"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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venerdì 14 ottobre 2016

Dario Fo compie 90 anni: “Sono anziano non vecchio. I vecchi ridono poco, sono nostalgici e di destra. E io a destra mai!”




Il premio Nobel per la letteratura si racconta: dall'incontro con la moglie Franca Rame alla nascita del figlio, dalla pittura al teatro. "Il giorno più bello della mia vita? Quando è finita la guerra: ricordo come se fosse ieri la festa dei paesi mentre si allontanava l'incubo della morte, delle bombe, di quella distruzione orrenda"




Lo cercano tutti per via delle novanta candeline. E giustamente lui obietta: ma io non ho fatto nulla di rilevante, compio soltanto gli anni. Il numero però è importante. Come lo è il padrone di casa, che ci riceve in un’assolata mattina milanese mentre la primavera albeggia al di là delle finestre. Siamo venuti tante volte in questo appartamento a parlare con Dario Fo dei suoi libri, dei suoi spettacoli, della politica. L’ultima, l’anno scorso, ci aveva lasciato con una frase indimenticabile: “Creare meraviglia vuol dire suscitare l’incanto in chi ti guarda. E attraverso il coinvolgimento passano al pubblico molte cose, per questo fare teatro è il mestiere più straordinario del mondo”. 

Di lui sappiamo quasi tutto, perché non ha mai smesso di lavorare, scrivere, recitare e nemmeno di far sentire la sua voce nel dibattito pubblico. Allora, in occasione di questo compleanno così rotondo e dunque così simbolico, abbiamo cercato di capire da dove arriva quel suo estro vulcanico che tanto ha dato all’Italia. 

Tutto comincia a Luino, il 24 marzo del 1926 quando mamma Pina dà alla luce Dario. Suo marito Felice, di nome e di fatto, è un capostazione con la passione per il teatro. Il più antico ricordo è “un fatto di sangue”, sullo sfondo c’è un binario: “Avevo circa tre anni. Vidi un ragazzo che attraversava in bicicletta la ferrovia. Cadde e si ferì profondamente una mano, in verticale. Gli andai vicino, la mano era tutta rossa di sangue. Era la prima volta che lo vedevo e ho scoperto che l’uomo è pieno di sangue. Poi è arrivato un signore che l’ha soccorso e gli ha stretto una sciarpa attorno alla ferita. E gli ha detto: ‘Andiamo in ospedale perché dovrai mettere dei punti’. Un’altra cosa che mi colpì moltissimo: non sapevo che le persone si potevano rammendare come faceva la mamma con i pantaloni sdruciti”. 

Un fatto traumatico. - E non è il solo. L’altro ricordo è di una notte in cui mi sono svegliato in casa e non c’era nessuno. Ho cominciato a strillare ed è arrivata una vicina. Mi ha consolato, con una perfetta recita a soggetto in cui ha inventato una scusa su due piedi e mi ha fatto riaddormentare. Ma appena i miei sono tornati mi sono svegliato: volevo sapere perché erano andati via senza dirmi nulla. Questi sono i due primi ricordi della mia vita. 

La sua scelta di arruolarsi giovanissimo nell’esercito della Rsi ha suscitato un mare di polemiche negli anni Settanta. - Ho scritto tutto in un libro: mi sono arruolato nell’esercito italiano, in quanto italiano e non in quanto fascista, per un brevissimo periodo. Mi sono arruolato per non essere deportato in Germania e alla fine sono andato nei parà perché per i paracadutisti c’era un periodo di addestramento obbligatorio e sapevo che la guerra era agli sgoccioli: in Germania non ci volevo andare, nessuno tornava. Alla fine sono scappato, perché avevano fucilato venti civili senza ragione. Non m’importava nulla che mi uccidessero: il mondo attorno a me ormai era solo brutalità, violenza, sopraffazione. Non m’interessava più nulla di come andava a finire. Sono andato a rifugiarmi in montagna durante le ultime settimane prima della Liberazione. Ma la gente del mio paese, quando sono tornato, non mi ha chiamato fascista. Ho soltanto cercato di salvarmi: ero un ragazzo. 

La sua prima vocazione artistica è stata la pittura. - Ho studiato all’Accademia di Brera, per otto anni. In quegli anni imparo a incidere, a dipingere, a scolpire. Però a un certo punto capisco che non siamo più nel periodo d’oro della pittura, con la guerra qualcosa si è rotto. Tanto è vero che anche i pittori già affermati cominciano a faticare. A un certo punto un importante mercante d’arte mi propone di entrare nella sua bottega. Cioè lui mi passava uno stipendio, ma in cambio voleva la gran parte della mia produzione. Mi lasciava una decina di quadri: all’epoca io producevo tantissimo, una tela al giorno. Lui si prendeva tutto, salvo che io fossi diventato molto famoso, allora avrei percepito delle percentuali sulle vendite. Capii che era una truffa e allora dissi basta, questo non è il mio mestiere.

E quindi? - Mi sono iscritto ad Architettura. Contemporaneamente lavoravo per aiutare mio padre a pagare le tasse e i libri: facevo il ragazzo di bottega in uno studio di architettura. Mi mandavano a fare dei rilievi, su cui producevo dei bozzetti. A un certo punto scopro che il terreno di cui mi occupo è vincolato, a uso agricolo. Allora vado dal titolare dello studio e gli dico: ma perché lavoriamo ai progetti su quel terreno che è vincolato? È inutile. E lui mi risponde: ‘Non preoccuparti, le vie del sorprendente in architettura sono infinite’. Un mese dopo, il Comune aveva cambiato la destinazione d’uso di quel terreno, da agricolo a edificabile. Per me fu una delusione grandissima. Disperatamente diedi le dimissioni. Non avevo un soldo, letteralmente, ed ero depresso. Continuavo a dimagrire perché appena mangiavo qualcosa, rimettevo. Un mio amico mi disse: ‘Ma io ti ho sentito recitare e tutti ti applaudivano. Sei bravissimo a recitare, è quello il tuo mestiere!’. 

Allora andò a bussare alla porta di Franco Parenti. - Esatto: andai lì con alcuni monologhi che avevo pronti e mi presero subito. Alle prove c’era Franca. Io la conoscevo già, attraverso una fotografia che avevo visto nel salotto di casa di sua madre a Varese, perché per caso avevo conosciuto il fratello. 

Ed è stato subito amore? - Dio… era meravigliosa: bellissima, affascinante, spiritosa. Bravissima sul lavoro. 

E corteggiatissima. - Lei mi piaceva moltissimo, ovviamente. A chi non piaceva Franca? Ma non era alla mia portata. Tutte le volte che la guardavo mi dicevo: ‘Non perdere tempo, non perdere la testa, non fare casini. Con tutti i pretendenti potenti e ricchi che ha…’. M’imponevo di non incrociare mai il suo sguardo, di non darle retta se mi rivolgeva la parola. Arrivavano fiori, regali, venivano a prenderla con l’automobile. Figurati un po’, io ero uno spiantato. Una sera però ci ritrovammo da soli. Io stavo uscendo dal teatro e lei mi disse: ‘Ma dove vai, Dario?’. Io, secco: ‘A casa’. E lei: ‘Non mangi?’. Le raccontai una bugia: ‘Ho già mangiato prima’. Ma lei aveva capito: ‘Stai dicendo una balla’. Non avevo una lira in tasca. Allora m’invitò lei: ‘Pago io. Ma ho soldi abbastanza per pane, salame e una birra. Ti va?’. Tutti i miei buoni propositi andarono a farsi benedire… Abbiamo attraversato Milano in lungo e in largo, quella notte. Io la accompagnavo a casa, poi lei insisteva per accompagnare me e io di nuovo lei. Abbiamo parlato per molte ore, una serata gioiosa e divertente. 

E quindi l’ha baciata? - Ma no! Anzi, non volevo mai uscire con lei. Inventavo delle balle, dicevo sempre che ero occupato, che non potevo. Una volta le ho detto addirittura che avevo un esame al Politecnico e che dovevo studiare e non era vero perché avevo già lasciato. Quella sera stessa, eravamo nelle quinte del palco, lei mi ha dato uno spintone. Sono finito con le spalle al muro e mi ha baciato. Questa è la storia. 

Siete stati insieme tutta la vita. Ma Franca a un certo punto l’ha lasciata. - Veramente mi ha lasciato un mucchio di volte. Quando è diventata soubrettona, in gergo si dice così, per una compagnia molto importante, la sorella le diceva: ‘Lascia perdere gli attori, sono dei perdigiorno. Che vita ti può dare Dario?’. Poi abbiamo fatto la pace, una volta che lei venne a vederci recitare. E tornò con noi per recitare ne Il dito nell’occhio. Poi ci siamo sposati in Sant’Ambrogio con il vescovo che aveva tenuto lì l’arredo di un altro matrimonio. Poi ci siamo lasciati almeno un paio di volte. Sempre lei. E aveva ragione, io ero sballato. Avevamo un successo incredibile, io ero circondato da ragazze bellissime che mi si offrivano… Allora lei disse basta. 

Tra queste distrazioni, non c’è mai stata nessuna che fosse importante? - Se fossi ipocrita, le direi che erano tutte storie senza importanza, occasionali. Avventure di nessun conto. Invece no: qualcuna tra queste ragazze si innamorava di me e io anche ero coinvolto. Ma Franca è sempre stata il centro del mio universo. Quando lei se ne andava e mi chiamava l’avvocato dicendomi ‘sua moglie si vuole dividere’, allora era un dramma. 

Franca l’ha mai tradita? - Credo l’abbia fatto per ripicca. Io ci soffrivo ma mi sentivo troppo colpevole, capivo che lei aveva tutte le ragioni. Però questi sono stati incidenti, inciampi. Non sono stati mai la chiave della nostra relazione. Ho avuto per Franca un amore assoluto, sconfinato, traboccante. Ricordo quando ebbe un incidente stradale, doveva dormire su una superficie rigida e si sdraiava sul pavimento perché sul letto non riusciva a stare. E io andavo a sistemarmi vicino a lei per terra. 

Le donne hanno con Franca Rame un debito di gratitudine per aver avuto il coraggio di raccontare la violenza subita nel ’73. Cos’ha provato lei quando sua moglie è stata presa? - Non ci sono le parole per dire la rabbia, il dolore, il senso d’impotenza. La cosa più terribile è stata quando sono venuti fuori i particolari, il coinvolgimento dello Stato e dei carabinieri, il brindisi alla notizia dello stupro. Il processo andato prescritto… (una lacrima minuscola scivola sulle guancia dietro gli occhiali da sole, ndr) 

Come ha fatto sua moglie a superarla? - Un professore nostro amico le disse: ‘Franca, denunciare non basta. La terapia devi fartela da sola, devi salvarti tu. Non basta che ne parli con i tuoi familiari o con qualche amico. Devi liberarti, devi raccontare. Fallo in teatro, è il tuo mestiere’. Lei, scuotendo la testa, rispose: ‘No, questo non posso farlo’. Un sera, mentre recitavamo uno spettacolo, lei aveva la scena dopo la mia, un monologo. Io ero dietro le quinte e improvvisamente capisco che non è il pezzo previsto, ma che Franca sta raccontando il suo dramma. La gente era sconvolta. Un coraggio da leonessa. E che esempio è stato per le donne! Quelli erano ancora tempi in cui le ragazze non potevano denunciare le violenze. 

Cosa le ha insegnato diventare padre? - Ho capito tardi l’importanza del mio ruolo di genitore, di quello che dovevo fare per mio figlio Jacopo. Lavoravo tanto, ero spesso fuori in tournée. Mi sono perso la sua infanzia: è mancata anche a me. Poi ci siamo avvicinati molto e sia io che Franca abbiamo capito che dovevamo vivere insieme la nostra condizione di genitori ed essere in pieno una famiglia. Oggi sono nonno e bisnonno, felice. Passo molto tempo con la mia famiglia: ora per questo compleanno arrivano tutti, mi manderanno a dormire in solaio! 

Parliamo di amici. - Sono sempre stato un ladro: di conoscenze, di sapere, di esperienza. Ho guardato i miei amici lavorare, li ho ascoltati e ho rubato, da tutti un po’. Quando ero ragazzino andavo in campagna a dipingere con i pittori adulti: li osservavo attentamente, copiavo. E pure all’Accademia. Io raccontavo storie, favole. Mi esibivo. Come giullare ero già famoso. E poi io chiedevo a mia volta di farmi vedere come si facevano le cose: ho sempre imparato rubando. Gaber, Jannacci mi chiamavano maestro: sono stati i primi. Ho insegnato loro alcune cose… Cadenzare senza esagerare, stare in scena naturalmente. Gli consigliavo di parlare con il pubblico, di creare un rapporto con chi li ascoltava. 

Qualche rimpianto? - Chissà perché me lo domandano tutti… Ho avuto una fortuna esagerata nella mia vita. Tutto quello che andava male, le crisi, i momenti distruttivi si sono sempre capovolti. Mi sono trovato spostato dal vento verso orizzonti diversi, cambiamenti, novità. Nessun rimpianto, davvero. 

Perché non ha mai voluto guidare l’auto? - Non m’interessava. Guidare è un’attività esclusiva, per cui non puoi mai distrarti. Ho provato una volta e ho capito che non ero adatto. Ma lo sospettavo: perfino in bicicletta cadevo perché pensavo a tutto fuorché alla strada. Poi c’era Franca, lei era così brava a guidare… 

I libri più importanti della sua vita? - Tantissimi. Le dico Memorie di un ottuagenario di Ippolito Nievo, che ho letto da ragazzo e amato moltissimo. Fino a un certo punto sono stato un vorace lettore di romanzi. Adoravo Dos Passos e Hemingway. Poi a un certo punto avevo delle curiosità che volevo togliermi, sulla Storia per esempio. Ho cominciato a leggere saggi e pubblicazioni scientifiche. 

Il giorno in cui le hanno assegnato il premio Nobel è stato il più bello della sua vita? - No! Il giorno più bello è stato quando è finita la guerra: ricordo come se fosse ieri la festa dei paesi, mentre si allontanava l’incubo della morte, delle bombe, di quella distruzione orrenda. Quando ho vinto il Nobel con Franca ci siamo detti: ‘Adesso non montiamoci la testa’. E abbiamo ricominciato a lavorare. 

Cos’è la vecchiaia? - Perché lo chiede a me? Io non mi sono accorto di nulla. Ogni tanto qualcuno mi diceva: ‘Guarda che tra un po’ compi novant’anni’, e io non ci davo peso. La vecchiaia ti viene addosso, all’improvviso. Io però mi sento anziano, non vecchio. E le spiego perché: i vecchi sono conservatori, sono nostalgici. Non fanno che ripetere ‘ai miei tempi’, hanno una mentalità chiusa, a volte ottusa. Non accettano le cose nuove, ridono poco. Sono ostili alla diversità. Io non mi trovo bene con quelli della mia età: peraltro i vecchi di solito votano a destra. E io a destra mai!






martedì 8 settembre 2015

"B. ha fatto molto. In peggio. E Renzi fa finta che non c'era".


Palavobis di Milano, anno 2002: Paolo Flores d'Arcais aveva organizzato la prima grande manifestazione per la legalità. Massimo Fini conclude il suo intervento con una citazione: «A brigante, brigante e mezzo». Il ministro Castelli, probabilmente ignorando che il riferimeno fosse una frase pronunciata da Sandro Pertini, a momenti voleva farlo arrestare. E dunque con Fini proviamo a capire cos'è stata l'opposizione al berlusconismo.

Proviamo a definire l'oggetto: cos'ha significato combattere il sistema Berlusconi?
Affermare il rispetto e il primato della legalità. Il suo opposto, il berlusconismo, è stato il riuscitissimo tentativo di affermare che la legge esiste solo per i poveri cristi. Infatti è stato creato un doppio diritto: uno per i poveracci, che obbedivano al «dura lex sed lex», e quindi «in galera subito e buttiamo pure le chiavi», come disse Daniela Santanchè; e poi un secondo diritto inesistente, riservato ai potenti che in sostanza erano legibus soluti.

L'antiberlusconismo che avrebbe paralizzato l'Italia quale sarebbe stato?
Ai tempi, quelli del Pd dicevano: «Non mi prenderai per un girotondino?». Cioè: non farmi il torto di considerarmi uno che chiede il rispetto della legge anche per i potenti. Tutto risale però agli anni Ottanta. Il tentativo di impedire a Berlusconi di possedere l'intero comparto radio-televisivo italiano fu fatto dalla magistratura. Poi intervenne Craxi e fu fatta la legge Mammì. Quando violi un principio, non sai mai dove vai a finire.

Perché il presidente del Consiglio ha scelto di dire adesso questa cosa?
Renzi rappresenta l'italiano tipo che durante la lotta tra fascismo e antifascismo aspettava di vedere chi avrebbe vinto per poi schierarsi. Nel periodo berlusconiano ha fatto il pesce in barile e ora gli fa comodo presentarsi come l'uomo nuovo, che non era stato toccato da quella contrapposizione né in un senso né nell'altro.

Il patto del Nazareno l'ha fatto lui.
Vero. Ma ha poco a che vedere con la questione morale: è un'intesa che poteva firmare con lui come con chiunque altro.

Bè, forse non proprio. Non è affatto neutro per un premier di sinistra stringere alleanze con Berlusconi.
Non è neutro nella misura in cui tratti con un «delinquente naturale» come lo ha definito il Tribunale di Milano. Però già allora Berlusconi era politicamente quasi morto.

Dicono: è una polemica vecchia e di nessuna attualità.
Sebra esserlo. In realtà non lo è se la traduciamo in battaglia per il rispetto delle legalità. La più grave responsabilità di Berlusconi - condivisa anche dalla sinistra – è stata di aver tolto al popolo italiano quel poco di senso di legalità che gli era rimasto.

E' vero che l'Italia è stata paralizzata?
E' stato fatto molto, ma in peggio. E' lungo l'elenco delle leggi che hanno cercato, riuscendoci in parte, di cancellare principi come l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Producendo effetti che durano ancora oggi, perché l'importanza dello Stato di diritto è molto scesa nella percezione dei cittadini. Mafia capitale ne è un esempio, ma è solo uno dei tanti.

All'inizio dell'ultimo ventennio era così?
No. La parabola di Di Pietro secondo me è la cartina di tornasole di questo ragionamento. Da eroe osannato, insieme al pool e a Borrelli, è diventato nel giro di pochissimo tempo il peggior nemico di quasi tutti. In fondo il sistema d'illegalità diffusa non dispiace agli italiani. Certamente non è il loro primo pensiero. Spiace dirlo, ma le battaglie che alcuni di noi hanno fatto sono state perfettamente inutili.

Gherardo Colombo, in un'intervista a questo giornale, ha detto che gl'italiani sono più sudditi che cittadini.
Ricordo nel 2002 una manifestazione di Micromega a piazza San Giovanni: c'erano un milione di persone: portare in piazza così tanta gente su un tema così - non per il lavoro o la crisi economica – non è facile. Il guaio è che non è servito a nulla. L'italiano oggi è fatto in questo modo, ma non è sempre stato così. Sono abbastanza vecchio per ricordare che negli anni Cinquanta l'onestà era un valore, nel mondo contadino, negli ambienti borghesi come in quelli proletari. E' una degenerazione etica e culturale cui hanno contribuito moltissimi fattori: Berlusconi è uno di questi, ma non il solo. Basta pensare a cos'era la televisione di Bernabei e cos'è stata dopo, con il pluralismo e infine con l'avvento del commerciale. Un processo che ha fatto rincretinire la gente: sembra che il popolo non aspettasse altro. Sennò non si capisce il capovolgimento per cui Tangentopoli da simbolo di riscossa è diventata un modello negativo. La democrazia è un sistema di parole, il modo migliore per ingannare la gente. Preferisco l'Isis...

Massimo Fini - Intervista di Silvia Truzzi (Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2015)


venerdì 24 luglio 2015

Della Valle: “Renzi bulimico di potere, Mattarella lo mandi a casa”

La prima cosa che Diego Della Valle dice è questa: “Da parte della maggioranza della classe dirigente c’è un silenzio preoccupante per la democrazia”. Lui lo rompe così: “Molte di queste persone sono costrette ad allinearsi al diktat del premier, ‘o con me o contro di me’. Tanti, immagino, faticano a esporsi. C’è una gran voglia, da parte di chi guida il Paese, di prendere in mano tutto il potere per governare come meglio gli pare. Chi tace di fronte a una situazione così grave diventa complice di questi sistemi”.

Vista a posteriori certamente sì. È stata utilizzata la buona fede dei cittadini che chiedevano un vero cambiamento, salvo poi fare il contrario di ciò che era stato promesso. Alla fine abbiamo visto un po’ di regolamenti di conti tra politici e il cambio di uomini che guidavano le aziende dello Stato con nuovi manager, amici del governo. Mi ha fatto saltare dalla sedia vedere come un vice ministro degli Esteri si sia dimesso per andare a fare il vice presidente dell’Eni, come se l’Eni appartenesse a Renzi. Nessuno ha spiegato perché e quale fosse il curriculum di questa persona. È solo un esempio, la lista sarebbe lunghissima. 

Cosa la preoccupa di più? 
La qualità e l’esperienza di questo governo mediamente scarsa, ad eccezione di alcuni ministri e di qualche altro che avrebbe potuto, con più tempo, essere all’altezza. Mi preoccupa l’approssimazione con cui un presidente del Consiglio, che non ha l’esperienza necessaria, guida un Paese con problemi molto più grandi di lui. Non dimentichiamo cosa faceva fino a un anno fa. Senza nulla togliere al mestiere di chi amministra il territorio, tra decidere i sensi unici di una città e la politica economica di un Paese, ce ne passa. Dico tutto questo senza nulla di personale contro Renzi, che conosco bene e che con me ha sempre avuto un comportamento rispettoso. Avrebbe fatto meglio a seguire il mio consiglio: prendersi qualche anno e prepararsi al ruolo. 

Nessun problema tra di voi, quindi? 
Mi spiace dover dire queste cose, ma qui non contano i rapporti tra noi. Conta fare un punto vero su cosa questo governo sta facendo: i risultati purtroppo sono molto pochi, le promesse sono state troppe. Ci siamo trovati dentro una specie di Truman show, spettatori della vita, principalmente mediatica, di un premier che racconta che le cose vanno bene e andranno ancora meglio. La realtà è ben diversa, piena di problemi, spesso anche di sofferenze, soprattutto per le persone più semplici: nessuno se ne occupa. Per guidare il nostro Paese c’è bisogno di qualcuno che abbia esperienza, autorevolezza e soprattutto che sia sostenuto dai cittadini. 

Loro obiettano che hanno avuto il 40 per cento dei voti alle Europee. 
Il 40 per cento, considerando il tasso d’astensione, si ridimensiona enormemente. Ricordiamo invece che gli italiani sono stati richiamati alle urne circa un mese fa e hanno detto con chiarezza che questo governo gli piace molto poco. Non gli hanno creduto, nonostante ministri e premier abbiano riempito telegiornali e talk-show. Segnale che dovrebbe essere colto dal mondo della politica: dall’esecutivo e dal Pd per fare autocritica, dagli alleati di governo per capire che non c’è un condottiero imbattibile alla guida, ma qualcuno che ha bisogno dei loro voti altrimenti non può andare avanti. Si ricordino come venivano trattati prima delle ultime elezioni, quando Renzi pensava di avere un consenso forte… 

Cosa significa? 
Oggi con un loro segnale – votando secondo coscienza e non secondo direttive politiche – potrebbero mandare a casa il governo. Per questo, rispettosamente, mi rivolgo al presidente Mattarella invitandolo a formare un nuovo esecutivo composto da persone che sanno le cose – perché le hanno anche vissute – e che accompagnino il Paese alle elezioni del 2018. 

Il Jobs Act l’hanno fatto. 
C’è qualcosa di buono, ma il punto è che il Jobs Act serve più a regolamentare il lavoro che a crearlo. Sul lavoro l’elenco delle cose che si potrebbero fare è lunghissimo. Per il resto – su sanità e sicurezza per esempio – basta entrare negli ospedali, basta girare per le periferie e nelle province per capire com’è a rischio la sicurezza, come sia gestito, senza strategia, il problema immigrazione. 

Da imprenditore cosa pensa del piano tasse? 
Nulla allo stato attuale, sono slogan da campagna elettorale. Quando presenterà un piano con proposte vere – con le relative coperture e la certezza di attuarle – allora le commenterò. 

I giornali scrivono che lei sta per entrare in politica. È vero? 
Un cittadino che si lamenta di ciò che secondo lui non va, deve per forza voler entrare in politica? Spesso questi argomenti vengono usati da alcuni politici furbetti per delegittimare chi non è d’accordo. Faccio l’imprenditore a tempo pieno e, considerando anche il mio ruolo pubblico, ritengo doveroso, quando ce n’è motivo, prendere posizione, anche se è scomodo perché ci si fanno molti nemici. Ritengo un dovere esporsi di fronte a questioni che mettono a repentaglio gli interessi della collettività. Bisogna chiarire che un governo non eletto dai cittadini sta tentando di prendere in mano il potere a tutti i livelli. Non possiamo permetterlo: metterebbe in discussione la qualità della nostra democrazia. 

Il mantra è che non c’è alternativa. 
In un sistema sano l’alternativa esiste sempre. Dobbiamo fare in modo che ci sia davvero, fermando chi abusa e incentivando tutte le persone che hanno voglia di occuparsi seriamente dell’Italia. Anche qui è determinante che il presidente della Repubblica – non me ne voglia se lo chiamo in causa – vigili con grande attenzione. 

Così però sembra un’auto-candidatura. 
Assolutamente no, ma non è nemmeno un modo per defilarmi: sono pronto a mettere a disposizione una parte del mio tempo, la conoscenza che ho di certe cose e, nei limiti delle regole, anche il supporto finanziario necessario per sostenere chiunque voglia occuparsi seriamente del futuro del Paese. Con l’idea di preparare una classe dirigente e politica che voglia veramente bene all’Italia. Sia a destra che a sinistra, nell’attuale scenario, ci sono molti esempi di persone che hanno queste caratteristiche. Ma che spesso sono tenute nell’ombra perché non appartengono a nessun giro o perché non accettano di baciare nessuna pantofola. Io non ho nulla da chiedere in cambio. 

E “Noi italiani”? 
Non c’entra nulla: “Noi italiani” è un contenitore legato al mondo della solidarietà. Un accentratore e un acceleratore di aiuti alle persone in difficoltà. Lavoriamo da due anni a questo progetto, lo presenteremo in autunno. 

I cittadini contano sempre meno? 
Lo dimostrano la riforma del Senato e l’Italicum, che ancora non ci farà scegliere buona parte dei nostri rappresentanti. E poi la Rai, la vera battaglia del premier: proverà a chiuderla in fretta. Il tentativo è quello di far passare la tv di Stato non più sotto il controllo del mondo politico allargato, ma sotto il suo controllo. Il governo Renzi è straordinariamente debole: non ha il consenso della gente, non può imporsi agli alleati perché ne ha bisogno. L’idea di prendere in mano definitivamente anche la Rai è fondamentale. Ma non basterà comunque. Renzi dovrebbe prendere atto che deve studiare seriamente per qualche anno, farsi una squadra all’altezza. Allora potrà presentarsi al giudizio del popolo. Se verrà votato da molti avrà anche la legittimità per governare. 

Berlusconi adesso parla bene di lei. 
Berlusconi e io ci siamo sempre detti le cose con chiarezza, spesso anche con forte determinazione. In questo caso mi ha fatto un complimento. Lo prendo come tale.





venerdì 6 febbraio 2015

Autografi - L'intervista di Silvia Truzzi

Si vedono i grattacieli dalla finestra di questa casa in zona Repubblica. Ma è molto più interessante guardare dentro il salotto che così tanto assomiglia a chi lo abita. Due macchine da scrivere, librerie sterminate, divani scoloriti, quotidiani sparsi, un tiro a segno al muro, pacchetti di Gauloises rosse a cui staccare il filtro. Massimo Fini ha la sua divisa, maglietta e camicia in jeans, in faccia un sorriso irriverente, come tutto il resto in lui. Si comincia subito, quasi prima di sedersi, e subito la prima cosa sono i giornali (Il Fatto, l'ultimo approdo: del Fatto sul Fatto parleremo solo per lo stretto necessario). La bussola dell'inquieto girovagare tra i quotidiani è la libertà: l'autonomia, la dignità, il potere, quelli che pagherebbero per vendersi. Con Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, «Quale libertà ci può essere se l'obbedienza la si compra?».
L'alba è il 1943, l'anno delle bombe terribili su Milano. «Potrei dire, con più ragione di Bernard Henry-Levi, che sono figlio di due dittature. Mio padre era un pisano antifascista, a un certo punto è costretto a migrare in Francia. Mia madre era un'ebrea russa: per motivi uguali e contrari fuggiva dal bolscevismo. S'incontrano a Parigi, dove vivono fino al '40. Quando Italia e Francia entrano in guerra, mio padre decide di tornare. E fa quel pochissimo di resistenza che si può fare al Corriere della sera, senza vantarsene mai. Mia sorella nasce a Parigi nel '35 e io nel '43, nel momento più tragico della Seconda guerra mondiale, a Cremeno sul Lago di Como, dove i miei erano sfollati».
E poi, Milano.
Prima vivevamo in periferia, in una casa diroccata, molto bella. Quando venne costruita la casa dei giornalisti ci trasferimmo. Mio padre faceva il giornalista, ma io sono entrato in questo mondo quando lui era morto da dieci anni e in un giornale, l'Avanti!, dove se avessero saputo che ero figlio di mio padre non mi avrebbero mai preso.
Il primo lavoro è stato alla Pirelli.
Era il '69, mi ero laureato in Giurisprudenza. Avevo fatto un liceo sciagurato, tipo che in greco non avevo mai preso più di tre. Avrei voluto fare Filosofia, non avevo la basi. Volevo fare bene l'Università e infatti ci sono riuscito perché mi sono laureato con la lode. Aggiungo che mi è servito aver studiato Legge. Non tanto perché ho cominciato come cronista giudiziario, ma perché la logica formale del diritto mi è stata utile. Soprattutto nelle polemiche.
Uno non si immagina che lei abbia lavorato all'Avanti!
E' stato un periodo meraviglioso. Erano socialisti molto diversi, non erano al governo. Era un ambiente molto libertario, che mi suonava dentro. Io poi lavoravo all'Avanti! di Milano che era molto meno politicizzato di quello romano. Il capo era Ugo Intini, una persona onestissima e la cosa è clamorosa perché è difficile mantenersi onesti in un posto dove poi quasi tutti sarebbero diventati ladri. Eravamo in 22, undici erano funzionari di partito ma non contavano nulla, facevamo tutto noi.
Era stato compagno di banco di Claudio Martelli.
Al liceo. Però mi sono allontanato da Claudio nel momento della sua ascesa: non concepisce che l'amicizia resti un'amicizia, avrei dovuto, secondo lui, sopportarlo nella carriera. Ma io non sono nato per fare il servo né di Martelli né di nessun altro. Quindi si è rotto il nostro legame, ripreso nel momento della caduta. L'ho chiamato io, non c'era più nessun equivoco. Per un po' ci siamo frequentati, anche con le nostre fidanzate. Lui ne aveva, come sempre, una molto carina che era la figlia dell'ex dirigente del Sisde Michele Finocchi, ma era una bravissima ragazza. Poi quando lui risale -anzi pensa di risalire- scompare come sempre. Ricade e si rifà vivo. Come quando si è separato dall'ultima moglie, che lui aveva improvvidamente sposato quando aveva 58 anni e lei 28. Lei l'ha lasciato per un altro e questa cosa l'ha ferito a morte. Martelli è uno che quando tutti lo sfanculano, dice «ho sfanculato tutti». In quel caso era veramente un uomo dolente.
Ma l'Avanti! è una storia breve.
Dopo un anno e mezzo ricevo contemporaneamente due proposte, una dall'Europeo e l'altra dall'Espresso attraverso Camilla Cederna. Scelgo l'Europeo per ragioni totalmente irrazionali. Una sera un collega mi aveva detto: «Si sa com'è con quelli come te. Stanno da noi un anno poi vanno all'Europeo». E io scelsi l'Europeo sulla base di questa affermazione.
Chi lo dirigeva?
Il mitico Tommaso Giglio, un sadico da cui io mi sono salvato in modo molto puttanesco perché ero molto giovane e lui non aveva figli. Era bravissimo, ma ci costringeva a non fare i riposi, spolpava i colleghi. Resto fino all'79, quando arrivano i socialisti. E allora me ne vado: l'Europeo era sempre stato lontano dalla partitocrazia. Io lo definivo il giornale di destra più a sinistra o il giornale di sinistra più a destra. Succedevano cose incredibili, poco professionali. Un inviato arrivò da un altro giornale, a patto che fosse assunta anche la fidanzata, una con un culo bellissimo ma assolutamente incapace. Avevamo una straordinaria segretaria di redazione, rimpiazzata da bellissime ragazze che però non erano in grado di prenotare un volo: so ancora a memoria il numero dell'Alitalia di allora.
C'era anche Oriana Fallaci.
Con lei ho avuto un buon rapporto per un certo periodo. Poi siccome litigava con chiunque, ha litigato anche con me. Una piccola casa editrice le aveva chiesto di scrivere un'autobiografia per le scuole. Lei non aveva tempo e mi disse se volevo scriverla per lei. Accettai volentieri per stare a fianco di uno dei miti del giornalismo italiano. Abbiamo lavorato a questa cosa per un po'. Poi si è giustamente accorta che era uno spreco dare la sua vita a me. Ma siccome lei era fatta com'era fatta, non mi disse questo. Ma che improvvisamente aveva scoperto che ero una spia della Cia. Allora era antiamericana, quando passeggiavamo per Firenze bisognava sempre nascondersi dentro un portone perché, nella sua megalomania, era convinta di essere inseguita da qualche agente. Io sorridevo di questa megalomania, considerandola innocente. Poi mi sono un po' ricreduto.
Stava con Panagulis allora.
Lui era un viveur simpatico e divertente. La trattava in modo piuttosto rude. Mi ricordo una sera al ristorante, lui la prese a ceffoni davanti a tutti: era l'unico modo di trattarla, altrimenti lei ti mangiava, ti portava all'esasperazione. Era un periodo bello per Oriana: sentimentalmente era appagata anche se Alekos aveva altre donne. Quando lui muore, per lei è un mancanza terribile: perde lui e insieme i limiti che le dava. Il suo ego esplode.
Dopo l'Europeo?
Sto a spasso, vivo di collaborazioni. Poi faccio Pagina -una rivista liblab in cui io portavo l'anarchismo che è sempre stato il mio tratto- con Aldo Canale, un vero genio. Abbiamo molte colpe, però: abbiamo fatto scrivere per la prima volta Giuliano Ferrara, anche se lui nega. Ernesto Galli della Loggia e Pigi Battista che era il nostro ragazzo di bottega. Bravissimo, oggi totalmente guastato nel fare il mestiere. C'era anche uno sconosciuto Paolo Mieli.
Cosa nega Ferrara?
Che Pagina sia stato il suo esordio. In realtà lui aveva scritto solo per giornali sindacali. E Pagina era un giornale di nicchia che comunque vendeva 13mila copie. E' durato cinque anni. Ma è stato una grande avventura.
Poi arriva il Giorno.
Mi telefona Guglielmo Zucconi e mi dice: «Vorrei far commentare l'enciclica del Papa Laborem exercens da un cattolico e da un laico. Te la senti? Manda per le 4». Era mezzogiorno! Corro all'Ansa per avere delle anticipazioni, poi telefono a un mio amico comunista, perché i comunisti degli affari della Chiesa sanno tutto. Mi dà due dritte e faccio il pezzo, che sarebbe poi finito in prima. L'origine però era un'altra. Il vice di Zucconi, Magnaschi -il miglior direttore che io abbia mai avuto- mi leggeva su Pagina e gli piacevano molto le mie stroncature. E' lui che mi ha inventato come polemista. Con Zucconi, verso la fine degli anni Novanta, succede una cosa divertente: sono senza lavoro, lo chiamo perché lui è direttore editoriale del Giorno. Mi porta a colazione in un ristorante in via Senato ma capisco che non è tanto convinto di spendersi per me. Usciamo e all'incrocio con piazza Cavour una ragazza che passa in bicicletta inchioda, ignorando completamente lui. E mi dice: «Tu sei Massimo Fini! Ti leggo». Visto che lei era veramente bellissima, io ero preso da due contrastanti pulsioni. La cosa faceva un certo effetto al vecchio Zuc, ma non potevo chiederle il numero di telefono perché c'era lui. Ho lasciato andare via la ragazza, però sono rientrato al Giorno.
Il suo tempo di permanenza nei giornali è breve.
Non mi sono mai trovato bene in nessun ambiente tranne forse all'Indipendente di Feltri. Un'altra grande avventura. Eravamo liberi, liberi sul serio: il sogno di ogni giornalista. Quando venne arrestato durante Mani pulite il nostro amministratore delegato, noi uscimmo sparandolo in prima pagina, senza sconti. A Vittorio rimprovero di essersene andato: aveva fatto un miracolo, tenendo insieme teste, culture, visioni del mondo completamente opposte. E' stato un grande giornalista, il miglior direttore della sua generazione. Putroppo ha la moralità di una biscia.
Ci querela.
Sono sempre stato la sua cattiva coscienza, anche se ora abbiamo litigato in maniera irrimediabile.
Lei è stato un grande giocatore di poker.
Ho giocato, tra i tanti, anche con Raul Gardini, quando nessuno sapeva ancora chi fosse. Ma da come giocava si poteva capire la fine che avrebbe fatto: alzava continuamente la posta. Io non sono un vero giocatore, a me piaceva vincere. Il mio educatore sentimentale, Diego, invece era un giocatore. Come aveva vinto a Campione bisognava precipitarsi ai cavalli -gli stramaledetti quadrupedi- dove perdeva tutto quello che aveva vinto. Conservo i miei quaderni del poker: su dieci partite ne vincevo otto. Il mio limite era che non accettavo di perdere e quando perdevo, perdevo parecchio.
Ha raccontato Tangentopoli: come ha potuto il sistema sopravvivere pressoché intatto?
Dopo Mani pulite nel giro di due anni, con tutti i testimoni del tempo ancora vivi, si sono trasformati i ladri nelle vittime, i giudici nei veri colpevoli. E i ladri nei giudici dei loro giudici. Tangentopoli era un avvertimento, il sistema non l'ha voluto ascoltare. Ed è continuato tutto come prima. Con un'aggravante: quello che viene fuori da Roma oggi è peggio. Dire che è un fenomeno mafioso è fare un torto all'onorata società. La mafia è un cancro individuato, teoricamente, combattibile. Queste metastasi appartengono a tutto il Paese e non sono più controllabili. Siamo irredimibili.
Le monetine, infantile e violento rigurgito di coscienza, non hanno lasciato traccia. Perché?
Le monetine erano un eccesso. Il giustizialismo ovviamente non l'ha fatto la magistratura, l'ha fatto l'informazione. Feltri ipso, poi su quel giornale toccava a me difendere i figli di Craxi, che non avevano né i meriti né le colpe dei padri. C'era stata una reazione popolare, ma stampa e televisione aggiogate al potere hanno convinto la gente che i ladri erano vittime. Il Fatto non c'era, L'Indi era morto perché Feltri se n'era andato e se n'era andato con praticamente tutti tranne me.
Poi arriva Berlusconi. L'ha conosciuto?
Lo vedevo giocare a calcio dai salesiani, quand'era ragazzino: pretendeva di fare il centravanti e non passava mai la palla. C'era già tutto lui...Quelli così li chiamavano «Venezia», non so più dire perché. Decenni più tardi, l'Europeo mi manda a fargli un'intervista sul calcio. Mi è parso subito molto fuori posto, rispetto a dove abitava: con Villa Casati-Stampa, così elegante, non c'entrava niente. Ha altre qualità, non è un uomo elegante. Comunque a un certo punto, infastidito, mi dice: «Perché mi fa solo domande cattive?». Alla fine sono arrivate Barbara ed Eleonora: ho scritto che erano infiocchettate come uno pensa che i ricchi infiocchettino le loro figlie. Questa cosa l'ha fatto imbufalire, ovviamente ha protestato con il direttore. Un'altra volta ero a San Siro, ma non si poteva più andare nei popolari perché erano riservati agli abbonati e in curva nemmeno perché ero con mio figlio piccolo. Morale: finisco in tribuna d'onore, non proprio il mio posto. E c'era Berlusconi così vicino che avrei potuto ucciderlo, visto che non ci sono controlli all'ingresso. Ma non volevo passare alla storia per essere il killer di Berlusconi! Nell'intervallo molti colleghi importanti -Ostellino, Pirani- si affollano vicino al Cavaliere. Lui a un certo punto lascia tutta questa compagnia e si avvicina. E mi dice: «L'ho vista ieri al Costanzo Show». Io, secco: «Lei guarda proprio tutto». E me ne vado. Sapeva che io ero un antipatizzante, ma lui ha bisogno che tutti gli vogliano bene. Non rinuncia mai a sedurti. Nel '96, sotto elezioni, mi chiama la direttrice di Annabella e mi chiede di intervistare Berlusca. Chiamo l'ufficio stampa a Roma e lì ho la prima sospresa perché mi risponde Bonaiuti. Ora, quando eravamo a Roma Bonaiuti era più a sinistra di satanasso e io un fascista. Comunque, l'accordo è che io avrei inviato domande scritte e che poi ci saremmo visti ad Arcore. Bonaiuti, lette le domande, mi avvisa che ce ne sono alcune che non vanno bene. L'intervista non si è mai fatta. Allora gli ho scritto un biglietto: «Egregio Cavaliere, l'ho sempre criticata ma non le ho mai negato il coraggio. Vederla fuggire come una lepre impaurita davanti a tre domande non mi sembra degno di lei». Dopo tre ore arriva un fattorino gigantesco a questa porta e mi consegna una lettera piena d'insulti. Come scrive Nietzsche, anche la lettera più violenta è sempre meglio del silenzio.
Cosa poteva importare a Berlusconi di lei?
Lui ha questa attenzione agli altri, proprio per via del suo sconfinato narcisismo. Una cosa che la sinistra non ha ed è motivo del suo fallimento: questi girano con un'immotivata puzza sotto il naso, un'atteggiamento che poteva avere Amendola. Oggi un qualunque Pecoraro Scanio si permette d' ignorarti. Tornando alla domanda sul dopo Mani pulite e Berlusconi: quando il potere è in difficoltà si affida sempre all'uomo nuovo. Allora c'era il Berlusca, adesso c'è questo quaquaraqua.
Renzi, dice?
Sì, non mi piace per niente: basta guardarlo negli occhi per capire che è meglio non fidarsi. Sarò un uomo del Pleistocene, ma vorrei che le cose non fossero cinguettate via Twitter. Vorrei che venissero decise dal Consiglio dei ministri, portate in Parlamento, approvate. La politica degli annunci fa sì che non sai mai se un provvedimento esiste o è solo una chiacchiera. Renzi è un Berlusconi molto meno divertente.
Il governo è stato inaugurato dal proclama sulla parità di genere.
Una boiata. Non bisogna considerare le donne dei panda, è assolutamente insultante.
Tutte le volte che lei scrive qualcosa sul tema donne-uomini scoppia la terza guerra mondiale.
Io sottolineo solo che la sovrastruttura donna ha schiacciato troppo la struttura femmina. Comunque mi odiano le femministe e le brutte.
Per favore, il razzismo estetico no.
Per noi la bellezza di lei è un valore perché sennò non siamo in grado di andarci a letto. Dice George Bataille ne L'erotismo che la bellezza, l'umanità di una donna concorre e a rendere sconvolgente l'animalità dell'atto sessuale. «Non c'è nulla di più deprimente per un uomo della bruttezza di una donna sulla quale non risalti la laidezza dell'atto sessuale. La bellezza conta in primo luogo perché la bruttezza non può essere sciupata, là dove l'essenza dell'erotismo risiede nella profanazione».
Visione maschile di tutta la faccenda.
Vero. E sono generalizzazioni. Ma la penso così.
L'amore?
E' un'illusione necessaria alla vita, per cui carichiamo l'altro di una serie infinita di aspettative. Poi ti svegli di notte, ti giri, guardi la donna che dorme vicino a te e pensi: perché sto con questa qui?
L'uomo più straordinario che ha incontrato?
Rudy Nureyev, magnetico. L'ho visto la prima volta a una festa di «ragazzi così»- il modo con cui allora s'indicavano gli omosessuali del jet set- in una villa di Monte Carlo. Alle tre arriva lui, completamente ubriaco: si aprivano bottiglie di vodka e, alla moda russa, si buttavano alle spalle. La casa però era piena di specchi...Lui prende un ragazzo italiano molto bello, lo trascina in un ballo forsennato e in un attimo sparisce con lui in una stanza. La seconda volta l'ho visto alla Scala. Balla per 5 minuti e si pianta in equilibrio perfetto su una punta. Dal loggione uno grida: «Dio». La terza volta, lo intervisto al bar del Covent Garden di Londra e mi porto mia madre. Sapevo che gli omosessuali amano le vecchie signore e poi lei era russa. Era infagottato in un'orrenda tuta, eppure si percepiva chiaramente il sex appeal. Aveva occhi difficili da guardare, dentro c'erano delle fiammelle dorate. E sotto una fissità maniacale.
In un'intervista al Corriere ha parlato del suo incontro con Vallanzasca.
Ho cenato a casa sua pochi anni fa. Non è più il bel Renè, ha tutta la faccia spaccata perché in prigione gliene hanno fatte di tutti colori. Rappresenta la vecchia malavita con un codice d'onore. La prima volta che lo prendono a Roma, negli anni Settanta, in mezzo alla folla sociologizzante dell'epoca un giornalista gli domanda: «Lei si ritiene una vittima della società?». E lui: «Non diciamo cazzate». L'avrei ringraziato solo per questo. Ha sempre ammesso le sue responsabilità e ha sollevato altri che erano stati ingiustamente accusati al posto suo. E' un bandito onesto in una società dove accade che gli onesti siano dei banditi. Se mi chiede di scegliere tra Vallanzasca e la nostra classe politica, con gli affaristi di contorno, non ho dubbi. Quella malavita aveva codici e regole.
Che faceva negli anni della contestazione?
Il Sessantotto in Italia ha portato una sorta di conformismo al contrario. Non hanno capito che l'antifascismo non è un fascismo di segno contrario, ma è il contrario del fascismo. Se prima in Università dovevi andarci in giacca e cravatta, dopo dovevi andarci con l'eskimo. E poi i pestaggi trenta contro uno erano intollerabili, vili. Ho partecipato alle due prime occupazioni, poi ho levato le tende. Io sono nato negli anni Cinquanta, eravamo tutti poveri, nessuno se lo ricorda. Ma sulla strada c'erano regole: se uno cadeva a terra, non potevi toccarlo.
Fa il giornalista da quarant'anni: come sta il mestiere?
Non c'è più. E non voglio dire come faceva Bocca quando stava morendo che siccome lui stava morendo non c'era più giornalismo. Fatico ad aprire i giornali, ormai. C'è troppo di tutto, non esiste più il merito. Le firme sono scomparse. Montanelli e Bocca, per dire i nostri maggiori, avevano fatto trent'anni di campo e poi scrivevano gli editoriali. Adesso fanno fare gli editoriali ai ragazzini, spesso non sono altro che temini del liceo. Anche perché a trent'anni, cosa vuoi avere da dire?
E adesso, l'Italia?
Siamo un paese maleducato. Le persone si fanno continuamente sgarbi senza neanche rendersene conto, non esiste il rispetto dell'altro. Vedo molta mancanza di dignità, gente che si vende per niente. Se tu sei in uno stato di necessità e rubi, ti può essere perdonato. Ma non si può sputtanarsi per i cioccolatini o i boxer, e penso agli scandali dei consigli regionali. Una cosa che però si riverbera anche fuori dalla politica per cui se tu vai in piscina, ti fregano un paio di slip. Sporchi.


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