cose.
Capita quindi che, per qualunque circostanza che coinvolge o che ha coinvolto, ci sia un sistema di rilevazione che monitora l’efficienza e il livello di soddisfazione di ogni utente.
All’ingresso Ario si ritrovò un addetto incaricato di redigere una scheda che avrebbe costituito l’ennesimo profilo che lo riguardava.

Domanda: Come è andata nel complesso, si ritiene soddisfatto?
Risposta: In verità sarei rimasto più felice se avessi potuto fare di più, ma nel complesso accontento.
D: Di più, cosa?
R; Non saprei. Magari aver potuto godere di maggiori e diverse opportunità.
D. Si, ma lo sa che a ogni opportunità sarebbe corrisposto un rischio.
R: Ed è quello che qualifica la mia risposta del “mi accontento”.
D: Ma lei lo sa quante persone l'hanno invidiata per quanto è riuscito a realizzare nel tempo concesso?
R: Certamente immagino, tante occasioni mi hanno portato a capire le aspirazioni di tanti.
D: Appunto. Per lei del resto erano state previste una serie di sperimentazioni.
R: E alla luce dei risultati, come sono andate?
D: In alcuni casi il risultato è stato positivo, in altri la sua eccessiva prudenza e l’indole d’accontentarsi del “Bicchiere mezzo pieno” ha profondamente deluso quelle che erano le aspettative attese.
R: Quindi, volendo fare un riepilogo dell’insieme, che voto, da uno a dieci, mi si potrebbe attribuire?
D: Non sono qualificato a rivelare l’esito dei test ..... ma vista l’empatia nei sui confronti, volendomi sbilanciare, a parer mio, poco meno della sufficienza. Tra il cinque e mezzo e il sei meno meno.
R: Pensavo peggio, ma non mi meraviglio.
D: Posso però dirle che le statistiche annoverano dei progressi. Le generazioni precedenti hanno via via fatto registrare un innalzamento delle prestazioni e il voto medio è ormai proiettato a superare la sufficienza.
R; Quindi l’orizzonte prospetta miglioramenti.
D: Certo ..... del resto a forza di sbattere, alla lunga qualche insegnamento si apprende.
R: Posso sapere cosa succederà adesso?
D: Niente di particolare, ora io passo la scheda al livello superiore preposto alle analisi che, in base all’esame del suo profilo stabilirà la sua destinazione.
R: Non ho problemi e come detto in premessa, mi accontento, qualunque sia la decisione.

Passarono alcune ore senza che ci fossero novità. Passò la giornata senza che accadesse nulla. Poi l’altoparlante pronunciò il suo nome: “Ario è pregato di avvicinarsi all’ingresso per comunicazioni che lo riguardano”. Ario andò. L’addetto alla portineria disse: “Sono molto dispiaciuto, ma la sua pratica è stata esaminata a lungo. Sono state assunte ulteriori informazioni che mancavano agli atti. È stato pertanto accertato che lei rientra nella categoria dei Rompicoglioni, pertanto la sua destinazione finale è all’inferno”.

Per la cronaca, Ario era deceduto da non più di quarantotto ore. In genere le pratiche nell’altro mondo erano veloci e sbrigative.
Anche da morto la sua disamina era risultata alquanto complessa e la commissione esaminatrice, da sempre conservatrice e intollerante, non era mai propensa ad accettare deviazioni arbitrarie dalla carreggiata o a derogare oltremodo alle regole. Peggio ancora era portata ad assecondare chi "presuntuosamente" ne avesse reclamato l'osservanza e il rispetto.
Il signore gentile con il quale Ario aveva interloquito era uno che chiamavano tutti San Pietro. Ebbe anche modo di acclarare che la Commissione che esaminava le istruttorie delle pratiche per il Padreterno era blindata e i componenti fissi restavano segreti.
Va fa n‘culo a tutto e a tutti. Non c’era trasparenza neanche all’atro mondo. Nulla di nuovo neanche nel regno dei cieli!

Buona luce a tutti!


© ESSEC

lunedì 30 gennaio 2023

Sura Bizzarri



Come ho avuto di osservare in un'altra occasione, il buon Massimo Troisi, nel personaggio del film “Le vie del signore sono finite” argomentava …… “io sono uno a leggere, loro sono un milione a scrivere”.
Con l’avvento della scrittura la produzione libraria si è sviluppata in maniera galoppante e, grazie a racconti, saggi, testi scolastici e tanto altro prodotto, sono innumerevoli oggi gli strumenti accessibili in tutte le culture democratiche.
L’amica Sura Bizzarri, che ama raccontare, può ben annoverarsi fra gli autori che, con una scrittura affabulata, riesce a trasmettere messaggi che oltrepassano sempre le apparenze.
La lettura dei suoi testi, che è scorrevole e coinvolgente, al termine di ogni racconto induce a rimestare sul vero messaggio da lei immaginato e abilmente nascosto tra frasi che miscelano parole e allusioni.
Nella sua operazione, diversificata nell’affrontare temi e problematiche sempre importanti e differenti, la Sura mostra un talento che le è innato.
Basta una scintilla per metterla in moto nel concepimento di una storia che, con fantasia, riesce sempre a mescolarsi col presente e con le tante problematiche apparentemente invisibili che ci circondano.
I vari temi - sui quali si sofferma - sfiorano con leggerezza argomenti spesso complessi, difficili, talvolta pure urticanti; rendendo comunque ogni cosa leggera e comprensibile attraverso lo scorrere fluido delle tante parole appropriate usate e consone al racconto.
Il lieve amaro, quasi sempre rilasciato nel corso della sua scrittura si riesce a cogliere, attraversando specchi e andando, quindi, oltre i riflessi narcisistici delle tante pozze che abilmente illustra.
È la morale quasi una costante che vuole andare a concludere ogni suo racconto; concettualizzando per sintesi questioni articolate, in genere nascoste perchè complesse o sgradite a molti.
Il talento non s’inventa, tutt’al più si può educare, magari proponendosi agli altri anche attraverso il confronto che, nella scrittura, aiuta a depurare le idee confuse da tante scorie.
Brava la Sura, anche per la magia delle creazioni che ragala a chi ama leggere.


Buona luce a tutti!

© ESSEC

Editatoria di Sura Bizzarri (https://www.unilibro.it/libri/f/autore/bizzarri_sura)

mercoledì 23 marzo 2022

"La forma della musica" di Sura Bizzarri



La nostra Sura narratrice stavolta propone una sua riuscita "scrittura sonora" di una famosa favola sinfonica, sulla quale in diversi si sono cimentati nel ricercarne letture ed esecuzioni originali.
La cadenza delle frasi e delle parole, con un pò di fantasia, lasciano infatti immaginare i singoli strumenti nell'esecuzione di versatili musicisti impegnati in un corcerto, con tutti i crescendi e le pause che potranno essere, al termine della lettura, verificate nel confronto con lo spettacolo accessibile su You Tube che, per evitare delle distrazioni, si andrà ad indicare alla fine del racconto.

Buona lettura.

© ESSEC

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"La forma della musica" di Sura Bizzarri ©

Dall’altopiano vedevo le luci della città, lontane, nell’aria diafana e spessa di tanta distanza. La sera quelle luci brillavano forte, al pari e più delle stelle. E i suoni che riuscivano a raggiungermi erano piccoli boati ovattati, squarci nel silenzio dell’orizzonte che dilatavano i confini ristretti del mio territorio. La fattoria, le mucche, il rumore delle zappe che affondavano nel terreno.
La limpida esattezza dei gesti degli uomini nei campi. E quelli delle donne, ripetuti con monotona ma viva continuità nelle cucine. Ero sopraffatto dal mio mondo, dalla sua saggezza, dalla manualità con la quale era capace di trarre sostentamento dalla natura.
Quella era la mia musica, la prima che conobbi, la più importante. Il muggito delle mucche, le loro campane nel vento, il belare delle pecore, il suono delle seghe, le voci degli uomini, i loro canti senza strumenti. La mia musica era il tonfo degli scarponi nei solchi allagati dopo le piogge, era il fruscio della stoffa lungo gli attrezzi e il respiro gonfio di erba degli animali.
Il mio suono era la lentezza, quella dei gesti antichi e quella dell’attesa, l’attesa perenne. Delle stagioni, dell’essiccamento dell’erba accumulata, della maturazione dei frutti e delle messi in estate.
L’attesa della tosatura e del sabato sera per incontrare gli altri, della domenica per riposare. L’attesa confusa ma evidente che qualcosa evolvesse, che il grumo che sentivo in gola trovasse il coraggio di esplodere. E quell’attesa io la misuravo col ticchettio dell’orologio sulla parete della cucina, a sinistra della stufa, col continuo soffio dei miei respiri, col rintoccare delle campane e i rumori domestici. Con le voci di casa mia.
Sono stato cresciuto nella gratitudine, ho sempre ringraziato per quello che avevo. La mia gatta nera era nervosa, si lasciava accarezzare ma di tanto in tanto tirava fuori gli artigli. Ho sempre reso grazie di avere al mio fianco una pantera così lucente. Così come ho apprezzato le mie gambe forti che mi portavano in alto, sui monti con gli animali. Ho trovato conforto nella solitudine e nel suono delle grandi vallate vuote percorse dal vento che si soffermava nei tiepidi passaggi fra le rocce. E nel ticchettare della pioggia sul terreno solido che si scioglieva in zaffate di polvere.
Il mio poco, il mio niente ha riempito la mia vita.
Il suono del mio territorio era la musica, l’unica che io conoscessi. Le luci lontane, le voci che in certi giorni di vento arrivavano fino a me mi davano coscienza che il mio tutto era in realtà un contenitore. E, a quel pensiero, il suo perimetro si incrinava.
La curiosità mi spingeva a pensare, a immaginare la città. Quella che stava là sotto e alle tante città che popolavano la terra, come galassie lontane. Troppo lontane, impossibili da raggiungere, solo da immaginare come semplici immagini proiettate. Ma i loro suoni, che percepivo lontani, ne facevano cose vive.
Fu la solitudine a spingermi all’ascolto dettagliato di qualsiasi rumore. Li incameravo, li setacciavo, li scomponevo in ogni loro più piccolo componente. E, sempre in solitudine, ritmavo le loro sequenze coi legnetti.
Ero un registratore; concatenavo i muggiti delle mucche, i cinguettii degli uccelli e i gorgogli dell’acqua del fiume intorno ai sassi o ad altri piccoli ostacoli fino a ricavarne, nella mia testa, colloqui, frasi elaborate e sinfonie.
Fu una sera; mi ero attardato col gregge fino all’ora blu del crepuscolo. Quando cominciai a scendere l’aria si faceva tagliente. La sera era completamente serena, il cielo grande e sgombro, la luna bassa riempiva il suo cerchio di pallore e l’aria si muoveva senza una direzione precisa. Uno strano nervosismo scorreva nelle mie vene, trasmesso dalla paura innata del gregge per l’oscurità.
Il suono del vento era pulito, i passi delle pecore picchiottavano il terreno già indurito dalla sera.
Non facevo che guardarmi intorno mentre lontano la città cominciava ad accendersi.
L’aria impazzita di uno strano vento scomposto portava odori ancora caldi di sole e lievi fruscii accidentali si mescolavano all’ondeggiante avanzare del gregge.
Girando appena lo sguardo oltre i fruscii più immediati scorsi due occhi che attraverso la vegetazione si muovevano ansiosi. Mi soffermai appena, abbassai lo sguardo sulle scarpe e mi piegai ad allacciarle, per prendere tempo, per valutare meglio il pericolo.
Il suono di quella sera era un movimento lento che cresceva in piccoli dettagli veloci. Era un suono fluido, che scorreva e si arricchiva di elementi inaspettati. La mente elaborava freneticamente, attenta alla guida del gregge ma catturata al contempo da mille stimoli.
La sinfonia cresceva, impazzita, fra i rumori che giungevano lontani, ovattati, tradotti e predigeriti dalla distanza e quelli più vicini, fragranti, racchiusi dal cerchio del gregge, dal suo fiato caldo che profumava dell’erba appena brucata, circondati dagli scricchiolii sinistri del bosco.
La presenza che avevo percepito era un suono basso che ci seguiva; riuscivo a percepirlo, a distanza sempre più ravvicinata, nella mescolanza degli altri suoni che componevano la sinfonia della discesa. Quel suono profondo ci tallonava, a tratti lo intuivo limpidamente, da destra, da sinistra, dappertutto. Era una nota imprevista; non che fosse stonata, non che dissentisse dall’amalgama degli elementi, al contrario completava e arricchiva perfettamente la composizione. Al contempo, in suo interloquire basso e aritmico era la voce del pericolo.
Il gregge procedeva incurante ma il suo suono disperso nell’aria della sera aveva una nota indecisa, timorosa, quasi malinconica. Il suo biascicare tremolante, la nota stridula dei capi più giovani, il lento mormorio di quelli attempati e consci delle distanze erano la musica dei fragili, degli esposti ai possibili imprevisti, degli indifesi. E man mano che la figura intravista appariva occhieggiando ai lati del nostro cammino il cielo terso e immobile lanciava sibili di turbolenze lontane. Il gregge stesso, in un clima di crescente presagio, cominciava a intuire. Il belato si intensificava in andanti mossi e il percorso appariva ancora lungo.
Avevo commesso un’imprudenza nell’attardarmi fino all’imbrunire, ma nell’agitazione dell’evidente pericolo avvertivo la sfida di qualcosa che stava nascendo, di un’intuizione, di un’emozione complessa che si faceva duttile e che si lasciava tradurre in musica, nella mia musica, quella composta dai suoni che collegavo e mettevo in continua comunicazione creativa.
Le incursioni della figura si facevano sempre più ravvicinate e taglienti, tanto che le pecore cominciavano ad ammassarsi e sovrastarsi scompostamente, a rompere la monotona cadenza della discesa. L’andante mosso era diventato un rapido, la sinfonia stava acquisendo aria e forza.
Gli archi della vegetazione sollecitata e mossa dal nostro passaggio suggerivano il trascorrere del tempo. Ad ogni passo successivo la sinfonia diventava più piena e completa. Il suono di quel momento, la fotografia emotiva di uno spazio temporale.
Il mio cuore ora si aggiungeva martellante, un tamburo di verità. E l’agitazione del gregge, i passi veloci ma incerti, il chiaro odore del pericolo nelle loro narici, forte come quello del sangue, come il sapore metallico della macellazione era moltiplicato dall’oscurità e dall’affollamento. Ed un’ulteriore grancassa, più profonda e sicura, quella del lupo che compariva a tratti, sempre più vicino, da direzioni diverse, anch’egli impaurito e ridotto ai minimi termini ancestrali, proprio come noi.
I sensi all’erta, il suono del suo, del mio cuore, della moltitudine dei cuori che nel gregge martellavano tribalmente.
Quella che percepivo era la sinfonia crescente della vita, della lotta, della esemplificazione più spicciola dell’emozione.
La paura, su tutto. E la fuga. Le luci lontane e il buio profondo che mi poneva inevitabilmente davanti alle mie possibilità, alle capacità. Io stesso era la notte. Il blu del crepuscolo era dappertutto. Ed era musica, anch’esso.
Gli occhi dell’animale erano estremamente vicini, avvertivo il loro tocco fulmineo, il loro sfavillare. Cercavano, si insinuavano fra le pecore, valutavano. Si muovevano fra le stoppie, mi guardavano, sondavano il mio stato d’animo, studiavano ogni angolazione, le zampe tremanti pronte al balzo improvviso.
E i miei occhi, dilatati, sovraesposti all’aria serale, erano i fari della mia percezione, erano la bussola che mi guidava, i fiumi attraverso i quali nuotare via veloci e schivare l’agguato. Erano le armi che avrebbero potuto salvarci.
Il suono stridulo del sangue che percorreva e gonfiava i capillari fu il completamento della mia sinfonia, lo stantuffo dei battiti cardiaci nelle orecchie era un sottofondo che dava forza e genuinità alla composizione. Che la rendeva sanguigna e vera e autentica.
Mi soffermai leggermente mentre i miei timpani sembravano impazzire e la testa si lasciava intorpidire da un formicolio che quasi mi toglieva equilibrio.
Guardai in basso, valutai le distanze, lasciai che il gregge si stringesse come un gomitolo di lana ben tirato e alzando gli occhi lui era lì, davanti a me, le quattro zampe dritte e forti, gli occhi fissi. Il suo fiato si addensava come nebbia, le orecchie ben dritte erano antenne formidabili.
In quel momento il mio corpo si sciolse completamente e ogni fruscio, ogni leggero suono aggiuntivo, ogni movimento diventò parte integrante della mia musica.
I miei sensi erano completamente sintonizzati sui suoni che mi circondavano che, fondendosi, alternandosi e scambiandosi racchiudevano e moltiplicavano il senso di quell’esperienza.
La scena rimase immobile. Il corpo del lupo teso ed efficiente, il mio abbandonato, accecato e annientato, il gregge completamente immobile.
Il silenzio racchiudeva l’emozione di ognuno di noi ed evocava tutto ciò che era trascorso. Davanti a noi l’inesplicabile volontà del futuro, che esulava dalle nostre volontà e le sopraffaceva.
I muscoli tesi del lupo erano pronti al balzo quando un suono inaspettato si accavallò agli altri. Non si trattava dei rumori forti dei lavori degli uomini, né del canglore delle stoviglie, era in realtà un suono molto semplice, elementare. Uno scricchiolio che non proveniva immediatamente dalla nostra scena. Evidentemente qualcuno si stava avvicinando. Uomini, animali, presenze celate dal buio. Un piccolo particolare interveniva a turbare la tensione.
Anche le cose più insignificanti hanno un loro ruolo e ad esse ci aggrappiamo con ferocia e fermezza quando la posta in gioco è estrema. In realtà quel momento fu probabilmente deciso dal caso; chiunque stesse esplorando la foresta, lì vicino a noi, chiunque si aggirasse alla ricerca del suo gregge, a caccia, o solo a consumare un incontro d’amore riuscì a minare il perfetto equilibrio che teneva tutti noi fermi, ognuno in attesa della decisione dell’altro. In attesa della detonazione.
Il mio straniamento si aggrappò a quel suono e gli occhi bassi, intenzionalmente puntati sul terreno, si alzarono per incrociare quelli del lupo. Le orecchie fischiavano forte quando i nostri sguardi si unirono, pupilla contro pupilla. Ci sondammo a vicenda cercando le nostre intenzioni; paura, solo paura riuscii a captare negli occhi fermi del lupo. Le sue orecchie, al pari delle mie, tentavano di capire da quale parte giungesse la presenza che avevamo intercettato.
Il tempo è un parametro oggettivo ma può dilatarsi o contrarsi durante esperienze particolari.
Quel momento che oggettivamente durò in tutto qualche minuto stabilì fra l’animale e me un legame che appariva duraturo, nel quale la mia e la sua volontà improvvisamente erano diventate la stessa. Fuggire. Tornare ognuno al suo ambiente, riconoscere la musica usuale del nostro tempo, quella che ci aveva cresciuti e accompagnati fino a quel momento.
Non ci furono slanci, il lupo non si gettò sul gregge, io non imbracciai bastoni per difendermi, le pecore rimasero ferme e mute in uno stato d’animo che, modulato sulle nostre capacità di sentire, investì tutti contemporaneamente.
Non ho mai capito chi fosse intervenuto a salvare le nostre vite, così come non ho mai saputo se il lupo ci avrebbe veramente attaccati o se, anch’egli intimorito, volesse solo difendere il suo spazio.
Quell’esperienza è riuscita però a indirizzare la mia vita, a dipanare il groviglio di sensazioni che mi spingevano verso la conoscenza, verso l’apertura a nuove realtà e al contempo mi legavano sempre più saldamente al mondo atavico che mi aveva concepito e che sentivo come un guscio capace di proteggermi da quello che sarebbe stato.
Nel crepuscolo di quella sera calma ed uguale ad ogni altra sera ho palpato con ogni mio senso la forma della musica.
E nel tempo a venire, forte di quella consapevolezza che ha cambiato il mio modo di udire i suoni ho composto la mia opera più cara, “Pierino e il lupo”.
Ringrazio i boschi, il vento, l’ora blu dell’imbrunire nella quale mi sono attardato, tutti i suoni che hanno accompagnato la mia vita... e il lupo.
(Sergej Sergeevic Prokof’ev)

Di seguito il link per poter visionare lo spettacolo bolognese di "Pierino e il Lupo" di Prokof'ev (nella versione: Abbado-Benigni), trasmessa anche dalla RAI: https://youtu.be/cwXXUwcKWUQ

giovedì 20 gennaio 2022

"Blues" di Sura Bizzarri



Ancora un nuovo racconto abilmente narrato dall'amica Sura che mi fa piacere condividere. Chi ha avuto modo di apprezzarla già nei precedenti racconti, per la gradevole scrittura e l'originalità delle sue storie, potrà avere una ulteriore conferma delle capacità letterarie dell'autrice e non rimarrà neanche stavolta deluso dei contenuti, mai banali, che lasciano il segno. Buona lettura.

© ESSEC

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BLUES

Le cose belle, quelle veramente belle, non hanno bisogno di mediazioni. Ti entrano dentro, ti bucano, ti trapassano. Sorpassano il clamore, le grida e gli eccessi della volgarità.
Dallo schiamazzo di un bazaar orientale ti ritrovi nella pace mistica di un riad, nel quale giungono solo, da direzioni diverse, i canti dei muezzin che richiamano alla preghiera.
Le cose veramente belle sono sostanzialmente sporadiche; una musica, una melodia che raggiunge l’apoteosi, diventa un cliché se ripetuta continuamente.
Il tripudio del pubblico, così trascinante nel momento di gioia e commozione collettiva, si lascia impoverire e banalizzare dalla ripetizione costante, fino a diventare tedio.
Sono le note giunte inaspettatamente all’orecchio, le pitture con le quali ci incontriamo, o scontriamo, casualmente, le parole concatenate e pronunciate con tono pacato ad assumere una valore assoluto, irraggiungibile, invalicabile. Poichè abbiamo coscienza che da quel momento non saranno più sulle nostre labbra, che sono l’istante irriproducibile di collegamento con la nostra coscienza. E in quella consapevolezza tutti i sensi convergono per rendere l’attimo irripetibile. Una sorta di orgasmo dell’anima.

Clara da molto tempo vive nel silenzio. Non ha bisogno del clamore, della folla, della gente. Lei abita il suo mondo pallido in modo da poterlo colorare attraverso se stessa. Perché da diverso tempo ha imparato a vivere di sé, a contare solo sulla forza della sua stessa forza.
Era un mattino d’inverno, presto presto, quando la morte venne a trovarla.
Si era appena svegliata per preparare i vestiti, la colazione, per attizzare il fuoco nella stanza delle sue bimbe in modo che potessero svegliarsi in un ambiente caldo, prima di andare a scuola.
Rimase sorpresa nel vedere quella signora anziana, evidentemente buona, davanti alla sua porta. Corse subito ad aprirle, come se fosse il gesto più naturale del mondo, sebbene fosse sicura di non aver mai visto quella donna.
Lei entrò con un sorriso pacato e sereno, con gentilezza, con il timore di dare fastidio tipico di un estraneo che si introduce all’interno di una famiglia che non conosce.
C’era un’attrazione misteriosa fra Clara e l’anziana signora. Il bisogno di fare domande, il bisogno di avere risposte, la consapevolezza che quel momento fosse straordinario e irriproducibile, proprio come la melodia ascoltata per caso e subito sfuggita dal campo sonoro, persa per sempre.

Senza parole le due donne sedettero l’una accanto all’altra, vicine fino a toccarsi.
La morte cinse le spalle di Clara presentandosi per quello che era. E in quell’abbraccio c’era un calore particolare, di quello che scalda da dentro, che induce una sorta di trance ultraterrena.
Le parole che aveva da dire non erano facili, ma lei sapeva come spiegare i concetti inimmaginabili, sapeva comunicare l’emozione. E, soprattutto, sapeva insegnare a controllarla, a renderla digeribile, meno offensiva, per quanto fosse possibile farlo.
“Insomma… sei venuta a prendermi”.
La morte sorrideva di un sorriso buono, rassicurante, misericordioso. Non era un nemico ma una madre. E Clara pendeva dalle sue labbra, la ascoltava senza battere ciglio, imprimendo dentro sé la sua voce morbida, provando conforto dalle mani di lei che stringevano le sue, amorevolmente.
“Io sono una madre, sono sola, a chi lascerò le mie figlie?”
“No, Clara, non sono venuta a prenderti. Non te!”
Il volto della donna si illuminava, si distendeva in una dimensione magica man mano che l’argomento si addentrava nel suo significato nascosto. Man mano che il velo si sollevava lasciando nudo l’oggetto della visita. Così che Clara non sentisse freddo, così che il mistero non finisse per ucciderla, per soffocarla. Poiché la realtà è quello che è, nessuno può modificarla, nemmeno la morte. Il sole cominciava a tingere le forme indefinite dell’alba mentre le mani della morte massaggiavano tiepidamente, con movimenti circolari, quelle della giovane donna alla quale era venuta a far visita.
“Spiegami morte, non puoi prendere mia madre o mio padre perché sono già morti, io sono sola, forse hai bussato alla porta sbagliata…”
Si era alzato il vento, un vento impetuoso che muoveva i rami nudi degli alberi e il suo suono era un rumore di sottofondo basso e continuo, come nelle giornate di tempesta, quando nevica forte e il rumore dell’aria che si sposta è un muglio senza interruzioni.

La morte procedeva piano, i suoi occhi parlavano per lei mentre il massaggio alle dita di Clara si intensificava con evidente scopo anestetico.
“Non sei sola, Clara, l’hai detto tu stessa. Hai le tue bimbe che ancora dormono nel letto”.
Gli occhi della giovane donna si erano fatti grandi, le pupille dilatate nello sforzo di capire.
“Le mie bimbe hanno solo me, non capisco, cosa c’entrano loro?”
Il momento era giunto; l’abbraccio, la stretta forte, il sorriso triste della morte erano l’unico suo antidoto per soffocare il grido virtuale che si leggeva sul volto di Clara.
“Dimmi cosa devo fare, morte, non puoi prenderti loro”.
“Non sono qui per contrattare, non ne ho il potere. Sto cercando di aiutarti a capire, sto provando a sollevare il tuo dolore. Devi sopravvivere a tutto questo e capire che non c’è modo di sottrarsi.”
“Ma quando, come. Cosa posso fare? Oggi terrò le bimbe chiuse in casa, non le accompagnerò a scuola, non andrò a lavoro, le sorveglierò io stessa, senza mai togliere gli occhi da loro.”
“Non servirebbe a niente. Sono qui per farti capire, non hai colpe, non hai niente di cui pentirti, questa non è una pena commisurata a qualche tuo fallo.”

Il vento si intensificava; il rumore di sottofondo era un brusio molesto che quasi distorceva la voce della morte. Eppure i rami degli alberi erano quasi fermi. Non c’era corresponsione fra il suono e la realtà. Nel contempo le mani della morte erano sempre più calde e il suo abbraccio era un rifugio tranquillo, nel quale Clara nascondeva il viso.
La sera precedente le sue bimbe erano andate a letto sorridendo, giocando fra loro ai mestieri degli adulti, immaginando il loro futuro come maestre, parrucchiere, infermiere.
La sera precedente lei aveva misurato l’altezza delle sue bimbe facendo la tacca sul muro con la matita e si era complimentata con loro per quanto fossero cresciute. Presto ci sarebbero stati da comprare vestiti nuovi. Che i bimbi indossano poco i loro abiti per quanto crescono in fretta.
Clara raccontava tutto questo alla morte, ma era come se parlasse con se stessa. Sentiva, sentiva profondamente quanto le sue parole fossero poca cosa, quanto non avessero il potere di cambiare le cose, di influire sul futuro delle proprie figlie. Quelle parole che venivano coperte e confuse dal suono del vento, in esso si perdevano, disperatamente. E non esisteva modo di renderle più incisive, di commuovere la morte che, pure, piangeva insieme a lei.
“Morte, prendine una sola. Lasciane una a me!”

Il respiro della morte, l’ansare del suo petto era regolare. Nessuna parola, nessun brivido di Clara erano capaci di incepparne l’andamento, di intensificarlo o rallentarlo.
Ma non tardava a rispondere, sempre senza inflessioni, con la calma di chi sa perfettamente cosa deve dire, con la pietà ormai impressa da anni nei suoi gesti e nella sua pacatezza.
“Non sono qui per contrattare, ma per farti comprendere quello che dovrai affrontare.”
Le braccia nude di Clara si afferravano al corpo forte della morte, si aggrappavano a lei in modo che la forza della conoscenza potesse sostenere la sua debolezza umana.
“Tu sai che le mie figlie non hanno padre, sai che l’uomo che le ha generate mi prese con la forza, sai quanto io mi ribellassi e quanto il suo gesto sia stato per la mia intera vita un dolore intollerabile, ripagato solo dalla loro presenza. Perché non ti prendi lui, in modo che sia fatta giustizia sulla mia famiglia e sull’intero genere umano? Perché non compi un gesto generoso che dia ragione alla vita e ricacci la violenza?”
La morte ora la guardava con intensità, troppo forti, troppo vere erano le sue parole. Ma proprio questo doveva farle capire. Non esiste una giustizia superiore, la vita va e viene seguendo un algoritmo che non è calcolabile. E in questo sta la sua grandezza. Nell’imprevedibilità, nella insicurezza in virtù della quale ogni giorno potrebbe essere l’ultimo o, viceversa, solo un piccolo cerchio della catena infinita di azioni e pensieri che consumano corpi destinati a decadere in vecchiaie interminabili.

Il sole si era alzato ma i suoi raggi erano filtrati dalla turbolenza dell’aria e la luce appariva opaca, come filtrata attraverso una tenda. In quell’atmosfera irreale Clara cercava di capacitarsi e di districarsi attraverso il dolore per provare a giocare ancora qualche carta. Tentava di confondere la morte, di farla ragionare così come tentano di farlo gli umani. Era un avvocato che portava prove, testimonianze, che cercava di difendere le due imputate evidentemente innocenti.
D’altronde davanti a sé non stava un giudice imparziale, ma una madre che cullava la figlia nel tentativo di poter sollevare il suo dolore. Lei e la morte non erano avversarie, ma testimoni comuni della storia che la vita le invitava a percorrere.
Clara provava a toccare il viso della morte, accarezzava le sue guance pallide, spianate da ogni ruga, cercava nei suoi occhi profondi il significato della vita, di quello che le stava accadendo.
La morte la lasciava fare, la invitava a trovare conforto nel suo abbraccio, a tuffare il volto sul suo petto e a consumare quel tempo maledetto che pure doveva percorrere, non esisteva altra soluzione.
Ogni volta che Clara alzava la testa per trovare un segnale di corrispondenza la vecchia signora incoraggiava la sua forza e la affiancava nel percorso che le era toccato di vivere. “Prendi anche me, morte. Voglio stare con te, nella tua misericordia”.
Lei taceva, senza mai smettere di accarezzare i suoi capelli setosi.
“Non posso. Non puoi farlo. Questo è il momento che ti è stato dato, non puoi che viverlo.”
“Allora rimani con me, per sempre. Solo accanto a te, alla luce della tua verità, io posso farcela!”
“Non è possibile. Ci sono altre donne e uomini come te, ne è pieno il mondo. Con loro devo fare la stessa cosa che sto facendo con te. Io non appartengo a nessuno ma sono di tutti”. “Andiamo insieme, in camera, a svegliare le mie bambine!”
“Non ancora, Clara. Non sei ancora pronta”.

Il mattino cresceva e galoppava sui minuti. Inspiegabilmente il tempo procedeva con un passo diverso, si addentrava nell’aria densa di quel mattino particolare e Clara temeva che la morte potesse andarsene. Aveva bisogno del suo aiuto, non avrebbe potuto farne senza.
Le strade erano vuote, o forse era quel particolare evento atmosferico brumoso a impedire la vista della gente, a filtrare i rumori, le voci, a isolare il suono.
Com’è possibile avere un rapporto filiale con la morte, desiderare di non doversi più staccare da lei? Clara studiava qualche strategia per trattenerla, per prendere tempo, per escogitare un piano. Ma l’orologio le era nemico; continuava a ticchettare, le lancette si facevano strada sul quadrante bianco e scavalcavano i segni disegnati con cura. I secondi, i minuti. Era passata più di un’ora dall’arrivo della signora e nessuna alternativa era apparsa praticabile.
Dalla camera delle bimbe nessun rumore, evidentemente dormivano ancora, nonostante l’ora del risveglio per la scuola fosse ormai trascorsa.
Clara contava di rimandare ancora il momento del loro risveglio, di posticipare l’evento come se fosse possibile cancellarlo, disinnescarlo.
Così chiedeva alla morte di raccontarle altre storie, simili alla sua. Lei ne aveva viste tante di madri e figli, genitori e nonni, mogli, mariti, amanti. Attraverso i suoi racconti, attraverso le esperienze altrui Clara avrebbe potuto imparare ad accettare la sua. La guardava, la morte, la guardava intensamente per acquisire dalla sua calma il segreto per sopravvivere. La osservava, la toccava, la abbracciava e la stringeva. Le si gettava fra le braccia come fosse sua madre, per farsi cullare da lei come quando da bambina cercava conforto alle sue paure. Bastava chiudere gli occhi, fra le sue braccia, e i mostri sparivano sgretolati dal calore, dalle certezze degli adulti.
In quel momento Clara provava a fare lo stesso. A chiudere gli occhi per riaprirli in una nuova dimensione, appesa alle consapevolezze della morte come a quelle della vita; quando, espulsa dal corpo materno, era esplosa nel primo respiro che, dolorosamente, le aveva aperto i polmoni. Che le aveva dischiuso la vita.
Solo nell’abbraccio compassionevole sentiva tutta la pienezza di se stessa. E la voglia di lottare svaniva nell’accettazione sorda di qualcosa che era inevitabile.
Il tempo era diventato fondamentale; Clara, come Sheherazade, cercava di posticipare all’infinito il momento in cui la morte se ne sarebbe andata. L’attimo preciso che avrebbe diviso il prima dal dopo.
Quello sarebbe stato lo spartiacque, il crinale da superare. Prima un’esistenza normale, dopo l’abisso. Come sarebbe riuscita a colmarlo? L’idea di rimanere sola era terribile.
“Quando avverrà?”

La morte conosceva bene i comportamenti degli umani. Sapeva perfettamente che la reazione naturale della madre sarebbe stata quella di gettarsi nella camera delle bimbe e sollevarle, stringerle, tentare in ogni modo di strapparle ad una sorte che non doveva appartenere loro. Sapeva anche che il motivo per cui la donna si tratteneva dal farlo era la paura di aprire quella porta, il dubbio che i corpi che le appartenevano fossero già senza vita. Questo faceva sì che il bisogno di stare vicina, di intrattenere, di corteggiare la morte fosse quasi uno spasimo.
Il vento aveva pettinato il cielo; così come nella vita di Clara i nembi sfilacciati, come nebbia sottile, si erano disposti a strati e avevano suddiviso l’orizzonte in due zone nette, l’una fumosa, l’altra tersa e luminosa. In quella luce estremamente bianca, che metteva a nudo, le parole di Clara si erano fatte accattivanti, convincenti. Era disposta a tutto per evitare quel dolore.
La morte rispose sottovoce, con un sorriso buono, pieno di pietà.
“Devi essere pronta, sono qui per aiutarti. Cosa significa quando? Ora, oggi, domani, fra qualche giorno? La tua vita deve proseguire, ci sarà un tempo difficile, affonderai ma dovrai rialzarti. Saluta le tue bambine, devi lasciarle andare”.
Sulla fronte di Clara il sudore si era cristallizzato. Nel cuore un tonfo sordo, il rumore del vento negli orecchi era il suono del suo incubo, ad esso lo avrebbe associato per il resto della vita.
Le immagini delle figlie si confondevano con quelle di altri bambini visti in foto di guerra; in loro si condensava la spaventosa ingiustizia della natura. Era un concetto inconcepibile, inimmaginabile, una nausea che rigettava il suo intero corpo la scuoteva in conati violenti. Era la nausea verso se stessa, tanto più crudele poiché era impossibile sfuggirle.
Era la morte stessa a vacillare, tutta la sua misericordia non era abbastanza per sovrastare il rumore incessante di pensieri e immagini sferraglianti che si rincorrevano nello stridore della ruggine nel corpo e nell’anima di Clara. Eppure non esisteva scelta, quel dolore che non aveva uguali, che era la somma di tutti i dolori mai provati, non era procastinabile.
La morte decise che il momento era arrivato; prese con gentilezza la mano di Clara e la invitò ad alzarsi. La donna stentava ad assecondare il movimento che le veniva indicato, era fredda e sudata, bianca e tremante, dura come fosse di pietra. Muoveva i passi senza volontà, un martello dentro la scatola cranica segnava i secondi, ogni gesto infinitesimale, fino alla morbida mano sulla maniglia che spalancava l’abisso.
Un colpo forte, come il passaggio di un treno, un violento terremoto, l’esplosione di un’arteria e il sangue che fuoriesce a fiotti.
Quanto tempo era trascorso, quanta parte di esistenza avevano portato via le parole con la morte, quanta sbadataggine aveva innescato la tragedia…

La stufa mai accesa aveva riempito la stanza di monossido di carbonio e i volti fermi delle bambine la guardavano e la giudicavano attraverso le palpebre chiuse.
L’ultima carezza della morte, una mano grande e calda che addensava tutta la forza necessaria, l’aiuto muto e incondizionato. Poi se ne andò. Clara. Sola, davanti all’abisso. E guardandovi dentro si accorse che era appena sul primo gradino, quelli che avrebbe dovuto scendere erano molti, tanto che non si vedeva il fondo. La sua resistenza si sgretolò.
Il corpo senza più scopo e la rabbia capace di innescare un ciclone. Comunque inutile.
Quante volte avrebbe dovuto scendere e risalire l’abisso prima di trovare un equilibrio che potesse rendere la vita un luogo accettabile.
Clara si sdraiò fra le sue bimbe ancora tiepide, man mano che il tempo, trascorrendo, le lasciava fredde ed estranee se ne allontanò. Le aveva ormai salutate, non si sarebbe mai data pace del suo errore, non avrebbe mai perdonato se stessa.
Da sola, nella cucina percorsa verticalmente dalla luce diafana e crudele di quel mattino, si abbandonò al suo dolore emettendo gemiti e parole che dessero un suono alla devastazione; il suo blues, una musica dolcissima e contemporaneamente intrisa di desolazione. Si lasciò cullare dal suo stesso dolore, come una coperta sempre addosso che la avrebbe isolata dagli altri.

Le cose belle, quelle veramente belle, non hanno bisogno di mediazione; ti bucano, ti trapassano, poiché le labbra sanno quanta verità si nasconda in esse.
Il suo canto, così inesprimibilmente magico, non fu mai ascoltato da nessuno. Insieme a milioni di altri canti strepitosi, scaturiti da dolori ineguagliabili, che non conosceremo mai.

© Sura Bizzarri

mercoledì 15 dicembre 2021

“Oggi ho imparato a volare” - Un racconto di Sura Bizzarri



Capita spesso di ritrovarsi ad ascoltare discorsi che in qualche modo attirano l’attenzione. Succede pure che talune menti, come quella della mia amica Sura, inconsciamente inneschino una sorta di elaboratore automatico che, già nell’ascolto, intanto immagina l’abbozzo di altre storie correlate.
Del resto a persone che hanno queste capacità basta poco per infarcire racconti che, per la ricchezza di particolari e l’intensità narrativa trasfusa, hanno tanti di quei connotati da renderli quasi storie verosimili, come fossero realmente accadute.
Narratori si nasce e chi ha in dono l’arte di saper raccontare, affastellando peraltro vicende con il proprio sentire, saprà sempre impreziosire con valori aggiunti anche cose semplici, per indurre a pensare.
Con il suo consenso e con l’aggiunta di foto di street art che mi piace abbinare, propongo di seguito questo suo ultimo bel racconto, che merita un’attenzione anche per i tanti messaggi nascosti, apparentemente messi in penombra, in secondo piano.

Buona luce a tutti!

© ESSEC

“Oggi ho imparato a volare” - Un racconto di Sura Bizzarri

Mia nonna era nata in Ucraina all’inizio del secolo scorso. Da sempre la sua famiglia si occupava di cibo; una cucina e una stanza abbastanza grande con tavoli, sedie e finestre grossolane di tende ricamate. Un orto ben coltivato suddiviso in solchi e quadri che delimitavano le diverse colture, galline e conigli. Cucinavano per la gente, per lo più per i lavoratori delle miniere; piatti poveri ricavati dai prodotti del loro appezzamento.
Lei era ancora giovane quando scoppiò la guerra. E quando i tedeschi occuparono il suo ristorante obbligandola a cucinare per loro, lei e l’intera famiglia furono additati come collaborazionisti.
Olga, il cui giovane marito Piotr era partito per la guerra, allora si addentrò un giorno nella foresta con la figlia fra le braccia per non fare più ritorno.
Quante volte ho ascoltato la sua storia nella cucina nella quale lei si muoveva ancora sicura di sé, sebbene appesantita dall’età. Ed ogni volta saltava fuori un particolare in più a ricostruire un romanzo che mai era stato scritto.
Le sue mani nodose accarezzavano la mia testa mentre con i grossi incisivi addentavo il pane imburrato che lei mi aveva preparato. Il sapore del pane mi pareva antico, come se le sue mani avessero impastato il grano proveniente dalle steppe ucraine.
Ero piccola, la mia immaginazione si addentrava nei boschi muschiosi e freddi di cui lei mi parlava, gli occhi della mente percorrevano distese di betulle argentate per scorgere anfratti protetti nei quali la nonna e sua figlia avrebbero trascorso la notte.
Era ancora bella, mia nonna, gli occhi chiari aperti come una piazza sul mare, il viso pallido senza rughe, i capelli raccolti in un ricordo di femminilità.
Per un bimbo tutto è facile, la sua fiducia nelle parole degli adulti è completa e incondizionata. La fuga della nonna mi pareva un gioco fatto di belle passeggiate nei boschi e rifugi improvvisati sotto foglie morbide, sotto le stelle.
La nonna camminò tanto, fino a raggiungere la Polonia. E in quel periodo sospeso nel quale la sua esistenza si improvvisava giorno dopo giorno, lei incontrò un uomo. Tutti noi siamo naturalmente portati a vedere negli altri ciò che cerchiamo, ciò che abbiamo bisogno di trovare.
Mia nonna sapeva vedere nella gente solo cose belle, le era difficile ed estraneo individuare i difetti, le brutture e gli eccessi. Per di più, nei timori di una vita nomade e inventata con una bimba piccola sempre legata al petto, lei aveva bisogno di trovare un appoggio, di condividere con qualcuno la sua diaspora.
Nonna Olga vide in quell’uomo che conosceva appena l’uomo della sua vita. E a lui si appoggiò, senza mai pesare troppo, che questo aveva imparato dall’educazione ricevuta, con lui continuò il viaggio alla ricerca di una casa e di un lavoro.
Insieme a lui sopportò il freddo delle notti trascorse in capanne, in rifugi di fortuna e fu lui che sposò in una chiesa di campagna ancora prima di giungere a Cracovia.
I suoi bisogni erano tanti, la paura di non riuscire ad allevare la figlia la attanagliava. Non stette a farsi troppe domande quando in un sabato balenante di sole, fra le stoppie bruciate delle campagne, coi vestiti pesanti addosso e la bimba sempre stretta al petto in una fascia ormai logora e sdrucita, disse si all’uomo che sarebbe diventato mio nonno.
Una giovane coppia ed una bimba arrivarono in città, fra le mani non avevano niente, neanche abiti per cambiarsi ma erano disposti a fare qualsiasi cosa. Nonna cominciò a lavorare in un ristorante e nonno, carattere forte e irascibile, passò da un’occupazione all’altra prima di aprire con la moglie un piccolo ristorante subito fuori Cracovia. Acquistarono pagando in tante piccole rate un appezzamento di terreno con baracca annessa e lì aprirono il loro piccolo locale, misero, semplice, una cucina vecchia e logora che produceva ottimi piatti contadini, un locale chiaro e caldo dove mangiare era un piacere antico.
Olga lavorava sodo; accudiva gli animali, aveva le mucche da mungere ogni mattina e ogni sera. Lei cucinava, puliva, lavava al fiume, raccoglieva le verdure e amministrava la sua azienda. Perché quel ristorante, alla fin fine, era solo suo. Sua ogni incombenza, ogni problema, sua la responsabilità di onorare le rate che scadevano ogni mese.
Il nonno era l’uomo, il capo famiglia, il padrone di sua moglie e dei figli che continuava a farle partorire. Col tempo arrivarono ad averne otto; quelli più grandi facevano i genitori ai piccoli, mentre la nonna lavorava, scendeva al fiume e rincasava col fiatone, perché il pranzo doveva essere pronto, abbondante e ben servito, non un minuto di ritardo altrimenti il marito avrebbe preso la catena delle mucche e con questa le avrebbe sferzato le gambe, il busto, le braccia.
Lei si rifugiava nella forza prepotente della sua vita, aiutata da un vigore fisico senza uguali. E mentre le sue braccia lavoravano senza sosta la mente immaginava il futuro dei figli, a Cracovia, nella città della grande bellezza e il suo lavoro non era mai abbastanza per assicurare loro l’istruzione, abiti dignitosi e un amore carico di attenzioni per controbilanciare la grettezza del marito, la cui violenza si caricava dell’alcool trangugiato durante tutta la giornata.
Il sorriso di lei mai era una maschera, ma l’immagine concreta dell’istinto innato di voler trasformare la realtà. I suoi gesti non erano violenti, il suo corpo morbido era lo scudo che proteggeva i figli, perché le botte c’erano anche per loro. Jude, il cane di mio nonno, era diventato il suo alleato, perché era Olga che riconosceva come capobranco e da lei si rifugiava quando la violenza degli scarponi del nonno si abbatteva sulle sue zampe indebolite e tremanti. I gesti di nonna non erano forzati e la dedizione in ogni gesto, anche i più semplici, quelli di ogni giorno, erano la prova della volontà di cambiare la vita dei figli. Senza abbassare mai la guardia.
Ognuno ha il suo modo di reagire agli avvenimenti, ognuno ha una personale scala di valori e in nome di questi è disposto a lottare, fin quasi a soccombere. D’altronde la vita è un continuo esperimento, ogni fase superata preclude a quella successiva.
I dolori più grandi di nonna Olga non erano le botte ma la malinconia dei suoi figli, le umiliazioni che subivano per ogni nonnulla, l’insicurezza che li bloccava ogni volta che il babbo rientrava.
I loro sguardi rivolti alla mamma erano richieste di aiuto e lei li guidava con gli occhi, con i sorrisi di approvazione o con l’invito a scappare, comunicato col linguaggio del corpo e dei segni.
Ormai madre e figli erano organi di uno stesso corpo, correlati e collegati fino a formare una macchina di precisione, dotata di allarmi e segnali in codice.
Così lei gestiva l’errore di aver sposato un uomo che non conosceva, di essersi aggrappata alla prima scialuppa ed esserne salita a bordo senza conoscere l’equipaggio, la direzione, la meta definitiva. Ma Olga non era una perdente e, soprattutto, era disposta a tutto perché i suoi figli non diventassero tali.
Intanto la città cresceva e la prima figlia, ormai grande, lì si era trasferita non appena era riuscita a trovare un lavoro. Nonna stava invecchiando ma ancora riusciva a gestire il suo locale, che senza quello la vita sarebbe stata esclusivamente di proprietà del marito. E il marito continuava a bere e ad invecchiare a ritmo veloce. Il suo corpo si era screpolato, la pancia prominente di chi abusa dell’alcool, i denti sciupati, l’irascibilità sempre più livida contro un mondo nel quale non era mai riuscito ad entrare veramente, troppo concentrato sulla rabbia contro la vita, dalla quale prendeva sempre più le distanze.
Lei si era organizzata seguendo i ritmi dell’uomo che mai le era stato accanto; concentrava i momenti per i figli, per concedersi un attimo di tregua, per guardarsi intorno e riprendere fiato quando lui dormiva, nel primo pomeriggio e la sera presto, che la giornata di lui si concludeva subito dopo la cena. Certo, il calvario di convivere con un nemico era devastante ma, al contempo, le aveva insegnato il valore delle piccole cose, la gioia della normalità. Olga aveva imparato ad assaporare con un piacere speciale, di liberazione, i momenti che erano solo suoi.
Ricordo quando il sabato mattina la nonna e io salivamo sull’autobus per andare in città. Lei era fiera di avermi al suo fianco, ben vestita, le trecce inframezzate da un nastro rosso; la nostra gita seguiva riti ben precisi, il cappuccino e una pasta rigonfia di crema sempre nella stessa drogheria ed ogni volta, immancabilmente, andavamo nel negozio di scampoli. Pile di stoffe arrotolate su se stesse e scale semovibili per raggiungere gli scaffali più alti. Quelle stoffe erano il suo vizio, la sua conquista, l’esplosione liberatoria di esprimere la sua creatività, di pensare e progettare un’attività completamente sua.
Quel mondo incantato era diventato anche il mio. L’odore dei tessuti inamidati, i colori, le fantasie di ghirigori contorti ripetuti all’infinito, un territorio totalmente femminile e curato nei particolari. Quello era un mondo buono, non c’erano oggetti pericolosi, ferri, catene, lo sterco delle stalle e la fatica sempre dipinta sul volto sudato di nonna. Era un porto franco, un’isola di gentilezze femminili che non eravamo abituate a ricevere.
Ci concedevamo quella gita, quel momento solo nostro prima di rientrare nel livore di quell’uomo che non parlava mai, che entrava pesantemente e con ruvidità cattiva usava gli oggetti, per poi lanciarli contro il muro, che intorbidava l’aria, la stessa che eravamo costretti a condividere.
Fu in una tarda mattinata di festa, la nonna e io occupate con le nostre stoffe.
Lei non si fermava mai, non riuscivo a convincerla a starsene seduta. Mi preoccupavo, la vedevo stanca. Avevo superato la fanciullezza e cominciavo ad aver paura della vita. Diverse persone che ruotavano intorno alla nostra famiglia erano morte.
Alcune per vecchiaia, altre erano morte nonostante fossero ancora giovani, nonostante avessero figli da accudire, lavori da portare avanti, progetti appena iniziati. Il racconto della vita che scorreva nella mia testa aveva subito un disguido, c’era una evidente anomalia, un cortocircuito che andava oltre la mia comprensione e creava un disagio che mai avevo avvertito, ancora più penetrante della violenza del nonno.
Sentivo sempre più forte il bisogno di proteggere mia nonna, di regalarle quella spensieratezza che solo con me era tangibile, che le spianava le rughe sulla fronte.
Odiavo mio nonno, finalmente avevo trovato il coraggio di ammetterlo dentro me stessa.
E odiavo anche i suoi figli, quelli che come lui avevano cominciato a bere e ad assumere atteggiamenti violenti, scurrili, inconcepibili per una bimba in bilico fra la fanciullezza e l’adolescenza. Quei figli appartenevano solo a lui, mia nonna li aveva solo incubati ed espulsi. Non avevano con lei alcuna correlazione.
Quel giorno stavo porgendo a nonna Olga le tende da appendere alla finestra. Lei era in bilico sulla scala, protesa verso i vetri, abbagliata dal sole estivo, dai suoi potenti raggi obliqui.
Lui entrò con la violenza di sempre, aprendo la porta con un movimento esagerato, tutto era amplificato dalla sua incoerenza, dalla ferocia della sua infelicità, un tale comportamento non poteva esser dettato che da quello.
Il suo odore, già in un attimo, aveva saturato la stanza. Il sentimento che provavo era una intima nausea, l’incapacità di ribellarmi, di proteggere la persona che più amavo dalla smania cieca di un animale affamato. Entrambe eravamo sulle difensive, smettevamo di parlare, di sorridere; ogni nostra forma espressiva era da lui interpretata come un affronto.
Nella sua mentalità estrema ed estremista eravamo di sua proprietà e solo lui poteva concederci la facoltà di parlare, di ridere, di dedicarci l’una all’altra.
Non ricordo quale fu il motivo scatenante, quale nostro comportamento, sguardo di intesa, o semplicemente gesto di gentilezza dell’una verso l’altra scatenò il suo livore.
Già aveva bevuto, il nonno, nonostante il mattino fosse tutto da trascorrere. E già la sua mente contorta aveva individuato un nostro fallo, una nostra intenzione, il bagliore di un pensiero.
Sorpassò con noncuranza il cane che era entrato prima di lui, poi il suo passo pesante andò pericolosamente verso la scala e un calcio prepotente troncò le assi inferiori facendola barcollare.
La nonna cadde dall’alto, ancora non aveva fatto in tempo a posare la stoffa e scendere di qualche gradino. Rovinò sulle mezzane dure.
Ricordo la mia rabbia, l’urlo che mi uscì dalla gola, il desiderio prepotente di scagliarmi contro di lui, di cancellarlo per sempre dalla nostra vita.
Invece corsi da lei, ferma fra il tavolo e l’acquaio, incapace di muoversi e paralizzata dalla paura. La coprii col mio corpo, le baciai il viso e respirai il suo respiro concitato.
Attendemmo in terra, ferme, in silenzio, finché lui non si chiuse in camera. Solo all’arrivo di mia madre riuscimmo a muovere la nonna e chiamare aiuto.
Correndo fuori avrei voluto bruciare tutto, dimenticare quella casa che pure amavo, allontanarne mia nonna per sempre.
Tirai dietro la porta, intimai Jude a rimanere dentro, di guardia davanti alla porta di camera dove il nonno riposava.
Quello era il suo giaciglio abituale, serviva a lui per piantonare il nonno e a noi per essere avvisate della sua presenza.
Ma sbattere la porta non era abbastanza, dovevo porre una barriera fra lui e noi, dovevo isolare il nonno, renderlo inoffensivo. Chiusi a chiave dall’esterno e puntai un palo sotto la maniglia. In casa quella settimana non ci sarebbe stato nessuno; i figli fuori per lavoro o a studiare.
Nella mia mente stava nascendo un impulso che mai avevo conosciuto. La parte primordiale del cervello, quella più in ombra, si stava gonfiando di rabbia cattiva. La piccola Angelika si stava trasformando in un’eroina ribelle. La piccola Angelika avrebbe voluto ucciderlo, quel nonno che tanto dolore aveva portato nella sua vita. Perché lui aveva paralizzato ogni desiderio, ogni speranza, anche quella semplicissima di poter vivere una vita dignitosa.
Corsi forte, per raggiungere mia madre e dentro martellava un solo pensiero, così prepotente da sembrare reale, la stessa immagine si parava davanti ai miei occhi ad ogni battito del cuore. I piedi picchiavano forte sul terreno, il corpo risuonava di quell’onda pesante che dal suolo si ripercuoteva alle gambe e su, fino al petto, fino al cervello in fiamme.
Avevo mal di gola, tanto il respiro era affannoso e sparato fuori e risucchiato dentro. L’aria sembrava non essere sufficiente e la distanza pareva non finire mai. E dentro la mia testa io vedevo solo il volto paonazzo di mio nonno che scoppiava, colpito da un grosso bastone o dalla vanga che aveva nel tempo curvato la bella schiena dritta della nonna.
Ogni respiro un grido e la gola pulsava e si infiammava e gonfiava. Gli occhi colmi di lacrime quasi non vedevano più la strada e il naso colava fino sulle labbra, dentro la bocca socchiusa, sui vestiti scomposti dalla corsa convulsa.
Caddi diverse volte, i miei ginocchi di bimba cresciuta erano pieni di ghiaino che pizzicava sulla pelle scoperta, macinata dalla terra e aperta in diversi punti. Ero un piccolo mostro urlante che si barcamenava fra il desiderio di vendetta verso l’uomo che aveva condizionato la nostra esistenza e le preghiera perché la vita della nonna fosse risparmiata.
Non appena atterrai nel cortile di casa, come un uccello caduto in volo, mia madre mi abbracciò e mi baciò forte sui capelli, cercava di calmarmi ma le mie braccia quasi la picchiavano per svincolarsi da quella stretta e raggiungere l’ambulanza ancora ferma dove Olga taceva.
Fu un’infermiera a sorridermi e dalla nebbia di una rabbia che assomigliava alla pazzia capii che la nonna non era in pericolo. Saltai sul mezzo ancora fermo e le strinsi la mano. E lei mi lesse dentro.
Capitano talvolta momenti di lucidità estrema nei quali la comunicazione fra due persone molto vicine è una realtà che non ha bisogno di parole. O almeno, non è necessario pronunciarle.
Io e mia nonna in quella mattina di inizio estate ci dicemmo tutto in un attimo. Anni di sentimenti trattenuti, forse addirittura inconsapevoli erano diventati improvvisamente un disegno ben preciso.
Quelli che seguirono furono giorni di riscatto, giorni nei quali io e lei, in silenzio, cominciammo a progettare una nuova esistenza, come se fosse possibile ripartire da una pagina bianca.
I momenti straordinari sono sospesi e, in conseguenza di questo, forieri del nuovo che sta dopo di essi. Quante aspettative stavano dentro la nostra stretta di mano!
Solo quel gesto ci sembrava capace di innescare il cambiamento verso la normalità. In fondo solo ad essa aspiravamo e forse era giunto il momento di provare ad assaporarla.
Dalla nostra parte c’era l’ospedale, c’erano le forze dell’ordine e il racconto di tutto l’orrore che era stato, fino a quel momento. Ma c’era anche di più. C’era una intima consapevolezza che brillava nei miei occhi e in quelli di nonna Olga, ogni volta che si incontravano.
Avevamo capito che la nostra forza, se solo sommata, aveva il potere di moltiplicarsi. Che l’intransigenza del nonno avrebbe dovuto scontrarsi con la nostra intransigenza, uguale se non superiore alla sua. E sentivamo qualcosa che non sapevamo esprimere. Ma che sicuramente era patrimonio di entrambe.
Ci sono cose inspiegabili ma tangibili come i sassi lungo la strada, come la coda dei gatti, come l’esistenza delle montagne, delle distese di alberi, delle onde formidabili del mare che sbattono e deflagrano contro gli scogli. Il nodo che ci aveva trattenute dalla ribellione si stava sciogliendo.
Quello che per tanto era stato taciuto, seppure patrimonio dell’intero villaggio, soffiato dalle donne al mercato, spiato attraverso le tende di casa, ascoltato attraverso le pareti era venuto a galla in modo irrimediabile. E questo giocava a nostro favore. Al punto da farci dimenticare che il nonno era ancora chiuso in casa.
Non avevamo sporto denuncia; il ricovero in ospedale che aveva reso pubblica la nostra situazione era già di per sé un deterrente, l’idea che le violenze subite circolassero ormai liberamente sulla bocca di tutti ci faceva sentire più forti e lui, sempre più debole, chiuso in casa e in se stesso, solo e invecchiato prima del tempo.
Ma qualcosa di superiore, alla stregua di un giudizio divino, della forza livellatrice della natura era il sentimento che ci legava, che ci rendeva uniche in mezzo agli altri, perché partecipi dello stesso stato d’animo, della stessa certezza interiore. C’era uno stato di grazia particolare, fra me e lei, superiore a quello che da sempre ci aveva unite. E questa particolare condizione era visibile, perché ci illuminava, fortificava e saziava. Una serenità immotivata era scesa su di noi. E ci rendeva persino più belle.
Avendo toccato il punto più basso delle nostre relative esistenze davanti a noi si parava un deserto tutto da riempire.
Senza aspettative particolari, se non quelle dei bisogni minimali. E la forza livellatrice della natura, quella che ogni giorno sentivamo sempre più tangibile, stava lavorando effettivamente per i fatti suoi ma, indirettamente, anche nel nostro interesse.
E’ brutto da dirsi, è uno scempio dell’anima ammettere che il male altrui potesse non solo restarci indifferente, ma addirittura gratificarci.
Qualche giorno dopo l’incidente la mamma andò a casa di nonna Olga. Doveva prendere alcuni suoi oggetti perché alle dimissioni ospedaliere lei era venuta ad abitare momentaneamente da noi.
La porta era chiusa e dentro Jude mugolava tristemente. Un’onda forte di calore paralizzò la mano di mamma sulla maniglia. Il cane si agitava, guaiva, era rimasto prigioniero col nonno. E la porta non si apriva, qualcosa di pesante ostruiva dall’interno lo spazio sul pavimento.
Mia madre era una donna intelligente e non nuova agli atti dissoluti del nonno. Pensò che lui potesse essersi ubriacato ed essere caduto davanti alla porta. Cominciò a chiamarlo: “Babu babu”. Ma il silenzio era riempito solo dalle unghie di Jude che grattavano ferocemente la porta.
Ci vollero tanta forza e un piede di porco a contrasto nella fessura che non voleva allargarsi. Ma già da essa si vedeva tanto sangue e l’occhio del nonno fermo, opaco, velato. Indubitabilmente un occhio senza vita. Ci vollero due uomini per scardinare l’infisso e spingere e liberare l’accesso.
Ci volle tanta forza per poter passare e constatare che nonno era morto da tempo. E per capire che Jude, involontariamente, nel tentativo di liberarsi da quella prigione maleodorante aveva raspato, graffiato, scavato per giorni. Sul legno antico e resistente della porta e sul corpo che lì davanti stava disteso, grosso e pesante, ma non più forte e cattivo.
Jude era una maschera di sangue e il nonno era un impasto macilento scavato dalle unghie del cane e dalla sua testarda violenta intransigenza.
Fu con compostezza che mia madre aiutò gli uomini, lavò e ricompose il corpo di suo padre, ripulì Jude e calmò la sua paura. Lo portò a casa nostra ed evitando la retorica ci comunicò che il nonno era morto e la mattina successiva sarebbe andata in comune per i documenti necessari alla sepoltura.
Nessuno pianse, solo la malinconia degli appuntamenti con la vita, e la morte.
Nonna ed io ci stringemmo e avvinghiammo ancora più tenacemente allo stato d’animo che ci aveva tenute vive, avviate verso un futuro che sarebbe stato diverso. Per tutti.
Ci raccogliemmo in salotto, sul divanetto verde, il cane disteso sul tappeto tondeggiante a bearsi dei nostri sguardi senza paura.
Non ci furono particolari circa la morte del nonno. Semplicemente, lui non esisteva più. Solo una volta diventata grande mia madre mi raccontò la precisa dinamica dell’incidente. E anche allora, ingollai la notizia, senza una parola. Ognuna di esse, semmai le avessi pronunciate, sarebbe stata di troppo.
Preferii stringermi a nonna Olga, alle sue dita nodose ma ancora calde e buone e, mentre mi addormentavo, in quel momento in cui il presente comincia a svanire e ad intrecciarsi con le immagini della mente, pronunciai poche parole: “Oggi ho imparato a volare!”
Quella era la sensazione di leggerezza che provavo e che neanche la morte riusciva a incrinare.
Da quel giorno nessuno ha mai più pensato di picchiare me, o la nonna, che la nostra forza e il coraggio che avevamo acquisito eran più solidi di una montagna.
I suoi figli, gli uomini che ho incontrato, chiunque abbia provato rabbia nei miei confronti mai si è permesso di alzare le mani su di me. Non glielo avrei permesso. Si legge nei miei occhi.

© Sura Bizzarri

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Monte Pellegrino visto dalla borgata di Acqua dei Corsari

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