"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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sabato 21 ottobre 2017

La falsa ribellione



 

C’è un'evidente ansia da campagna elettorale permanente, ben più che una preoccupazione per la sicurezza dei correntisti bancari e dei risparmiatori, nell'offensiva di Matteo Renzi contro il governatore della Banca d'Italia Visco. Non c'è alcun dubbio che il tema del risparmio, del credito e della solidità delle nostre banche agiti la pubblica opinione, che dopo i casi Monte Paschi, Etruria e Vicenza si sente esposta, raggirata e ben poco tutelata dai meccanismi e dagli istituti di salvaguardia del sistema. Quindi è comprensibile e persino doveroso che i leader trattino la questione in vista del voto, quando è il momento del rendiconto sul passato e degli impegni per il futuro. Ma Bankitalia non è l'Anas o la Cassa del Mezzogiorno: e delle banche si può discutere, e anzi si deve, ma senza gettare un'istituzione di garanzia nel tritacarne del vortice elettorale.
Che ci sia stato un problema di vigilanza allentata e di sorveglianza miope sulle fragilità che le banche italiane camuffavano è ormai fuori dubbio, perché tutti abbiamo sentito per troppi anni i controllori garantire sulla solidità certa dell'impianto, a partire da via Nazionale, e dallo stesso Governatore.
Ma se si considera che questa miopia viene da lontano, anche prima di Visco, nasce una domanda obbligatoria: dov'era la politica nel frattempo, che cosa capiva e che cosa faceva? Soprattutto, l'interrogativo è se la politica era dalla parte dei cittadini e dunque dell'interesse generale o piuttosto se era coinvolta negli ingranaggi più bassi che hanno rallentato e deviato il corretto procedere del mercato bancario: con una commistione insieme provinciale e onnipotente, che considerava il credito come un prolungamento della politica con altri mezzi, impropri ma utili a creare consorterie, consolidare confraternite, insediare nomenklature locali. Comperando consenso e potere, e inseguendo il conflitto d'interessi certificato dallo slogan "abbiamo una banca", piuttosto che la cornice di garanzia costruita con l'obiettivo di poter dire "abbiamo una regola".
Se si apre il libro delle responsabilità - in ritardo, con tutti i buoi già scappati e nutriti da un buon pascolo abusivo nel prato dei risparmiatori - il rendiconto deve essere dunque a 360 gradi e ogni soggetto politico e istituzionale della lunga stagione della crisi deve rispondere. A partire dalla Banca centrale, certamente, ma anche da chi ha avuto in questi anni responsabilità di governo e di indirizzo. Altrimenti si trasmette l'idea di un piccolo cortocircuito elettorale, con il giglio appassito che appicca l'incendio a via Nazionale perché non riesce a spegnere il fuoco che lo perseguita ad Arezzo.
E qui nasce un'altra questione, che va al di là della campagna elettorale e della stessa vicenda bancaria. Di fronte all'isolamento di cui ha parlato su Repubblica Stefano Folli, alla "biografia" civile di Bankitalia rievocata da Scalfari, Renzi ha infatti risposto ricordando che lui nasce rottamatore, e non intende cambiare. Forse non si è accorto che in questo modo ha evocato una natura più che una cultura, addirittura una postura mimetica invece che una politica. A parte la distorsione concettuale per cui la cosiddetta rottamazione per il segretario Pd si applica agli uomini, alle persone fisiche, e non ai loro progetti e alle loro azioni politico-programmatiche, viene da domandarsi quale sia l'universo di riferimento culturale di un leader se dopo tre anni di guida del governo è ancora prigioniero del ring agonistico di un wrestling sceneggiato che non finisce mai: dove lui e coloro che eleva di volta in volta ad avversari indossano maschere di comodo, sostituendo l'azione fisica all'azione politica.
Quando passa in rassegna il drappello d'onore della Repubblica, dopo aver ricevuto dal Quirinale l'incarico di formare il governo, anche lo sfidante più outsider si deve trasformare in uomo di Stato, facendosi carico di una responsabilità complessiva, che naturalmente interpreterà secondo la sua cultura e la sua vocazione politica. Renzi sembra fermo al ground zero della sua avventura nazionale. Senza avvertire che quella sfida iniziale ha portato nel sistema una fortissima tensione per il cambiamento, ma quando il cambiamento non si è realizzato la sfida permanente ha lasciato sul campo soltanto la tensione, che Gentiloni sta stemperando a fatica.
In questo ribellismo delle élite c'è la sciagurata illusione di inseguire il grillismo sui suoi temi, impiegando il suo linguaggio e mimando la sua riduzione della politica a continua performance, in una sollecitazione perenne dell'elettorato contro nemici ogni volta diversi, ma che evocano costantemente il fantasma della casta. È la costruzione succube di un universo gregario. Anche se in realtà Renzi insegue il se stesso delle origini, senza capire che proprio l'esperienza di governo dovrebbe aver arricchito il rottamatore trasformandolo in ricostruttore.
Resta una domanda: il Pd tutto questo lo sa? Ha mai discusso di questi temi? Ha mai chiesto al segretario di illustrare politicamente la sua cultura invece di limitarsi a esibire la sua natura? Ma arrivati a questo punto, proprio qui, si dovrebbe aprire la questione decisiva della natura del Pd: che resta l'unico segreto davvero custodito in Italia.



mercoledì 11 ottobre 2017

Fiducia su legge elettorale, un colpo di mano


Non è un colpo di Stato, come urlano i grillini in piazza, ma questa decisione del governo di mettere la fiducia sulla legge elettorale è un colpo di mano: gravissimo per la materia delicata di cui tratta (una materia di garanzia per tutti) e per il momento in cui avviene, a pochi mesi dalle elezioni politiche.

Giunge così a compimento nel modo peggiore una vicenda emblematica dell'impotenza dell'intero sistema politico, e della vacuità della legislatura tutta intera, e cioè l'incapacità del Parlamento e dei partiti di trovare un'intesa alla luce del sole che doti il Paese di una regola elettorale non basata su furbizie contingenti e vantaggi di parte, ma su un meccanismo in grado di restituire ai cittadini la piena potestà di scegliere i loro rappresentanti, con una regola riconoscibile dagli elettori e riconosciuta dall'intero sistema, capace di durare nel tempo al di là dei calcoli miopi di breve periodo. Restituendo così al meccanismo della rappresentanza quella stabilità e quella neutralità che sono parte indispensabile della fiducia nella politica e nelle istituzioni, oggi perduta.

C'è una contraddizione logica nel chiamare indecentemente in causa nell'atto finale il governo che non è intervenuto nel percorso della riforma - Gentiloni lo aveva sempre escluso, dunque deve spiegare cosa l'ha convinto a cambiare idea - perché faccia scattare il lucchetto della fiducia, troncando il confronto parlamentare per paura delle imboscate nascoste nel voto segreto.

Proprio lo spettro dichiarato dei franchi tiratori, che agita questa legge elettorale come i fantasmi abitano i castelli d'Inghilterra, è la prova patente di quanto poco i partiti-padri di questa legge si fidino della sua capacità di convincere e coinvolgere i loro parlamentari, come capita ad ogni confisca di sovranità politica da parte dei vertici più ristretti.

C'è poi una contraddizione tutta politica, clamorosa e sotto gli occhi di tutti: cosa c'entra un patto di maggioranza (riconfermato e blindato a forza con il voto di fiducia) con un provvedimento che nasce trasversale, a cavallo tra gran parte dell'area di governo e una certa opposizione, anzi per dirla tutta da un'intesa tra il Pd e Forza Italia con il concorso interessato della Lega e del partitino di Alfano? In questo modo si svilisce anche l'istituto parlamentare e lo stesso voto di fiducia, uno dei momenti più significativi del rapporto tra il governo e le Camere: qui invece ridotto a puro espediente tecnico, dove non è in gioco la fiducia e nemmeno il governo, ma entrambi diventano puri strumenti servili di un consenso indotto e forzato, con la destra che esce dall'aula per far passare in un giorno pari la fiducia ad un governo a cui si oppone nei giorni dispari.

L'ultima contraddizione - in realtà la prima - è del Pd, il partito che regge la maggioranza, il governo e ha chiesto la fiducia. In epoca di crisi conclamata della rappresentanza, queste operazioni servono solo a testimoniare un arrocco di forze politiche spaventate per un'autotutela ad ogni costo, dando fiato ai partiti antisistema che quanto più sono incapaci di produrre politica in proprio, tanto più ricevono forza dagli errori altrui. Avevamo sempre chiesto una legge elettorale: ma non a qualsiasi costo. Non con il capolavoro di un voto che sembra costruito apposta per creare sfiducia.



giovedì 5 ottobre 2017

La sinistra senza compagni e senza storia


Ci vorrebbe uno Spirito Santo progressista - professione sconosciuta - capace di toccare le orecchie e gli occhi della sinistra italiana, liberando finalmente lo sguardo e l'ascolto, su se stessa e sugli altri. L'inconcludenza politica annunciata e la tragedia tribale in corso infatti sono solo il risultato finale di un fenomeno più ampio e più profondo, che nasce dall'incapacità di leggere il mondo nuovo in cui una moderna sinistra deve agire, senza una chiara nozione politico-culturale di sé e del concetto di amici, compagni e avversari. Per un partito (in questo caso due, o addirittura tre) questo significa semplicemente una condanna mortale: stare fuori dalla storia, in cui invece vive solitaria la sua gente.
Non c'è nozione del ruolo di spina dorsale di un sistema malato che nonostante tutto la sinistra italiana ha esercitato per tutto il lungo periodo della crisi economico-finanziaria dell'Occidente: come se lo avesse fatto per caso e per sbaglio, e dunque questa esperienza dovesse essere nascosta al Paese, dimenticata, dispersa. Nessuno rivendica, molto semplicemente, il senso di responsabilità generale con cui una sinistra malandata e travagliata è tuttavia riuscita, tra errori, forzature e mancanze, a tenere insieme il Paese in questi anni. Perché non c'è coscienza che la responsabilità politica e istituzionale sia la forma moderna di un riformismo governante.
Manca in più la consapevolezza della frattura tra il mondo compatto del Novecento e l'universo frammentato della globalizzazione, che cancella le classi ma trasforma le disuguaglianze in esclusioni, rompendo l'alleanza storica tra capitalismo, welfare e democrazia rappresentativa, dunque mettendo in gioco il nocciolo stesso dell'identità politica dell'Occidente.
Non c'è, infine, lo sforzo di ragionare sulle conseguenze di tutto questo, e in particolare sul terremoto in corso nella rappresentanza: dove il ceto medio si sta spostando tra gli sconfitti della mondializzazione, in un nuovo magma ancora senza nome dove il precariato diventa la moderna interpretazione del proletariato. Ma gli occhi chiusi della sinistra e le sue orecchie tappate, l'incerta e indefinita nozione di sé fanno sì che queste nuove figure sociali non vengano intercettate e si disperdano ai margini della cittadinanza, in una nuova solitudine repubblicana, in uno spaesamento democratico dove crescono i risentimenti individuali, incapaci di trovare una traduzione collettiva, di costruire un sentimento comune, di farsi politica, di diventare una Causa.
Il risultato è il prosperare della destra, vecchia e nuova che lavora sugli individui più che sui cittadini, sugli stati d'animo piuttosto che sulla loro traduzione politica. Nelle forme salviniane scoperte, nella copertura mimetica grillina, nel finto moderatismo berlusconiano, cavalca le solitudini e le marginalità, ma più ancora la rabbia degli individui, non offre politica e governo, ma propone riconoscimento, legittima il risentimento, e lo indirizza verso i nuovi fantasmi sociali che è capace di creare, o almeno di ingigantire.
Ce n'è abbastanza per concludere che per la sinistra tutto questo è un allarme finale e insieme un'occasione straordinaria. C'è un avversario forte e definito - le due destre - da contrastare, c'è un popolo disperso e dimenticato da riconquistare, c'è uno spazio sociale da riorganizzare, c'è una scommessa culturale da giocare per ridefinire la propria presenza nel secolo. Sapendo che nello zaino di una moderna sinistra europea ci sono gli strumenti più utili per contrastare la crisi della democrazia, e cioè la libertà del merito, l'emancipazione dalle nuove povertà materiali e sociali. Insieme formano l'orizzonte naturale di qualsiasi sinistra di governo occidentale, consapevole della sua funzione e della sua storia. Basterebbe crederci, invece di rispondere all'emergenza globale con l'odio domestico e i veti intestini che paralizzano la politica, annullano la prospettiva, scambiano gli avversari, confondono il campo di gioco, immiseriscono la storia. La partita è aperta, mancano i giocatori. Immagino che lo Spirito Santo nella sua lunga esperienza ne abbia viste di tutti i colori, ma credo che in Italia davanti a questa sinistra senza compagni alzerebbe le mani, nascondendo l'aureola.


venerdì 22 settembre 2017

Di Maio e i dadi truccati dei grillini




Una paura inconfessata del mondo si specchia nell'unica sicurezza in cui si arrocca il Movimento 5 Stelle nel momento in cui lancia l'assalto al cielo: la chiusura oligarchica in sé, con una superstizione settaria e una fiducia religiosa. Come Ratzinger, anche Grillo è convinto che " extra ecclesiam nulla salus", perché non c'è salvezza fuori dal sacro recinto. È singolare come questi due sentimenti siano intrecciati nel procedere del partito, dal "V-day" fino alla farsa autolesionista delle primarie prefabbricate che investiranno Di Maio con una corona giocattolo, da grandi magazzini. Un movimento nato in piazza, convinto di essere generato direttamente dal popolo, alternativo al sistema, ai suoi riti stanchi e alle procedure più logore, si mostra incapace di darsi un metodo di democrazia interna coerente con quanto predica all'esterno e con l'idea di rinnovamento che propone, talmente radicale che dovrebbe semmai rovesciare l'antico motto cristiano, cercando il cambiamento ovunque si manifesti e in qualsiasi forma: " Ubi salus, ibi ecclesia".
L'anomalia è congenita e connaturata, come il conflitto d'interessi per Berlusconi o il bullismo politico per Renzi. Nasce cioè dalla concezione di sé, non come parte ma come un diverso tutto, che non vuole conquistare il sistema ma pretende di soppiantarlo. Ciò comporta, necessariamente, l'abolizione di ogni distinzione, e cioè del libero criterio con cui si forma ogni giudizio politico, per incasellare la realtà dentro uno schema di comodo basato sul pregiudizio, che accomuna tutta la politica precedente alla transustanziazione del comico in leader, come un'era barbara da rigettare in blocco. Non importa che in questa lunga stagione costellata di errori e anche di colpe ci siano tradizioni, esperienze, filoni culturali, testimonianze e personalità che hanno costruito la miglior storia d'Italia, avvicinandola all'Europa. E non importa neppure che nella capacità di distinguere, ogni volta e in ogni circostanza, risieda l'esercizio della libertà intellettuale del cittadino: l'unica cosa che conta è ridurre la politica "altra" a fascio indistinto, insieme con le istituzioni marce e i riti repubblicani vuoti.
Deriva dunque dalla differenza, più che dalla proposta, l'autocandidatura grillina non all'alternativa ma alla sostituzione di sistema. Una differenza che si vive come antropologica, irridendo gli avversari e sbeffeggiandoli, che si presenta come metodologica (nel culto elettronico del sacro Graal che dovrebbe garantire trasparenza e invece la confisca), ma in realtà è profondamente ideologica. Non si tratta infatti di tornare agli ideali democratici su cui è nata la repubblica, ma di trasportare il sistema nell'altrove grillino dove una casta di puri sostituirà un meccanismo corrotto e inaugurerà finalmente l'era della grande semplificazione, banalizzando - come avviene quotidianamente in Campidoglio - i problemi e purtroppo le loro soluzioni. Solo un piccolo mondo nuovo, compatto, rigidamente controllato, impermeabile e autosufficiente può sostituire il grande vecchio mondo che non si può emendare, selezionare, discernere, ma soltanto mandare al macero in blocco.
Soltanto che la rigidità del meccanismo cozza contro l'elasticità della teoria. C'è un capo supremo che tutti riconoscono ma che nessuno ha eletto, con titoli aziendali, manageriali e religiosi ben più che politici: il "fondatore", il "capo politico", l'"elevato". Nessuno ovviamente disconosce il carisma di Grillo sui suoi adepti, e nemmeno l'istinto politico. Solo che lo statuto speciale che si è attribuito lo colloca in un luogo esterno al controllo, alla verifica, alla trasparenza, al metodo democratico che l'articolo 49 della Costituzione prescrive ai partiti, un luogo di permanente arbitrio e di totale insindacabilità, che lo rende nello stesso tempo responsabile finale di ogni cosa, e a piacere irresponsabile di tutto. Quando poi Davide Casaleggio scende nel campo politico e amministrativo incontrando sindaci e parlamentari, dirimendo conflitti, decidendo priorità e strategie, l'affare si complica perché la mancanza di ogni investitura democratica è in più distorta dall'elemento dinastico, come se si potesse ereditare il ruolo di co-fondatore, l'approccio imprenditoriale per regolare dall'alto la politica, le chiavi misteriose del caveau battezzato con sprezzo del pericolo Rousseau, che custodisce solo per gli iniziati i percorsi e i destini di tutti.
È evidente che tutto questo cozza con la predicazione della trasparenza, con il principio della democrazia diretta (anche con quella indiretta, a dire il vero), con lo streaming inflitto a Bersani, con il disvelamento di ogni meccanismo decisionale, con il rovesciamento dei vecchi metodi castali, che ancora resistono nei partiti e determinano in buona parte il successo del movimento. L'unico principio che regge alla prova dei fatti è il famoso "uno vale uno", ma rovesciato rispetto alla rivoluzione che prometteva: davvero conta sempre e soltanto quell'uno nascosto in alto, che ha potestà di nomina e di veto come i signori feudali, ben più di qualsiasi leader di ogni vecchio partito. Quelli, infatti, dichiarandosi di destra o di sinistra si impongono un vincolo politico-culturale, a cui devono in qualche modo rispondere, e in base al quale vengono giudicati, mentre qui ogni piroetta è lecita, nel nulla identitario. Quelli, in più, devono fare i conti con il libero gioco delle correnti, qui invece totalmente assenti come dimostrano le primarie addomesticate coi figuranti attorno a Di Maio, e il silenzio amaro dei dissidenti, che hanno paura del fulmine dall'alto, capace di incenerire ogni dissenso.
Le finte primarie sono dunque il risultato di un metodo, che è un'aperta trasgressione ai principi fondativi del movimento, una deformazione delle sue teorie, una falsificazione politica. La miseria politica degli altri partiti non giustifica affatto la clamorosa anomalia grillina. Chi non ha altra base culturale che la purezza e la trasparenza, nascendo ogni giorno dal seno del popolo per riporre proprio lì la virtù salvifica di ogni scelta, ha infatti il dovere politico della coerenza: se non nei programmi, che sono più complicati perché dipendono anche da variabili esterne, almeno nel metodo con cui costruisce il suo gruppo dirigente, la sua leadership, la sua struttura interna.
Abbiamo ripetuto molte volte e inutilmente, davanti ai periodici grovigli del Pd, che un moderno partito è forte se disarmato, è nuovo in quanto aperto, è democratico perché scalabile e contendibile. Vale per tutti, naturalmente. E invece proprio nei 5 Stelle c'è il timore non solo di ogni convergenza democratica nei parlamenti (dove pure non esiste per definizione una verità assoluta, ma tante verità parziali che si possono combinare in quel gioco che si chiama politica), ma anche di ogni contatto esterno per definizione "impuro", e adesso addirittura di ogni possibile contaminazione interna che scombini la scelta dell'oligarchia di vertice, blindata proprio mentre si convocano le primarie, con una contraddizione clamorosa. La prova del 9 è l'intolleranza per l'informazione proclamata direttamente da Grillo ieri davanti ai giornalisti, mentre l'uomo del cambiamento, Di Maio, si inchinava a baciare la teca di San Gennaro: "Vi mangerei, anche per il gusto di vomitarvi". Non fa ridere, qualcuno dovrebbe dirglielo. Per paura, tacciono gli oppositori interni. Per connivenza, stanno zitti gli intellettuali esterni, pronti a crocifiggere ad ogni passo la seconda repubblica, come se non si facesse male da sola. Quanto alla terza, non resta che aspettare la ribellione cibernetica di Rousseau, come un moderno Hal, per dichiarare il gigantesco "tilt" democratico di questa odissea spaziale coi dadi truccati.



sabato 26 agosto 2017

Se la povertà è una colpa




Dai casi di cronaca, anche minimi, si ricava il segno dei tempi più che dai manifesti politici, proprio per la spontaneità degli eventi e la meccanica delle risposte da parte del potere pubblico e dell’opinione generale. In questo senso è difficile non trovare un collegamento emotivo, culturale e infine politico tra l’ultimo atteggiamento italiano nei confronti dei migranti sui barconi e le Ong di soccorso (criminalizzate in una vera e propria inversione morale) e lo sgombero degli abusivi dal palazzo nel centro di Roma, a colpi di idrante.
La questione di fondo è che la povertà sta diventando una colpa, introiettata nella coscienza collettiva e nel codice politico dominante, così come il migrante si porta addosso il marchio dell’ultima mutazione del peccato originale: il peccato d’origine. Unite insieme dalla realtà dei fatti e dal gigantismo della sua proiezione fantasmatica, povertà e immigrazione, colpa e peccato recintano gli esclusi, nuovi “banditi” della modernità, perché noi — i garantiti, gli inclusi — non vogliamo vederli mentre agitano nelle nostre città la primordialità radicale della loro pretesa di vivere.
Il fatto è che questi esseri umani ridotti a massa contabile, senza mai riuscire ad essere persone degne di una risposta umanitaria, e ancor meno cittadini portatori di diritti, sono improvvisamente diventati merce politica oltremodo appetibile, in un mercato dei partiti e dei leader stremato, asfittico, afasico. Impossibilitati a essere soggetto politico in proprio, si trovano di colpo trasformati in oggetto della politica altrui, che vede qui, sui loro corpi reali e simbolici, le sue scorciatoie alla ricerca del consenso perduto. Contro di loro si può agire con qualsiasi mezzo, meglio se esemplare. Senza terra e senza diritti, sono ormai senza diritto, i nuovi fuorilegge.
Ci sono due elementi che hanno determinato questo cortocircuito: il primo è il sentimento di incertezza e di smarrimento identitario che è cresciuto nella fascia più fragile, più periferica, più isolata e più anziana della nostra popolazione di fronte all’aumento dell’immigrazione nel Paese. Un sentimento di solitudine a casa propria, di perdita del legame collettivo di un’esperienza condivisa, e quindi di indebolimento comunitario: che è ormai mutato in risentimento, annaffiato e concimato per anni da una predicazione politica selvaggia e irresponsabile, che trae le sue fortune dalla paura dei cittadini più deboli, puntando a infragilirli ancora invece che a emanciparli.
Poi si è aggiunto il secondo elemento, psicopolitico. La sensazione che il mondo sia fuori controllo, che i fenomeni che ci sovrastano — crisi del lavoro, crisi economica, crisi internazionale con gli attacchi dell’Isis — non siano governabili, e che dunque il cittadino sia per la prima volta nella storia della modernità “scoperto” politicamente, non tutelato, nell’impossibilità di dare una forma collettiva alle sue angosce individuali, e nell’incapacità dei partiti, dei governi e degli Stati di trovare politiche che arrivino a toccare concretamente il modo di vivere degli individui che chiedono rappresentanza e non la trovano.
Stiamo assistendo semplicemente — e tragicamente — al contatto e all’incontro tra la domanda politica più spaventata e meno autonoma degli ultimi anni e un’offerta politica gregaria del senso comune dominante, opportunistica, indifferenziata.
La prima chiede tutela quasi soltanto attraverso l’esclusione, il respingimento, il “bando”, accontentandosi di non vedere il fenomeno purché le città che abita siano ripulite e i banditi finiscano altrove, non importa dove.
L’altra asseconda gli istinti e rinuncia ai ragionamenti, sceneggiando prove di forza con i più deboli, alla ricerca di un lucro politico a breve, che mette fuori gioco ideali, storie, tradizioni, identità politiche, e cioè quella civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri che si vorrebbe difendere.
È chiaro che una risposta al sentimento-risentimento dei cittadini spaventati va data, ma la si può e la si deve cercare dentro un governo complessivo della globalizzazione, non privatizzando i diritti a nostro esclusivo vantaggio e usando la nostra libertà a danno degli altri, spinti sulle nostre sponde da un’angoscia di libertà estrema la cui posta è addirittura la sopravvivenza.
Siamo ancora in tempo per cercare insieme un pensiero democratico di governo che tuteli la libertà di tutti, unica vera garanzia politica: liberando la povertà dalla moderna colpa per restituirla alla dinamica sociale e sgravando il migrante di quel peccato collettivo che gli abbiamo caricato addosso, facendolo bersaglio di azioni “esemplari” che riempiono cinicamente il malgoverno delle città, il nullismo della politica.



sabato 19 agosto 2017

La Rambla, l'integrazione che dobbiamo difendere - Dobbiamo dare un nome ai luoghi disarmati dove consumiamo la nostra liberta. E il nome è quello della democrazia



Come una decimazione, hanno falciato uomini donne e ragazzi, indistintamente colpevoli di testimoniare un modo di vivere che loro rifiutano e combattono. Gli individui non contano: per loro conta la massa trasformata in bersaglio, la pura quantità stralciata sulle Ramblas dal popolo estivo della vacanza. 
Il tam tam estremista porterà le cifre del massacro come un bollettino di vittoria nei villaggi dove l'Isis si sta ritirando, svanito il sogno del Califfato: 14 morti, 130 feriti, che sono venuti da 35 diversi Paesi - da tutto il mondo - per trovare la morte a Barcellona. Un condensato di strage universale, proprio mentre a Turku in Finlandia si accoltellano i passanti sulla piazza del mercato del sabato, al grido "Allah akbar". 
Quel van bianco, costruito come strumento di lavoro per ridurre la fatica degli uomini e noleggiato come arma da lanciare sulla folla, testimonia in apparenza la vulnerabilità del nostro meccanismo sociale, dove tecnica, modernità e tecnologia possono essere rovesciate nella primordialità di un'arma impropria, quasi invisibile perché nasce dalla quotidiana abitudine strumentale del nostro vivere, di cui siamo abituati a servirci, ma da cui non abbiamo mai pensato di doverci proteggere. Finché quel furgone salta fuori dal contesto di regole e normalità che lo controlla e si lancia come una bomba sopra la gente, ieri a Nizza, adesso a Barcellona. 
Il fatto che questi attentati sorgano dall'interno del nostro costume civile rende difficile una prevenzione, perché possiamo difenderci da tutto, meno che dal nostro modo di vivere. Una sala da ballo a Parigi, un concerto a Manchester, una strada nel cuore della Spagna sono per definizione luoghi disarmati nel senso più ampio del termine, perché appartengono a quel tempo liberato dal lavoro che la nostra società si è conquistata per ordinarlo in un disegno di relazioni, appuntamenti, occasioni che organizzano una fruizione delle città, delle sere e delle notti urbane. 
In realtà dobbiamo pensare che la presunta e apparente modernità di questi attentati nasconde l'opposto, una religione trasformata in ideologia e scagliata in ritardo di secoli contro un mondo che rappresenta l'eterno confronto, ineliminabile, contro cui l'Isis sa di aver perduto in partenza e per sempre l'arma dell'egemonia, della sfida culturale, tanto da regredire all'epoca primitiva degli omicidi rituali. 
Ciò che ci rende vulnerabili è esattamente ciò per cui ci attaccano: la nostra libertà, di cui siamo custodi e praticanti imperfetti, ma consapevoli. La libertà dell'organizzazione della nostra vita, della sua combinazione con gli altri, della sottomissione spontanea alle leggi che ci siamo dati per regolare il nostro vivere sociale. Quei feriti di 34 Paesi falciati sulle Ramblas, testimoniano proprio questo, la libertà del movimento e della scelta, della vacanza e del lavoro, degli incontri e degli scambi, tutto ciò che fa di Barcellona - come di Roma, Parigi, Londra, Bruxelles e New York, dove tutto è cominciato con le Torri Gemelle - una città aperta, che guarda al mondo e sa ospitarlo nelle sue strade e nelle sue piazze, facendo mercato universale della sua storia, della cultura, dello stile di vita e dei suoi costumi.
Le Ramblas sfregiate a morte non sono dunque - non devono essere - una pura scena del delitto, un paesaggio inerte e indifferenziato. Sono espressione di un modo di vivere, parte del meccanismo quotidiano con cui la libertà si organizza in società, dopo essersi data norme, diritti, istituzioni. Noi dobbiamo dare un nome a questo spazio di quotidiana civiltà mondializzata, che l'Isis colpisce ipnotizzato proprio per marcare il suo particolarismo estremo, la sua irriducibilità, la radicalizzazione del suo rifiuto: solo così sarà possibile una lettura politica e non esclusivamente emotiva e sentimentale di quel che è accaduto e ancora accadrà. Il nome è quello della democrazia occidentale, di cui siamo cittadini infedeli e tuttavia testimoni inesauribili. 
È questa la cifra civile che oggi è sotto attacco e che dobbiamo difendere, per difendere ciò che noi siamo: o almeno ciò che vorremmo essere. 



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Monte Pellegrino visto dalla borgata di Acqua dei Corsari

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